Moda Costume e Società

LA BEFANA SEXY

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Non esiste periodo dell’anno più sentito del Natale. Il clima è gioioso, caratterizzato da luci sfavillanti e antiche tradizioni che affondano le loro radici nei Vangeli, nella storia e anche nella leggenda. Degli usi consumistici meglio non parlarne. La letteratura mondiale ha dato sempre un impulso significativo a questa festa. Teologi, scrittori, poeti, storici (religiosi e non), hanno voluto testimoniare le sensazioni del momento. Senza contare le tradizionali canzoncine natalizie, una delle quali, “Tu scendi dalle Stelle”( il cui vero titolo è “Quanno nascete Ninno”), reca la firma del venerato Santo nolano Sant’Alfonzo Maria de’ Liguori. Tra la ricorrenza di Santi, Natività, Capodanno e Epifania, la durata dei festeggiamenti supera i trenta giorni. Ecco perché quando tutto finisce, resta un moto di amarezza. “L’Epifania, tutte le feste le porta via”, recita un famosissimo proverbio. A solo sentirlo enunciare, scende il magone. Anticamente, l’usanza della “strina”(regali augurali) si svolgeva a Capodanno. Successivamente si preferì spostarla per l’Epifania. Così non solo i bambini furono contenti, ma presero in simpatia la “vecchina” con la scopa volante. L’intento sembrava essere anche di carattere educativo visto che solo ai bambini buoni sarebbero toccati i veri regali; mentre i “cattivi” dovevano invece accontentarsi del nero e inservibile carbone. Ma questa “punizione” raramente veniva comminata da papà e mamma. “La Befana vien di notte/ con le scarpe tutte rotte/ con le toppe alla sottana/ viva viva la Befana” è un’antica filastrocca che le maestre un tempo insegnavano ai bambini della scuola elementare. In epoca fascista, questa festa venne esaltata ai massimi livelli; tanto da renderla “nazional-popolare” a favore dell’infanzia. L’idea venne al giornalista Augusto Turati, destinato poi alla direzione del quotidiano torinese “La Stampa”. Era il 6 gennaio del 1928 quando fu inaugurata “La Befana fascista”. Commercianti, industriali e agricoltori vennero chiamati a donare regali ai bambini poveri. La raccolta e la distribuzione dei pacchi venne curata dai “Fasci femminili” e dal “Dopolavoro”. Fu un lungo periodo di felicità per i bambini che oltretutto poterono scegliere a seconda delle proprie preferenze ludiche. L’iniziativa ebbe un successo epocale, già agli inizi del 1931 i doni raccolti furono oltre un milione. Sotto altre denominazioni ma sempre con modalità pubbliche, la Befana fascista fu destinata a durare anche dopo la caduta del regime. In epoca repubblicana, gli Enti statali, municipali e provinciali dotati ciascuno di un “Dopolavoro”, continuarono la tradizione. A beneficiarne non furono più i bimbi poveri ma i figli dei dipendenti. Con il trascorrere del tempo, queste manifestazioni andarono progressivamente scomparendo, fino a cessare del tutto intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso. “Ma chi sarà mai questa misteriosa “Befana” che a cavallo di una scopa solca i cieli del mondo per dispensare doni a destra e e manca? É una strega o una fata? Al netto della funzione che la tradizione tipicamente consumistica le attribuisce, l’Epifania è una festa religiosa a tutti gli effetti: Celebra la prima manifestazione pubblica di Gesù Cristo, con l’arrivo dei Re Magi. In tutto questo vi è una precisa simbologia cristiana. Proprio dai Re Magi e della loro ricerca di Gesù Bambino pare sia nata la leggenda della Befana. Guidati dalla Stella cometa che annunciava la nascita del Salvatore, i tre Re attraversarono numerosi paesi con i preziosi doni. In ogni luogo in cui passavano, gli abitanti si univano a loro. Solo una vecchietta che inizialmente voleva seguirli, all’ultimo momento ci ripensò. Pentita di non averlo fatto, preparò dei dolci. Li ripose in un sacco rattoppato e uscì da casa. Cercò i reali senza però trovarli. Così cominciò a fermarsi presso ogni casa che incontrava lungo il suo cammino, donando dolciumi ai bambini: sperava che uno di essi fosse Gesù. Da qui la leggenda. Nella nostra tradizione popolare, la Befana ha assunto un significato legato alla sua origine rurale. Come Babbo natale, scende nelle case attraverso i camini. Secondo alcuni studiosi, tale usanza rappresenterebbe un simbolico punto di contatto tra il cielo, la terra e il focolare domestico di ogni famiglia. In quanto alla scopa-volante, sarebbe da attribuire ai suoi presunti poteri magici. Il personaggio della befana moderna oggi “gode” di una iconografia a volte anche sexy. Si fa chiamare Befy. E il poeta catanese non esita perciò a farle il “verso”: “E’ arrivata la Befana/Tutta gaia e tutta lieta/ non può fare la dieta/ perché il cielo glielo vieta./ E’ arrivata la Befana/ tutto vede e tutto sana/ ha la faccia un poco strana/ e si beve una tisana.(…).

