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L’OTTAVA DI SANT’AGATA

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La processione finale in piazza Duomo, alla presenza dei devoti e delle autorità civili ed ecclesiastiche della città, chiuderà domani le celebrazioni agatine di quest’anno. Per incontrare nuovamente la Santa Patrona, se ne riparlerà il prossimo 17 agosto in occasione dell’898.mo anniversario del ritorno delle Reliquie da Costantinopoli a Catania. L’Ottava di Sant’Agata di solito è un momento intimo, dove i devoti danno il saluto finale con una profonda preghiera rivolta alla Vergine e Martire prima che il busto reliquiario rientrato in Cattedrale varchi la porta della cammaredda. “Nel ‘600”- ricorda lo storico militellese Pietro Carrera(1573-1647) nel suo libro più famoso “Memorie Historiche della città di Catania”- a partire dal 7 di febbraio e fino al 12, una reliquia giornalmente veniva esposta alla venerazione dei fedeli”. Usanza, questa, che ai nostri giorni non avviene più. Intanto è tempo di bilanci. La Terza festa in ordine di spettacolarità e presenze non ha deluso le aspettative. Anzi. Migliaia di persone, tra semplici cittadini, devoti e turisti, approfittando delle ottime condizioni meteo e dal weekend, hanno potuto godere pienamente delle fasi più salienti della festa. Che ogni edizione non sia mai uguale alle precedenti, è un fatto storico assodato. Potrebbe essere questo uno dei fattori che la rende famosa nel mondo. Tuttavia le iniziative si sono sempre mantenute nel solco della tradizione. La presenza attenta e costante all’interno dei cordoni dell’arcivescovo Mons.Luigi Renna, non ha precedenti. Con autorevolezza ha contribuito a mantenere ordine e compostezza alla processione. L’offerta della cera quest’anno ha superato nettamente quella delle edizioni passate, segno evidente di una devozione che tende ad aumentare col passare degli anni. Ben 18 scarichi di cera in più effettuate, un record. Alcune tradizioni appartenenti al passato sono state oggetto di curiosità, fra queste: il canto delle suore in via Crociferi. Fino a un ventennio fa si svolgeva nelle prime ore del mattino del 5 febbraio, quasi al rientro.  Si trattava di una “tappa” molto suggestiva di tutta la festa. “Il canto delle Clarisse”, dal momento in cui oggi avviene in pieno giorno, ha perso tutto il proprio “fascino”. Qualcuno si è chiesto il motivo per il quale continua a chiamarsi “Canto delle Clarisse” anzichè “Canto delle Benedettine” come oggi sarebbe corretto fare.” Il motivo pare sia legato agli itinerari degli antichi giri. Nel 1846 il percorso toccava 6 monasteri femminili di clausura (5 benedettine e uno di clarisse), rispondendo così al desiderio delle monache di poter “vedere Sant’Agata” dalle grate panciute del proprio monastero. Passando davanti al monastero delle clarisse di Santa Chiara nelle primissime ore della mattinata, le suore esprimevano il loro canto in lode alla Santa Martire. Non è più un tabù, invece, la “Cammaredda” luogo dove durante l’anno vengono custoditi Busto Reliquiario e Scrigno. Fino ai primi anni ’90 dello scorso secolo non era permesso neanche ai devoti visitarla. ‘A cammaredda fu ricavata in uno dei due vani aperti attraverso il poderoso muro dell’abside centrale. Dalle dimensioni piuttosto ridotte, sulla parete destra, attorno al loculo dove sono collocate le preziose reliquie chiuse da due ante coperte con lamine d’argento, si trovano ornati e pitture di ottima fattura. La stanzetta  è coperta da una volta a botte. La pittura più antica è la rappresentazione frontale della “Pietà” risalente al 1400. Gli affreschi delle pareti laterali raffigurano rispettivamente:  Lucia e la madre Eutichia in  preghiera davanti al sepolcro di Agata; I due militi Goselmo e Gisliberto autori del “lodevole furto” del corpo della martire “esule” a Costantinopoli;  Scene del rientro a Catania delle sacre Reliquie e l’esultanza del popolo catanese che le accoglie. 

