Moda Costume e Società

La tragica cultura degli asterischi

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Diceva bene il padre del folklore siciliano Giuseppe Pitrè(Palermo 1841-1916): “Il passato non deve morire esso vive in noi e con noi, ci accompagna e si manifesta  nelle strade, nelle piazze, sul letto nuziale, presso la culla o la bara, nelle feste, nei giochi, in chiesa, nei campi, sui monti: dappertutto. Insomma, vive e parla”. L’insigne demopsicologo ha evidenziato una grande verità frutto di leggi universali. Il passato torna sempre. Da parte delle nuove generazioni, oggi si nota una certa apatia nei confronti della storia. Nel 2020 l’abbattimento in America della statua di Cristoforo Colombo è stato il chiaro segnale di una insofferenza generazionale diretta alla cancellazione della “memoria”. Per taluni gruppi di giovani la cui filosofia è quella del “cambiamento a tutti i costi”, cancellare ciò che rappresenta il passato sarebbe un atto di giustizia contro ogni forma discriminatoria.  La parola razzismo sembra essere tornata prepotentemente nel lessico delle distorte ideologie.  “Biniritta ‘a giuvintu’”-qualcuno ironizza-“ca cècca tirìlli macari quannu non ci su”. Un’espressione dialettale che è tutto un “programma”. Se non siamo ai livelli della “rivoluzione” sessantottina, poco ci manca. Vi è in atto un grande cambiamento culturale che sta attraversando tutto il  pianeta. “Corsi e ricorsi storici avrebbe sentenziato il grande filosofo G.B. Vico. E’ vero. In forme diverse, sarà accaduto altre volte. Col tempo, il divario generazionale si fa sempre più serrato. La storia ce lo insegna. Non ha un punto d’arrivo perché sempre in continua evoluzione. Basta un evento storico, un conflitto bellico, un significativo evento ambientale o economico, per fare scattare la molla della protesta. All’interno delle famiglia, per effetto dello sbandierato “progressismo”,  già da diverso tempo i figli pretendono parità assoluta rispetto ai genitori. E questo, purtroppo, non sempre ha giovato ai fini di una corretta educazione. Si imputa alla scuola il presunto “fallimento educativo” delle nuove generazioni, quando ad essere messi sotto accusa invece dovrebbe essere proprio la famiglia.  Diversi i motivi troppo lunghi da elencare. Alla luce di certi comportamenti adottati dagli alunni più indisciplinati nei confronti dei loro professori, c’è chi rimpiange “ ‘a cucchiara ‘i lignu”. Questo strumento usato soprattutto dalle mamme, prima ancora di essere utilizzato in cucina serviva come “deterrente” contro la disobbedienza. “Sta iurnata a me figghiu ci rumpii ‘a cucchiara ‘i lignu ‘nte spaddi, accussì chiddu ca fici, no fa cchiù” era il commento di una mamma “d’altri tempi”. Nei bar, negli autobus, in famiglia, ovunque si discute di tutto questo. Il tema è sempre quello: L’educazione dei giovani. Qualcuno canticchia pure una canzone sottovoce: “Mudernità, mudernità, chistu è flagellu di l’umanità/ mudernità, mudernità/ non c’è cchiù amuri ne simpicità…/ Versi che ancora trovano sponda con chi gli “anta” li ha già superati. Indipendentemente dalle nuove esigenze, ancora resiste la nostalgia per passato. I giovani di oggi saranno i nostalgici del “domani”. Nei social vengono postate vecchie foto di famiglia, mostrati angoli spariti di paesi e città, ritratti ingialliti di anziani parenti scomparsi da tempo. Quanta emozione quando nel pomeriggio dedicato alla Tivvù dei ragazzi  si poteva scegliere tra le serie “Lassie” e “Rin Tin Tin”,  e il programma a quiz “Chissà chi lo sa”.  Le mode cambiano rapidissimamente e così le abitudini di ogni singolo individuo. Cambiano persino le terminologie. Quelle persone che una volta erano considerate “matusa”, oggi sono “boomer”. Un modo ironico di indicare tutti gli over 50 che usano poco e male la tecnologia digitale. Il mondo sembra dividersi tra gli “analogici”, quelli che ancora prediligono “carta e penna”, e i “digitali”. I primi col tempo spariranno, i secondi saranno quelli cui affidare la delicata gestione  “dell’Intelligenza artificiale”.