 

Pubblicato su "La Sicilia" del 06.01.2024

TRADIZIONI SICILIANE: CAPODANNO A TAVOLA

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Tempi duri per chi vuol mantenere la linea. Le feste di Natale, oltre a tutta la simbologia legata al vangelo e alle tradizioni, esaltano pure l’arte culinaria. Chi è di “buona forchetta”, non vede l’ora che arrivino. “Panza mia fatti capanna!” e giù antipasti, insalate, primi e secondi piatti compreso il dolce finale. Di pranzi e cenoni luculliani, si comincia a parlare sin dal mese di novembre. “Doppu li morti, Natali è a li porti” recita un antico proverbio. A tutto si può rinunciare, tranne che ai piaceri della tavola. I peccati di gola?…e quelli, per una volta, possono anche essere perdonati. C’è di peggio. “Natali veni ‘na vota l’annu” per questo ci si prepara adeguatamente. Ma siamo sicuri che tra tutti i riti a rischio di estinzione non vi siano anche quelli legati alla buona cucina? In questi periodi, anche i menù tradizionali corrono il serio pericolo di essere profondamente stravolti. Cotechini, lenticchie, baccalà e tante varietà ittiche, potrebbero rimanere “lettera morta” in qualche antico ricettario. Gli influssi provenienti dalla cucina orientale, hanno una loro precisa responsabilità. Oltre alla tradizione, vi è da salvaguardare i numerosissimi posti di lavoro di questo comparto. Attorno alla gastronomia, gira una fetta consistente del mondo economico imprenditoriale italiano. Non può permettersi il lusso di bloccarsi. Un comparto, quello della gastronomia italiana, che ha sempre primeggiato in ogni angolo della terra. In tempi non sospetti si parlava di “pillole” che un giorno avrebbero potuto sostituire il pasto completo dell’uomo. Oggi non sembra più “fantascienza”. Non ci siamo ancora, ma si è sulla “buona” strada. La carne prodotta in laboratorio, quella che l’attuale governo ha vietato per legge su tutto il territorio, è un segnale ben preciso. E che cavolo! Anche questo? Qui non c’entrano più né preti e né professori, c’entrano i cuochi vegani, vegetariani e crudisti nuovi profeti del desco. Sono ancora pochi, ma ci sono. Operano in diverse parti nel mondo dove possiedono punti di ristoro molto frequentati. Predicano una alimentazione più sana e più etica di quella tradizionale. Vogliono cambiare la filosofia del consumo alimentare. Sempre alla ricerca di ingredienti biologici e selettivi; oltre al nutrimento fisico puntano anche a quello energetico per rafforzare anima e psiche. Tutto deve essere misurato. Secondo la loro teoria: “chi mangia molto è destinato ad ammalarsi prima”. “Ni volunu fari moriri ‘i fami vah! ” si dice senza mezzi termini a Catania. Questi “intellettuali” della culinaria, ricercatori sempre “sul campo”, hanno già prodotto una notevole quantità di ricette. Una di queste consiste nella preparazione di alimenti senza ricorrere alla cottura, o meglio: utilizzando tecniche che comportano procedure di essiccazione e marinatura tali che: se da un lato non presentano alcuna sofisticazione, dall’altro impoveriscono il cibo sotto l’aspetto nutrizionale. E questa sarebbe la nuova “Scienza del crudismo?”. Se tornassero in vita le nostre nonne, si arrabbierebbero sul serio. Intanto questo settore è sempre più in continua espansione. Agli chef “obiettori di coscienza” del secolo 2000, quale altra definizione possiamo dargli? Si muovono “nel rispetto degli animali”. Per questo hanno abolito pesce e carne dalle loro mense. “Perché mangiare cadaveri? ”sostengono. Per quanto nobile e condivisibile possa essere questo principio, la bistecca ai ferri è sempre la preferita. Arrostita alla brace, c’è da leccarsi i baffi. Pensate se al posto della salsiccia vi fossero degli involtini ripiene di ortaggi frullati o di “estratti”... Intanto, anguille e capitoni sono quasi spariti dalle tavole. Un tempo questo prodotto ittico della famiglia dei leptocefali abbondavano nel periodo natalizio. Dalle nostre parti, si pescavano nel nostro fiume Simeto. I pescatori le mettevano a bella mostra lungo lo “stradale primo sole” in attesa che qualche automobilista si fermasse per comperarle. Alla pescheria, nei pressi della gradinata posta alle spalle dell’ “Acqua ‘o linzolu”, c’è una botola dove è possibile pescare delle grosse anguille. Chi conosce il “trucchetto” lo fa durante le ore pomeridiane. Il consumo del capitone e dell’anguilla a Capodanno, ha un preciso rituale da Napoli in giù. Essendo la loro forma assai simile a quella del serpente( il nome latino anguis vuol dire serpente), mangiarle è come volere annullare il male che la mitologia attribuisce a questo rettile. Già Virgilio e Seneca parlarono di strani riti propiziatori con i serpenti che venivano tagliati e fatti a pezzi per ingraziarsi la benevolenza degli dei. Così oggi. L’anguilla viene tagliata a pezzi e messa a bollire. Non per ingraziarsi gli dei, ma per deliziare il palato dei commensali. Buon Anno.