 

Nella foto, ”Sant’Agata e il miracolo della lava”, Ceramica su pietra lavica  di Francesca Privitera(Coll.S.Privitera)

Pubblicato su “La Sicilia” dell’ 11.02.2024

                                                                                    

 

SANT’AGATA 2024

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La Festa di Sant’Agata ediz. 2024 promette bene. Quest’anno sono state messe in campo alcune interessanti novità. Degne di nota: la preghiera corale davanti alla “Porta delle Farfalle” a Librino, e il varo della quindicesima candelora. Quest’ultima dedicata al compianto Grand’ufficiale Luigi Maina. Insuperato organizzatore  di quella che viene considerata la terza festa più conosciuta al mondo, Maina per oltre sessant’anni si è speso per questa causa. Anche se non sono state tutte “rose e fiori”, il merito dell’ex cerimoniere del Comune di Catania è stato quello di aver concretamente coniugato passione, devozione e dovere. In ordine di importanza storica, Maina merita di essere considerato l’autentico erede di Alvaro Paternò, lo stesso che nel 1522 varò il primo cerimoniale per i festeggiamenti agatini. Chissà cosa direbbe di questa lodevole iniziativa che lo riguarda “alla memoria”: lui che di aggiungere altre candelore non voleva nemmeno sentirne parlare. “Sono 12 e finchè ci sarò io, 12 rimarranno. Poi quello che vorranno fare, faranno”, così diceva. Aveva visto bene. Le candelore comunque, in quanto portatrici di luce e arte, sono un patrimonio da amare e custodire. Nel corso dei secoli, il loro numero è variato. Nel XVI sec. ogni candelora era accompagnata da due consoli, o artigiani dell’arte, della confraternita cui apparteneva. Se ne contavano 22. Un secolo dopo arrivarono ad essere 28. Essendo di notevole altezza, a quell’epoca erano chiamate “Gigli”. E’ da ritenere però che tale appellativo possa essere connesso anche al simbolo purificatorio che esse rappresentano. Alla fine del sec XIX si sono ridotte a 15 fino alla ulteriore riduzione a 12. Nel frattempo avevano assunto lo stile Barocco che ancora oggi ammiriamo. Molte sono state abbandonate sulla via del progresso, altre invece continuano ad essere “Annacate” come da tradizione. Fino alla metà degli anni ’60 dello scorso secolo, venivano fatte uscire a partire dal 2 febbraio. In questo giorno si celebra la “purificazione di Maria. Il rito prevede la benedizione di ceri e candele nelle chiese. Per i devoti catanesi particolarmente legati alle tradizioni, la benedizione viene estesa anche al Sacco devozionale agatino. Durante l’anno, pure i ragazzini fanno girare la propria. Come materiale per la costruzione hanno usato cassette della frutta e cartone. Una vera attrazione che conferma come l’amore dei catanesi per Sant’Agata si trasmette da generazione in generazione. La portano in giro con tanto di “banda” musicale. “Tamburi” e “trombette” al seguito nella speranza che qualcuno offra loro qualche spicciolo. Ma oggi, quelle vere, si possono incontrare per strada anche nel mese di gennaio. Tra le novità di quest’anno, registriamo la sostituzione dei due robusti cordoni. L’anno scorso uno si ruppe nella salita dei Cappuccini; l’incidente per puro miracolo non causò danni a uomini e cose. I cordoni sono componenti essenziali del prezioso meccanismo processionale, in quanto permettono ai fedeli di trainare il cinquecentesco fercolo sul quale è posizionato il busto reliquiario della Santa. Lunghi rispettivamente 120 e 125 metri, alla loro estremità sono fissate le quattro “maniglie”. La differenza di metraggio è per consentire una maggiore facilità di manovra. E’ nei cordoni che di solito si concentra il massimo rispetto verso la sacralità. Esso è simbolo di unità totale intesa come interdipendenza inscindibile(intreccio). Per poterlo toccare in funzione religiosa, il devoto è chiamato ad indossare i guanti in dotazione all’abito penitenziale. Per i catanesi non esiste una “coppia” di cordoni, ma “ ‘U cudduni”. Il “singolare” è semplificazione linguistica tipica delle nostre contrade. Viene utilizzato non solo come segno di attaccamento verso Sant’Agata, ma percepito come “ buon augurio”. “ Ha stari comu ‘nto’ cudduni” si dice quando qualcuno chiede ordine e rispetto. La festa promette bene anche dal punto di vista meteorologico. Pare infatti che le giornate della processione, fatti i dovuti scongiuri, saranno “baciate” dal sole. Complice il weekend, gli alberghi sono già pieni di turisti ansiosi di osservare da vicino, quasi toccare con mano, la grande Fede e la profonda devozione che i catanesi manifestano per la Santa Patrona. Ma come tradurre loro le frasi di giubilo in stretto dialetto catanese gridate dai devoti col sacco penitenziale bianco? … E cu Ràzia e cu cori, vardàtila ch’è bedda; Javi du occhi ca’ parunu du’ stiddi e na’ ucca ca pari ‘na rosa…semu tutti devoti tuttiii…Cittadini!… cittadini!!…” Ma forse non c’è bisogno della traduzione; la gestualità basta per comprendere ciò che di per sé è già eloquente.  