 

Pubblicato su "La Sicilia" del 22.07.'25

                                                                                                  

LE NUOVE TENDENZE CULTURALI NOCIVE

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Ma in che mondo stiamo vivendo? È una espressione d’uso corrente. “ ‘U munnu cancìau…” si sente dire; è una constatazione comune che l’anziano quanto il giovane condividono. Il filosofo greco “Eraclito”( Efeso 535-475 a.C) lo diceva:  “Tutto scorre”. E scorre davvero. Col tempo, questo ipotetico fiume “dove la stessa  acqua non può bagnare due volte,” è andato ingrossandosi fino a scorrere impetuoso….impietoso e  travolgente. E’ la perfetta metafora della vita di ciascun uomo nella società. Vero. Storici, filosofi, antropologi, religiosi, sociologi e scienziati vari hanno potuto constatare che nell’arco dei secoli la distanza tra le varie generazioni si è accorciata. La rapidità con cui i cambiamenti avvengono sono evidenti. Tendono addirittura a intensificarsi giorno dopo giorno. La “forbice” si è allargata a dismisura nei modelli di vita, nell’etica, e perfino nei linguaggi. “ ‘A viremu comu ni va’ a finiri…mancu vòli Ddiu d’accussì! ” si dice a Catania. Di contro c’è chi invece inneggia al progresso: “ ‘Na vota avèumu l’occhi chiusi…oggi ccu ‘nclik  facemu chiddu ca vulemu! Quando già negli anni ’60 dello scorso secolo si parlava di “Robot”e di macchine intelligenti capaci di superare di gran lunga le capacità  umane, c’era chi sorrideva di gusto. In un celebre film, il personaggio principale, un tale “Capitan Nemo che viveva in piena autonomia nelle profondità marine all’interno del suo super tecnologico sottomarino, sfoggiava la progettazione di  “modelli” molto simili a quelli attuali. A Catania, negli anni ’70, un certo Eugenio Siracusa che asseriva essere in contatto con gli extraterrestri, teorizzò un brusco cambiamento climatico con conseguenze catastrofiche  su tutto il pianeta. Non sappiamo ancora quanto ci sia di vero visto che a fronte dei fenomeni contrastanti finora riscontrati, neanche la scienza ufficiale è riuscita a venirne a capo.  Le tecnologie hanno favorito questi fenomeni, rendendo tutto più artificiale, virtuale ed estraneo rispetto a una società che  oggi stenta ad assorbire l’enorme squilibrio destinato purtroppo a crescere in maniera sempre più esponenziale.  “Cu ll’ava a diri ca l’omu hava arrivari supra ‘a luna… è un’espressione ormai superata”; Adesso si parla di arrivare su marte. Già, cu l’hava ’a diri!… 

La linguistica è la prima a risentirne. L’esterofilismo, dal dopoguerra in poi ha preso il sopravvento tra i giovani. Nella musica come nello sport, gli “inglesismi” hanno cominciato a  dilagare. Per i telecronisti sportivi, il fuori gioco era e continua a essere “ofside”; il calcio d’angolo “Corner”; il lancio laterale “cross”, e così via. Adesso, con l’evento dei social, si va per simboli e acronimi. Il campo ormai è vasto ed enciclopedico. Per una larga fetta di popolazione refrattaria al mondo cosiddetto on-line, si corre verso una nuova “Torre di Babele” di biblica memoria. Anziani e i dislessici in particolare sarebbero i più colpiti. Qualche avvisaglia si registrava già nel linguaggio cartaceo “burocratico”. “Chi è sta cosa?…chi significa?…picchì non scrivunu comu ci ‘nzignau ‘a maestra?!” si chiedevano gli antichi catanesi. “Sold out”.. “non ni putemu cchiù!” Il fenomeno dei social ne ha fatto una regola. L’uso è corrente. Per risparmiare tempo e fatica quando si scrive in modo diretto, si ricorre alle abbreviazioni. Una pratica che gli esperti informatici chiamano “slang di internet”. “Lol”( ridere forte); “Bro”(fratello, amico); “Gostare”(sparire senza spiegazione), tanto per citarne alcuni. Msg, Cfm, tvb, sono i più comprensibili perché…italiani. E’ tutto in…progress. Prima o poi saranno destinati a essere sostituiti da altri. Della serie: “Come ti faccio a fare sparire la lingua italiana. Più preoccupante ancora il manifestarsi della cosiddetta cultura “Woke”. Rientra nel novero della “cancel cultura” e del “politicamente corretto”.  Un fenomeno molto preoccupante proveniente dall’America, estraneo alla cultura europea. Nel tentativo di eliminare presunte ingiustizie sociali, parole ritenute “razziste” e “maschiliste”, propone di scrivere e parlare in modo neutro evitando il predominio del maschile sovraesteso. Come? Mettendo un asterisco al posto dell’ultima sillaba. Purtroppo in Italia, qualche dirigente scolastico la sta facendo applicare. Follie. Fortunatamente, per evitare certi “eccessi” pare stiano tornando i detti latini. Alcuni commentatori esteri, a proposito delle guerre in corso così si esprimono: “Si vis pacem para bellum”.  “Cui prodest? Verrebbe da rispondere.