 

Pubblicato su "La Sicilia" del 31.12.2023

 

CATANIA "IL MACHISMO"

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“Noi siam gli allegri scapoli refrattari al matrimonio, la donna è sesso debole ma è sorella del demonio”. Questo è l’incipit di una canzone che negli anni ’20 ottenne un successo clamoroso. La cantava Aurelio Cimato(detto Gabrè), un tenore fedele al regime. In questa occasione però andò contro corrente dividendo la platea maschile. La donna, durante il ventennio fascista, nel suo ruolo di madre di famiglia era considerata quasi una sacralità. Era preposta a procreare per il bene della Patria. Fatte le dovute eccezioni, fu la gelosia la causa scatenante dei più cruenti femminicidi avvenuti in quel periodo. In gran parte giustificati dall’allora “Codice Rocco” che comminava pene ridicole nei confronti dei mariti che si macchiavano di questi orrendi crimini. Da allora a oggi ne è passata acqua sotto i ponti. Nel frattempo, il concetto di famiglia si è notevolmente affievolito. Il ruolo della donna, addirittura capovolto. Le associazioni femministe hanno dovuto lottare parecchio per ottenere questo risultato. Parlare oggi di “Patriarcato”, è come vanificare il loro operato. Il “Patriarcato” è un concetto che non esiste più: almeno in Occidente. Abbondantemente superato dalla evoluzione dei tempi. Svuotato dei suoi antichi contenuti. Per dirla con l’uomo della strada: “ Oramài jè ‘na parola ca si rici”. A evocarne lo spettro, con molta probabilità è rimasto solo chi intende farne un uso politico di questo termine. Piuttosto è un certo residuato di “Maschilismo” che bisogna combattere. Obsoleto e irrazionale. La donna di oggi è una “manager” una professionista affermata. Possiede una propria “fisionomia sociale”, e questo ha finito per innescare uno stato conflittuale tra i “Generi”. Si parla di “Amori malati” per evidenziare il disagio causato dalla incomunicabilità delle coppie cosiddette “Moderne”. Il concetto di “Macho”, pur agonizzante, resiste ancora. Non viene accettato il fatto di essere questo un modello superato. Temendo un “sovvertimento dei ruoli” e sentendosi minacciato, chi ancora risente di questa pseudo “cultura” reagisce con atteggiamenti violenti, ingiustificati e perfino criminali. Anticamente era “normale” ascoltare senza indignarsi, frasi del tipo: “ Stamatina ‘ci rèsi ‘nsuttamussu ‘a me muggheri, picchì non m’ascutàu”. Per “Suttamussu”-nel gergo siciliano- si intende uno schiaffo a mano rovescia mollato sulle labbra di una persona. I mariti violenti lo usavano frequentemente contro la malcapitata consorte. Soprattutto quando questa prendeva parola oltre il “consentito”; ovvero: “Quannu parrava assai”.