Nella foto, l’uscita del Busto Reliquiario dopo la messa dell’ aurora

SANT’AGATA

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Dal giorno successivo all’Epifania, a Catania inizia il “conto alla rovescia”. Poco meno di un mese e sarà festa grande. I catanesi riabbracceranno “Sant’Aituzza Bedda”( non ‘a “Santuzza”, vezzeggiativo attribuito dai palermitani a Santa Rosalia). … “E cu razzia e cu ccori…javi se’ misi ca non ti virèmu….semu tutti devoti tutti!!??…Cittadini!…cittadini!( e no cettu, cettu; e men che meno cit.cit che non appartengono alla tradizione originaria di questa festa). Il proverbio lo dice chiaramente: “Doppu l’Epifania, Sant’Aita è ppi la via”. Per i Catanesi, è la prima festività dell’anno. Nel calendario non è segnato in rosso, ma nel cuore dei devoti, sì. Il sacro velo, già dagli inizi di questo mese è in viaggio. Come prima tappa del 2024  ha toccato il popoloso quartiere di Librino. Qui è stato accolto con gioia dalle Suore Figlie di Maria Ausiliatrice e dai numerosi giovani presenti nel locale oratorio Giovanni Paolo II. Quello del Sacro velo racchiuso nel suo tipico astuccio “ a fiala” in argento sbalzato, commissionato nel 1929 dall’allora arcivescovo Giuseppe Francia Nava, è da considerare l’ottavo reliquiario. Gli altri sette di forma anatomica, sono contenuti in altrettanti astucci d’argento massiccio dorato, sbalzato e cesellato. Eseguiti in epoche diverse, le preziose custodie risultano stilisticamente dissimili tra loro. Nessuno ha mai chiamato il sacro velo con il suo vero nome: “grimpa” ( dal francese glimpe). Il significato di questa parola portata in Sicilia dai Normanni, è riferito a una tipologia di tessuti. La grimpa, era un lungo fazzoletto di seta grezza facente parte dell’abbigliamento femminile. In particolare, veniva imposto sul capo delle vergini cristiane allorquando esse venivano consacrate a Dio.  Quello di Sant’Agata è un velo di lino lungo 4 metri per 60 centimetri, bardato a fili d’oro. Un indumento potente e miracoloso, come riportano le cronache riferibili ai suoi prodigi. E’ stato più volte condotto in processione per fermare la lava dell’Etna.  Da qui la leggenda secondo la quale il velo originariamente di colore bianco, sarebbe diventato rosso in virtù dei contatti ravvicinati col calore incandescente del magma. Ma al velo sarebbe legata anche un’altra leggenda riportata dal famoso demopsicologo palermitano Giuseppe Pitrè.  