 

Pubblicato su “La Sicilia” del 15.09.’25

                                                                                              

  

ANTICHI STILISTI CATANESI

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L’Italia ancora scossa per la recente scomparsa del “nostro” Pippo Baudo, a distanza di poco tempo piange la morte di Giorgio Armani. Così come avvenuto per il mondo dello spettacolo, stavolta è l’ ambiente della moda a esserne colpito. Un altro personaggio popolare se ne va. Se aggiungiamo anche la morte del giornalista Emilio Fede, il quadro funereo di questa estate può dirsi completato(si spera). “A picca ‘a picca si nni stànu jennu tutti” si sente dire in giro. Il Made in Italy, con la scomparsa del Re della moda, subisce una perdita enorme. Lo stilista piacentino ex vetrinista de “ La rinascente”, è stato il fondatore di un vero e proprio “impero” economico. Era noto soprattutto per aver imposto uno stile sobrio e innovativo al mondo della moda. E’ dal giorno della sua morte che le testate giornalistiche e dei media ne parlano. Lo faranno almeno fino al giorno del suo funerale. Dopo calerà il silenzio e sarà la storia a parlare per lui. Solo una eventuale coda polemica legata all’enorme lascito patrimoniale potrebbe riaccendere i riflettori sulla sua vita terrena. Ma per adesso, come si direbbe a Catania: “Co’ muttu a mmenzu a casa e ancora supra ‘a terra, si cianci e basta!” Quando si parla del mondo della moda, un riferimento alla nostra città è d’obbligo. Anche in questo affascinante campo si è distinta Catania. Dalla piccola alla grande sartoria, la storia della moda in Europa ma anche oltre oceano ha “parlato” catanese. Non è stato un semplice “balbettio” ma una “voce” autorevole. I nomi di oggi, titolari di Atelier di alta moda sono quelli di Marella Ferrera, di Mariella Gennarino  e altri eredi di una tradizione che non conosce pause. Sin dalla giovane età, erano le ragazze  a imparare il mestiere della sarta. “Si jeva ‘nta mastra” quantomeno per imparare a cucire un paio di pantaloni per il futuro marito, rammentare calze e magari allestire una gonna da indossare secondo i propri gusti. A ‘fera ‘o luni, ancora oggi si trova ogni tipo di stoffa. Gli “scampoli” erano a buon mercato. Le ragazze ormai signore che avevano imparato a cucire, riuscivano a “vestire” con pochi soldi tutta la propria famiglia. “Chidda àvi l’oru ‘nte manu” era l’apprezzamento più sincero e lusinghiero che si potesse fare. La donna che sapeva cucire era un vero e proprio “investimento” per il marito. Veniva di gran lunga preferito al posto di lavoro in fabbrica o altro. Per l’uomo era diverso. Il mestiere di sarto non era per tutti. Quei pochi uomini che lo praticarono, ebbero però campo libero. Bisognava avere passione e arte. Anche un pizzico di coraggio, perché secondo certi “pregiudizi” la professione del sarto non era “roba per uomini”. E invece, una volta appreso il mestiere, era tuttu “santu e binirittu”. A Catania, a cavallo tra glia anni ’60-’80, i sarti più noti si chiamavano Giuseppe Risicato, Giovanni Isaja, Paolo Filippini, Nello Caponetto, tanto per fare dei nomi. Quest’ultimo spiccò per professionalità e intraprendenza organizzativa. Per tre decenni fu il promotore de “La forbice d’oro”, una  accurata selezione regionale per la Sicilia Orientale dedita a premiare i giovani sarti del momento. Il catanese di classe medio-alta, ha sempre preferito “Sfilàri finu” e non si è mai fatto mancare un capo d’abbigliamento “firmato”. Indossare un capo unico fatto su misura, era un chiaro segno di vanità perché non tutti potevano permetterselo. “L’omu capricciusu” e ambiziosetto, affidava volentieri il suo Look al sarto di fiducia. Non badava a spese. Senza parlare di chi per ragioni istituzionali o professionali aveva la necessità di presentarsi con capi di abbigliamento adeguati al ruolo svolto nella società. Fino agli anni ’90 dello scorso secolo fu così. Quando si affermarono gli abiti “confezionati”, cambiarono le abitudini. Immersi sul mercato, invasero lo spazio a scapito della qualità artigianale. Ma come non parlare dello stilista catanese più famoso in ambito internazionale? Si chiamava Angelo Litrico( Catania 1927- Roma 1986). Nato poverissimo e senza cultura, col tempo divenne ambasciatore  della moda maschile in tutto il mondo. Una vera eccellenza in questo settore. Estrose le sue creazioni, sempre adatte per ogni circostanza.  Conseguì riconoscimenti  e titoli onorifici italiani e stranieri. Fu il primo in Italia a firmare un contratto con una grande casa giapponese; ne seguirono altri  in quasi tutti i Paesi d’Europa , negli Stati Uniti, nel Sud Africa e in Australia.  Fu tra le personalità di spicco della “dolce vita” romana; vestì grandi statisti come John Fitzgerald Kennedy, Nikita Krisciov, Richard Nixion, Giulio Andreotti; attori come Vittorio Gassman, Richard Burton, Gregory Peck. Tra i suoi clienti ebbe anche il cardiochirurgo Christian Barnard. Fu il sarto personale di Gianni Agnelli.  