Ma questa tipologia culturale ha retaggi arcaici. Senza andare troppo indietro nel tempo, accenniamo ai costumi del secolo scorso ereditati dai precedenti. Chi nasceva maschio, da sempre è stato un privilegiato. “Masculu è”, e giù zibibbo e biscotti. La mascolinità andava ostentata. La “privacy” questa sconosciuta! Vi era l’usanza di fotografare i bambini con “La ciollina”( genitale) di fuori. Questa non era considerata affatto una pratica “Vastasa”. Anzi. Orgoglio di mamma e papà. “Cummari Nina, cummari Vicenza/ tinitilu a lenza ca nasci ‘u nguà nguà/- cantavano le popolane nei cortili e nelle strade catanesi- “Su è masculiddu mannàtilu ‘a scola/ s’è fimminedda ‘a cosètta si fa”( Cummari Nina). Questo per comprendere meglio il destino che attendeva le figlie femmine. “Auguri e figghi masculi” era rivolto ai novelli sposi durante il tradizionale lancio di riso all’uscita della chiesa. Il detto “Ti mittisti l’acqua intra” ha un significato ancora più preciso. Riguarda il parto della donna quando questo avveniva in casa. Se il nascituro era maschio,l’acqua del primo bagnetto veniva scaricata per terra nel cortile: “‘A vista î tutti”. Ciò perché si capisse il significato del gesto. Le signore venivano subito a complimentarsi con la neo-mamma. Se erano presenti, anche con i parenti. Diversamente, calava il silenzio. L’acqua veniva tenuta rigorosamente nascosta per essere poi smaltita a notte fonda. Nella letteratura catanese, questo tema è trattato ampiamente. Basti pensare al “Gallismo” di brancatiana memoria. Un misto di seduzione e di erotismo tale da rendere gli uomini schiavi dei loro stessi desideri. Il catanese è stato sempre fiero della propria virilità. Giovani e meno giovani, assaltati dai “sensi”, si esprimevano con cenni di interessata riverenza. Un mondo dorato, fatto di sguardi “eloquenti”. Qui la donna veniva elevata alla massima esaltazione. C’era almeno la consapevolezza che questa non si dovesse picchiare “neanche con un petalo di rosa”. Il poeta Francesco Guglielmino, parlando delle proprie esperienze e quella dei siciliani, a Giovanni Verga si rivolse con una chiusa finale: “Siamo romantici”. La risposta del grande scrittore verista non si fece attendere: “Ma che romantici figlio mio: siamo ingravidabalconi”.

 Nella foto: scena di un corteggiamento "machista"