E’ simile a quella di Penelope. La Santa catanese-secondo questa narrazione- sarebbe stata una tessitrice di straordinaria abilità. La sua bellezza, la sua eleganza di nobile fanciulla, avrebbe indotto un ricco giovane a chiederle di sposarlo. Agata promise di accettare l’offerta, ma solo dopo avere completato un velo che di giorno tesseva e la notte scuciva. Da qui il detto: “Essiri comu ‘a tila di Sant’Aita”, per indicare cioè un lavoro destinato a non finire mai. Un frammento di questa credenza si potrebbe cogliere anche in alcuni passi de “I Malavoglia” di Giovanni Verga. Nella famosa opera dell’illustre concittadino, leggiamo che “Mena”(Filomena) era nominata “Sant’Agata”, perché stava sempre al telaio. L’usanza del “pellegrinaggio” del velo agatino tra le parrocchie cittadine, si è sempre mantenuta intatta negli anni. Ciò che invece oggi continua a essere oggetto di polemica è l’eccessiva dilatazione dei tempi. Ormai la festa ha preso una piega difficile da correggere. Da parecchi decenni, il rientro avviene ben oltre gli orari stabiliti dal programma. Nella contesa tra chi si schiera per il rientro della processione nei tempi previsti,  e chi invece propende per il prolungamento a “oltranza”, a perderci sono le tradizioni. Questa festa deve la sua fama nel mondo, oltre che alla Santità della V.M. Agata, anche alla suggestività dei suoi riti. Essi sono profondamente legati alla storia stessa della Patrona. La salita dei Cappuccini si dovrebbe effettuare alle 14.00 in punto. Ciò perché sarebbe stato questo l’orario del suo “Die natalis”( terminologia cristiana che indica la dipartita di un Santo/a). Farla svolgere nel tardo pomeriggio o di sera, significa ignorare una tradizione che fino agli anni ’80 dello scorso secolo veniva scrupolosamente rispettata. Ancora più significativo il cosiddetto canto delle Clarisse, in via Crociferi. Quando una volta veniva effettuato alle prime luci dell’alba, era qualcosa di stupendo. Quel canto, con il silenzio ovattato e le “tinte colorate” del cielo, era uno dei momenti più suggestivi di tutta la festa. Il punto di contatto tra la bellezza del creato e la preghiera di Sant’Agata attraverso la voce delle religiose e del popolo catanese. E invece, oggi, tra lo strombazzare delle automobili della città moderna e rumorosa che riprende la propria quotidianità, questo momento va a farsi benedire.  Ma intanto: “ Isatila sta vuci, faciticci sentiri quantu ‘a vuliti beni!!!…Cittadini!…cittadini!!!.  

 

Pubblicato su “La Sicilia” del 28.01.’24

                                                                                             