 

Pubblicato su “La Sicilia” del 7 Settembre 2025                                                                                                      

Sant’Agata di mezz’agosto tra storia e leggenda

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La città è in festa. Si celebra oggi  l’899° anniversario del ritorno a Catania delle Spoglie di Sant’Agata. Il  venerato corpo della Vergine e Martire Agata venne trafugato nel 1040 insieme a quello di Sant’ Euplio e di San Leone il Taumaturgo, il vescovo che secondo la leggenda avrebbe sconfitto il mago Eliodoro bruciandolo davanti l’antica cattedrale. L’ autore del sacrilego furto, il generale bizantino Giorgio Maniace, lo avrebbe trasportato a Costantinopoli per consegnarlo come “bottino di guerra” all’allora imperatore Plafagone IV. Ma su quest’ultima versione non tutti gli storici pare siano concordi. Ultimamente circola una ipotesi più suggestiva e nobile: Maniace lo avrebbe fatto per sottrarre le sacre Spoglie dei santi cristiani agli arabi, sotto il dominio dei quali era la Sicilia. La lotta per spodestare gli “infedeli” a quel tempo si faceva di anno in anno sempre più aspra. Una possibile “caduta saracena” come in effetti sarebbe avvenuto trent’anni dopo ad opera dei Normanni, avrebbe potuto comportare gravi ritorsioni sui simboli cristiani della città. Sta di fatto però che il corpo di Sant’Agata, molto venerato anche dai Bizantini, prima che i soldati Goselmo(calabrese) e Gisliberto(francese) lo riportassero in patria, rimase in terra straniera per 86 anni. Tra storia e leggenda, c’è di mezzo tanta fantasia. Il viaggio dei due soldati sarebbe stato particolarmente lungo e avventuroso. Se fossero stati scoperti, li avrebbero passati immediatamente per le armi. Ebbero molto coraggio, anche perché secondo quanto narra la leggenda, Sant’Agata apparve in sogno a Goselmo. Lo avrebbe implorato di riportarla nella sua amata Catania. Il corpo di Agata, per essere trasportato, sarebbe stato smembrato e riposto nelle faretre dove i soldati solitamente riponevano le frecce. E qui di leggenda ne circola un’altra. Durante il viaggio in terra bizantina, Goselmo e Gisliberto sarebbero stati fermati da un gruppo di commilitoni. “Trasportiamo gelsomino” rispose Gisliberto a chi gli stava davanti. Un miracolo. Un profumo inteso si sparse per l’aria, tanto da convincere i soldati bizantini che era tutto vero. Da qui una tradizione ormai scomparsa da tempo a Catania. Fino ai primi anni ’70 dello scorso secolo, durante la festa di mezz’agosto, per le strade comparivano i venditori