Pubblicato su "La Sicilia" del 26.11.2023

CATANIA: IL RESTAURO DEL CASTELLO URSINO

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Fino a a qualche mese fa, attorno al Castello Ursino regnava il caos. Motorini che sfrecciavano veloci tra le aiuole; pedoni costretti a camminare sotto i marciapiedi per evitare di essere travolti. Sporcizia all’interno dei fossati e telai di scooter smantellati in mezzo a quelle maleodoranti sterpaglie. Adesso non è che si stia tanto meglio, ma almeno è stato recuperato un po' più di decoro. E’ l’effetto di una maggiore vigilanza che, come diciamo dalle nostre parti, “Pi certuni ci voli com’ô pani”. Ma davvero a Catania ci vuole “ ‘na vaddia ppi ogni Cittatinu?” Forse il detto è un po' esagerato, ma quando in giro per i quartieri, in pieno giorno troviamo cumuli di spazzatura sui marciapiedi e discariche a cielo aperto che invadono le strade, scopriamo che è davvero così. Maggiori sanzioni per gli “sporcaccioni seriali” potrebbero costituire un ottimo deterrente. Effettuare i dovuti controlli oggi è più facile di ieri: basta volerlo. Di fronte a certe “brutture” che nuocciono gravemente all’immagine della città, non ci dovrebbe essere privacy che tenga: per nessuno. Ma torniamo al Castello Ursino. E’ di questi giorni la notizia secondo la quale, tra la fine di quest’anno e gli inizi del prossimo, dovrebbero iniziare i lavori di restauro. Ottima notizia. Si parla di un progetto risalente a tanti anni fa, la cui realizzazione non è mai avvenuta. Tutto secondo tradizione. Rientra nella “normalità”(salvo rare eccezioni) il fatto che il riattamento dei maggiori monumenti cittadini devono necessariamente subire ritardi consistenti. Le cose peggiorano quando si tratta di costruire nuove opere. I motivi hanno spesso un denominatore comune: la burocrazia. Tra ricorsi e contro ricorsi; tra una contestazione e l’altra, tra un piccolo problema e un altro più serio, il rinvio è sempre stato una “soluzione”. E’ il “cavillo” a fare sempre la differenza. Basti pensare che per realizzare una semplice “rotonda” dalle parti di “Bicocca”, anche se c’è stata la pandemia di mezzo, ci sono voluti oltre quattro anni. E’ accaduto di recente. Andando a ritroso nel tempo, si potrebbero citare altri esempi ancora più clamorosi. Tuttavia( mittèmu i manu avanti), salvo complicazioni, il progetto per il restauro del Castello Ursino sembra essere ormai sulla dirittura d’arrivo. Un nuovo restauro che va ad aggiungersi ad altri già eseguiti nel tempo. I lavori di questo fortilizio ebbero inizio nel 1239. Completati nel 1250. Vista la mole, un tempo congruo per le risorse dell’epoca. Braccia e ingegno. Per la sua costruzione, l’imperatore Federico II di Svevia si affidò all’architetto militare Riccardo da Lentini. Avrebbe dovuto rappresentare la potenza imperiale del suo committente, come dimostra il bassorilievo all’ingresso in cui è raffigurata l’aquila nell’atto di stritolare una lepre. Per spezzare eventuali velleitari tentativi di ribellione, Federico aveva messo Catania sotto il suo “tallone imperiale”. Inoltre, essendo stato realizzato anche per scopi difensivi, la sua collocazione fu a picco sul mare, a guardia di l’“Uffu”( Golfo). Da qui il toponimo “Castrum Sinus”(Castello sul Golfo), che per deformazione idiomatica ai nostri tempi giunse come “Castello Ursino”. Altre ipotesi, non sembrano essere state prese in seria considerazione dagli storici. La sua forma quadrata, alta e massiccia, simmetrica in ogni sua parte, è “ancorata” dalle quattro torri agli spigoli ( Torre dei martiri, Torre delle bandiere, Torre del sale e Torre dei magazzini) oltre a quelle semicilindriche poste a metà di ogni facciata. Ha sfidato il tempo. Ebbe tanta fortuna nel momento in cui, durante l’eruzione che nel 1669 colpì duramente la parte occidentale della città, venne solo accerchiato ma non distrutto dalla lava incandescente. Tutta la zona circostante subì una totale trasformazione. Non solo. Resistette indenne anche al devastante terremoto del 1693. Durante la guerra del Vespro, vi trovarono riparo gli Angioini. Fu sede della Regia Corte e del primo Parlamento siciliano. Quando prese il potere Alfonso d’Aragona, la residenza governativa venne trasferita a Palermo. Perdette così il titolo di “Reggia”. Durante la dominazione spagnola, l’edificio fu sede dei Vicerè. Da allora, avendo assunto diverse mansioni, subì profonde variazioni interne. Nel 1818 alcune sale vennero adibite a carcere. In epoca borbonica ospitò una guarnigione militare. Dopo il 1860 cadde lentamente in abbandono. In piena epoca fascista, nel 1932, il maniero venne dignitosamente restaurato a cura del Comune. Due anni dopo divenne sede del Museo Civico. Al suo interno si conservano preziose collezioni del Biscari e dei Benedettini, arricchite nel tempo da varie preziose donazioni d’arte. Gli ultimi lavori di restauro risalgono al 1988. Ma non si può dire che furono completati.

 

Nella foto, il Castello Ursino

Pubblicato su "La Sicilia del 12.11.’23

 

IL PIAVE MORMORO'