I SETTANT'ANNI DELLA RAI RADIOTELEVISIONE ITALIANA

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Il 3 gennaio di quest’anno, la Rai ha compiuto settant’anni. Alle 11 del mattino, il primo “Vagito”. La cerimonia inaugurale si svolse contemporaneamente nelle sedi di Milano, Torino e Roma. I primi tentativi di diffusione si ebbero già nel 1934. Risale al 1949 invece la prima trasmissione in via “sperimentale”. Con l’occasione, Corrado Mantoni presentò una importante “Rassegna” a Milano. La RAI Radiotelevisione italiana nasce dalle ceneri dell’ EIAR(Ente Italiano Audizioni Radiofoniche) come conseguenza dell’estensione della propria attività al settore televisivo. L’EIAR era stato dal 1927 e fino alla disfatta del fascismo, uno straordinario strumento di propaganda del regime. Intellettuali e politici novelli paladini della democrazia, spinsero per il suo superamento. Quella della televisione fu una vera e propria rivoluzione nell’ambito del sistema comunicativo di massa in Italia. Per artisti e giornalisti, c’era da metterci la faccia e non più la voce. Non era cosa di poco conto. Quelli che non se la sentirono di continuare o non furono giudicati idonei al nuovo modello, dovettero cambiare mestiere. In compenso emersero altri personaggi che attraverso la televisione sarebbero diventati famosi. Alle tradizionali scuole di “dizione” si affiancarono truccatori, stilisti, e tutte quelle figure professionali in grado di garantire un prodotto di sicuro rendimento estetico. Si agì secondo un principio vecchio quanto il mondo: “Anche l’occhio vuole la sua parte”. Quella “scatola” lignea a quel tempo considerata “magica”, al suo interno conteneva un complicato assemblaggio elettronico. Si accendeva da una pesante scatoletta metallica(stabilizzatore) posta all’esterno. Un robusto filo collegava l’apparecchio all’antenna situata all’aperto e nel punto più alto dell’edificio. Oltre al tubo cosiddetto “catodico” attaccato allo schermo, spiccavano le “voluminose” valvole. Aprendola, il caratteristico odore acre e pungente misto di polvere e magnete, invadeva subito le narici. In quel groviglio di fili e supporti, solo tecnici esperti provenienti da precedenti esperienze di radio e telecomunicazioni potevano districarsi. Gli stessi furono poi chiamati ad insegnare nelle nascenti scuole “Radio Elettra”. A Catania, uno dei primi operatori a mettere mano ai complicati congegni della televisione, fu Emanuele Consoli. Uno strano personaggio. Sempre taciturno e di mezza età. Alto, allampanato e leggermente curvo, inforcava gli occhiali sul nasone adunco che gli ornava il viso scarno. Quando si metteva al lavoro, niente e nessuno poteva distoglierlo. Il mondo poteva crollargli addosso, ma egli non si sarebbe spostato di un solo millimetro. Inutile fargli domande. Dalla sua bocca, solo un flebile suono gutturale usciva; tipico di chi tira il fiato per la fatica. “Ma chistu comu fa!?” Si chiedevano i committenti; sta di fatto che dopo il suo intervento, l’aggeggio tornava a funzionare meglio di prima. Dove avesse acquisito tanta abilità, nessuno lo seppe mai. Era tempo sprecato cercare di “estorcergli” una parola. Appena un cenno di saluto: incassava il compenso e se ne andava. Ad avere il compito più gravoso furono i tecnici esterni, coloro i quali cioè si dedicavano alla sistemazione dei ripetitori, delle antenne o dei macchinari di sala. Questi “sofisticati” strumenti andavano in tilt per un nonnulla; ripararli in tempi congrui non era affatto facile. Nel bel mezzo di un film o di una nuova trasmissione a quiz, quando compariva la scritta “Scusateci per l’interruzione, le trasmissioni riprenderanno al più presto”, i telespettatori inveivano contro lo stesso apparecchio: “ ‘U pigghiassi e ‘u biàssi do’ baccuni…sa peddiri ‘u me nnomu!!!”. Chi è un po' più avanti di età, ricorderà i programmi che fecero epoca. Tutto in bianco e nero. Le imprese dello sport, i documentari, il “festival di Sanremo”, “Lascia e raddoppia” e “Non è mai troppo tardi” del “mitico” maestro Alberto Manzi. “L’amico degli animali” era invece una rubrica curata dallo zoologo Angelo Lombardi. Gli estimatori di questa trasmissione, sarebbero rimasti delusi quando anni dopo appresero dai giornali che il conduttore, in privato, non era affatto “tenero” con gli animali. Poi seguì il “Carosello” e tanto altro ancora. Un apparecchio televisivo non era alla “portata” di tutte le tasche. Il prezzo medio era di lire 450.000; cioè circa 7000 euro di oggi. Solo i ceti medio-alti potevano permetterselo. Quasi sempre a rate. Nella nostra città ci fu il fortunato che lo vinse a sorteggio. Quando si notava un capannello di persone sostare davanti a un’abitazione a pianterreno, si intuiva che i proprietari ne possedessero uno. Tutti incollati alla finestra lasciata aperta e con le tendine scostate.