di gelsomino. Il mazzetto “piantato” nelle umide “sponse” di colore verde scuro, costava trenta lire. Tornando al viaggio. Lasciata la terra di Bisanzio, via mare le sacre Spoglie approdarono a Taranto e da qui a Messina. L’allora vescovo Maurizio che a quel tempo si trovava nella residenza estiva al castello di Aci, non esitò un istante a inviare due monaci benedettini nella città dello stretto. Le Membra riposte in una piccola bara, appena prese in consegna ripartirono via mare. Durante la navigazione, l’imbarcazione attraccò ad Alì Terme. In questa cittadina tutti gli anni si celebra il fausto evento. Da qui, prima di riprendere di nuovo il mare alla volta della residenza estiva arcivescovile, sarebbe stata solennemente trasportata in terraferma attraverso tortuosi sentieri fino a Taormina. Al Castello di Aci sostò un giorno: poi la processione fino a Catania. Il sacro drappello arrivò nottetempo nella città etnea. La consegna alle autorità cittadine avvenne al porto Ulisse (odierna zona del Rotolo). Era il 17 agosto del 1126. Il tragitto fino alla cattedrale venne salutato da due ali di folla festante e dallo scampanìo delle campane. I cittadini catanesi, con l’occasione, in segno di devota cristianità indossarono camici bianchi simbolo della purezza( e non vestaglie da notte). La veridicità dei fatti è narrata minuziosamente nella famosa epistola redatta dello stesso vescovo Maurizio. Il documento originale andato perduto probabilmente durante il terremoto del 1693, è stato attestato da autorevoli studiosi come il Carrera, Amico, De Grossis ed altri. “Un esemplare”-precisa la professoressa Mariuccia Stelladoro-“si conserva nel Liber Prioratus, passato dai monaci benedettini  al clero secolare”. Il vescovo Maurizio, inoltre, nel luogo dove avvenne la consegna( nella odierna via Calipso) fece costruire una “Cappelletta votiva” distrutta dalle lave del 1381 prima e definitivamente cancellata dalle mani dell’uomo nei primi anni ’60. Al suo posto venne costruito un asilo nido. Non è rimasta traccia: solo un anonimo eucaliptus piantato all’interno di un semicerchio di basalto lavico. Negli anni ’90, a ricordo, il comune si premurò a collocarvi una lapide. Tutto qui. La ricorrenza di Sant’Agata di mezz’agosto ha una importanza fondamentale per la storia agatina, perché da quel momento hanno avuto inizio i festeggiamenti Patronali che oggi tutto il mondo ammira.  

 

Pubblicato su “La Sicilia” del 17 agosto ‘25

 

                                                                                                          