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Centocinque anni fa, il 4 novembre del 1918, dopo quattro anni di accanita ostilità, finiva la Prima Guerra mondiale. Era cominciata nel luglio del 1914. Finiva con una vittoria delle potenze alleate dell’intesa. Gran Bretagna, Francia, Serbia e Impero Russo( alle quali l’anno successivo si sarebbero unite l’Italia, la Grecia, il Portogallo, la Romania e gli Stati Uniti), sconfisse l’impero Austro-ungarico di Germania, sostenuto dall’Impero Ottomano. Battaglie su tutti i fronti: dal mare alle montagne; in cielo, tra le campagne e all’interno delle città. Alla fine rimasero sul campo milioni di morti, oltre a un numero imprecisato di dispersi e invalidi. I disertori vennero attivamente ricercati, e non sfuggirono alle fitte maglie della corte marziale. Una volta scovati, vennero puniti severamente con l’arresto immediato. Su di loro, la macchia indelebile del disonore. Medaglie e titoli cavallereschi invece per chi si distinse in rischiosi operazioni di guerra. Un “trofeo” che “Cavalieri” e medagliati varî, ostentarono in ogni sfilata e non solo. Delfino Borroni, ultimo Cavaliere di Vittorio Veneto, morì nel 2008 all’età di 110 anni. Il massimo riconoscimento, andò postumo a chi non ce l’aveva fatta. “Ma Lei che l’amava aspettava il ritorno”/-avrebbe cantato oltre cinquant’anni dopo Fabrizio De Andrè-“d’un soldato vivo; d’un eroe morto che ne farà?/ se accanto nel letto le è rimasta la gloria/ d’una medaglia alla memoria”(…) Questo conflitto si rivelò un vero massacro. Non solo tutta l’Europa, ma anche l’America ne fu coinvolta. La chiamarono “La Grande Guerra” appunto per questo. Nuove più sofisticate armi fecero la loro apparizione. Tuonarono cannoni dai grossi calibri su tutti i fronti, crepitarono le mitragliatrici; mentre i lanciafiamme incendiavano campi e…corpi. I Gas asfissianti non lasciarono scampo ai malcapitati “nemici”. Per non parlare degli scempi compiuti da carri armati, aerei, navi e sommergibili impegnati in epiche battaglie. A farne le maggiori spese, come sempre, i civili inermi. Lungo i “fronti” di guerra, si scavavano le trincee. Erano fortificazioni militari strategiche a scopo difensivo, costituite da lunghi fossati lineari scavati nel terreno per ospitare i soldati prima degli “assalti”. I poveri muli, caricati di tutto punto, si inerpicavano lungo i ripidi sentieri del Carso innevato. Anche loro ebbero una medaglia simbolica da appendere al petto. Sinonimo di forza e pazienza, asini e muli rimasero animali esemplari per la storia. Tutto ciò non è servito a evitare altre guerre, altre distruzioni e altri lutti. Negli anni sarebbe successo perfino di peggio. Se di barbarie parliamo, figuriamoci adesso che le armi possono colpire a grandi distanze. Lo stiamo constatando con i nostri occhi; fortunatamente non sulla nostra pelle. Che mondo è il nostro, se l’uomo che lo abita rischia di eliminare anche se stesso? “… E l’omu c’affacciò la testa ‘ncelu ppi curiusari ‘nta lu so’ distinu”-scrive un poeta dialettale contemporaneo-“non ci truvò ne’ vita ne’ camìnu… (…)”. Al termine delle ostilità, nulla più tornerà come prima. Questo accade tutte le volte che scoppia una guerra nel mondo. Allora non vi erano le televisioni a documentare passo passo, come accade adesso, la guerra attraverso le immagini; erano i giornali a diffondere i dispacci di guerra. Benchè il fronte bellico fosse concentrato tutto nel Nord-Est, la Sicilia dette ugualmente il proprio notevole contributo. Un contributo logistico oltre che di vite umane. Logistico perché la Sicilia fu tra le regioni italiane a ospitare più campi di prigionia. A morire furono oltre cinquantamila soldati siciliani, la maggior parte dei quali, giovani. Una intera generazione di siciliani fu spazzata via durante quella che venne definita una “inutile strage”. Molti soldati continuarono a morire anche dopo l’armistizio in seguito alle ferite riportate al fronte. Altri si spensero a causa degli stenti patiti nelle carceri. Imprecisato il numero dei dispersi. Si difese onorevolmente la Patria; la guerra fu vinta, ma quanti sacrific!?. Si rese onore al simbolo di tutte le guerre: Al Milite Ignoto. Circa 2300 furono i soldati catanesi rimasti uccisi durante questo conflitto che noi a Catania chiamiamo “Guerra do’ 15-18. In un primo momento, le salme vennero tumulate nelle cappelle delle diverse confraternite presenti nel cimitero della città. Poi su iniziativa dell’avv. Vito Pavone, medaglia d’argento al valor militare, si pensò a una sepoltura più “onorevole”. Costruito il Sacrario di guerra nel Monumentale Tempio di San Nicolò l’Arena, Il 4 novembre 1926, con una solenne cerimonia si è proceduto alla prima traslazione di 96 salme di caduti della Grande Guerra. Furono le prime, ma non le ultime.

 

 Nella foto, soldati sul fronte di guerra

 

Pubblicato su "La Sicilia" del 7.11.2023

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