Il Ponte che sta stretto

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Questa storia del ponte sullo stretto, sta diventando una vera scommessa: si fa o non si fa? ..Prego, signori, prego, si accomodino…si accettano scommesse…” Siamo nel grande casinò d’Italia.  Tra destra e sinistra, volano stracci. Lo scontro è forte e assume sempre più i connotati di uno scontro solo ideologico. Anche l’opinione pubblica vuole dire la sua. Nei mezzi pubblici come nelle piazze; nei salotti televisivi come nei social, il grande “circo opinionistico” è più attivo che mai. Nelle partite di calcio, i tifosi argomentano da “commissari tecnici”;  nel caso del Ponte sullo stretto, tutti a disquisire su questioni sociologiche, ingegneristiche e perfino idrogeologiche. Siamo un popolo di sapientoni. E’ il tema del momento, come se non esistessero problemi ancora più seri ed importanti. Intanto, non si parla d’altro. E’ la solita sol-fa. ”…E basta!”-sbotta qualcuno-“non si nni pò cchiù cu stu pusillicu!!!” Il termine “pusillicu” viene utilizzato quando si parla sempre della medesima cosa. Deriva dalla canzone classica partenopea che quasi sempre in maniera ossessiva faceva riferimento a “Posillipo”, stupendo quartiere residenziale collinare napoletano. Ancora oggi che tutto sembra andare a “gonfie vele”,  sono in molti a non crederci. I commenti sono i più disparati: “Tannu ci criu, quannu ‘u viu prontu…!” Qualche altro in maniera più scettica: “Campa cavaddu, ca l’evva crisci…” A quest’ultimo, come si può dare torto visto che da sempre se ne parla senza che nessuno mai abbia messo una pietra sopra l’altra? Tante le idee, mai una andata in porto. Tanti i progetti andati in malora. Tra questi il “tunnel sotto lo stretto” , simile a quello della “manica” che unisce la Francia con il Regno Unito. Tanti i soldi buttati al vento. Una storia affascinate ancora senza un lieto fine. “Il ponte Incantato”, il “ponte dei sogni”; non si è andato oltre la fantasia. Negli anni ’50, nella copertina della Domenica del corriere, un lungimirante artista pubblicò una vignetta che ancora oggi  fa sorridere: Riproduceva un carretto siciliano attraversare un inesistente ponte sullo stretto. Carrettiere e passeggeri erano allegri e sorridenti. Ma c’è pure chi non ci crede per niente: “ ah, sì ‘mu visti stu fimmi…”. Chi invece lo vuole davvero, brinda già al successo dell’operazione. I più “attempati” cominciano a fare calcoli: “ Ci volunu ottànni?…ca’ ràzia do’ signuri c’havissa arrivari…” Volendo raccontare la storia del Ponte tra le due sponde di Calabria e Sicilia, ci vorrebbe un bel po' di tempo. Le cronache sono zeppe di iniziative rimaste solo sulla “carta”. Dai Romani a Salvini, passando per  i Borboni, Craxi e Berlusconi, “ballano” ben 1775 anni. “Non è mai troppo tardi”, è vero; ma un proverbio catanese ci insegna pure che “Non si po’ diri bonanotti su non prima si va’curca”. Come dire che: se prima non finisce la giornata, qualcosa di brutto può ancora accadere”. I sostenitori del ponte, quelli più superstiziosi, staranno già toccando ferro. Adesso che si è sulla dirittura d’arrivo, è necessario tenere gli occhi ben più aperti. La sorpresa può sempre essere dietro l’angolo. Il compianto giornalista de “La Sicilia” Tony Zermo, da sempre sostenitore del “Ponte sullo stretto”, ne fece una battaglia personale. Intanto già sono partiti i primi ricorsi. I più agguerriti, come sempre, sono gli ambientalisti. Ogni volta che si è parlato di mettere mano all’opera, si sono posti sempre di traverso. Fosse per loro, lo stretto sarebbe meglio attraversarlo a nuoto. Le motivazioni non convincono del tutto, anche perché sono sempre le stesse: “L’impatto ambientale”-sostengono-“sarà devastante”, rischia di deturpare definitivamente il panorama e aumentare il tasso di inquinamento nell’area.  Inoltre: “ In caso di terremoto, la struttura rischierebbe di collassare”. Senza parlare della tesi secondo la quale una struttura così imponente disturberebbe il flusso migratorio degli uccelli. E poi ci sarebbe la questione delle possibili infiltrazioni mafiose; . Tutti argomenti triti e ri-triti.  A Messina e Reggio Calabria, la stragrande maggioranza degli abitanti sembrerebbe favorevole. Realisticamente sanno molto bene che un’opera così “grandiosa”, oltre a snellire il traffico veicolare perennemente intasato agli imbarcaderi dei traghetti, abbatte di molto i tempi di percorrenza. Tanti i benefici in termini di turismo. A detta di promotori,  tecnici e progettisti tra i migliori in circolazione, questo sarà il ponte a campata unica più grande del mondo. Le due torri altre di oltre 400 metri, saranno la vera attrazione. I treni faranno “unica tirata”. E i traghetti?…quelli ci saranno sempre. Sarà la volta buona, questa? Chi vivrà vedrà…”Cca semu”.

 

Nella foto, il progetto.

Pubblicato su La Sicilia del 10.08.’25

                                                                                              

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