 

Nella foto, l'antico monoscopio della Rai 

CATANIA: "LA STORIA CANCELLATA DALLA NATURA E DALL'UOMO"

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“Parti Diu e parti Camastra” cosi si usa dire a Catania quando si narra del terremoto che l’11 gennaio del 1693 devastò la parte sud-orientale della Sicilia(Val di Noto). Di Catania rimasero solo le rovine. Il Duca di Camastra fu incaricato di redigere un immediato piano di ricostruzione. Lo pretese il vicerè in persona. Per necessità di cose, dovette “completare” l’opera: fece abbattere quel poco che era rimasto in piedi. Lo fece per creare un modello urbanistico adatto alle esigenze dei cittadini. Volle una città più “spaziosa”, in grado di difendersi con maggiore facilità in caso di nuovi eventi sismici. Da quell’infausto giorno, sono trascorsi 331 anni. Una vera e propria catastrofe si abbattè sulla città colpita pure dal maremoto. Le acque dello Jonio, entrando con violenza nella terraferma, trascinarono al largo corpi e detriti. I Iibri di storia patria, riportano ampiamente ogni minimo dettaglio del luttuoso evento, sia pure con qualche difformità sul numero dei morti. Le cifre riferibili alle vittime sono “ballerine”. Tutte le testimonianze furono discordanti l’una dall’altra. Le fonti, alcune delle quali attestate direttamente da chi riuscì a salvarsi, non sono state affatto concordi su questi particolari di rilievo demografico. Facendo una media dei dati riportati da alcuni cronisti ritenuti attendibili, il Camastra stabilì che il numero dei morti e dispersi accertati fosse di 16.000 su una popolazione complessiva di 19.000. La città dovette ripartire da zero. Ma alle devastazioni causate dalla natura, sono da aggiungere anche quelle prodotte dall’uomo. La seconda guerra mondiale devastò il territorio etneo quasi quanto un terremoto. Si contarono migliaia morti e altrettanti feriti. Interi palazzi crollarono sotto le bombe anglo-americane. Gli attacchi arrivarono dal cielo e dal mare. A terra tuonarono i carri armati. Molte famiglie si ritrovarono senza un tetto. Finita la guerra, ecco un’altra ferita nel cuore del Centro storico catanese: lo sventramento del vecchio San Berillo. Gli abitanti furono fatti traslocare nelle case popolari nel frattempo costruite nella zona nord-occidentale della città. Nacque il nuovo quartiere denominato “Nesima superiore”. Qualcuno la definì molto realisticamente una vera e propria “deportazione”. Doveva essere un risanamento completo quello del vecchio quartiere di San Berillo, e invece lo fu per metà. L’altra, è semplicemente rimasta una brutta incompiuta. La seconda parte del secolo scorso, fu caratterizzato da un “saccheggio urbanistico” senza precedenti. Le aree appetibili, anche quelle di raro interesse naturalistico, vennero cementificate in blocco. Nei Centri storici, nel nome di un preteso progresso, ville di grande pregio caddero sotto i colpi delle ruspe. Al loro posto, sorsero enormi palazzoni di cemento armato. La villa Bonaiuto, a Catania, scampò all’abbattimento grazie al tempestivo intervento delle autorità. Al furore delle ruspe scampò pure “villa Josè” in v. Leucatia. Il piccolo “gioiello”, raro esempio di “Liberty eclettico”, fu salva grazie alla denunzia dei media e all’intervento delle istituzioni civili e politiche del quartiere Barriera-Canalicchio. Così non fu per gli immobili scoperti senza il vincolo della Soprintendenza. E’ di questi giorni la forte polemica scatenata a seguito della licenza edilizia rilasciata per la costruzione di una palazzina in via Dilg, nel cuore del quartiere Cibali. La questione si trascina da tempo. Ora pare sia arrivato il momento della resa dei conti: “l’opera s’ha da fare! ” Lo dice il Tribunale Amministrativo Regionale. Il comitato dei residenti si oppone alla costruzione poiché su quest’area graverebbe un vincolo etnoantropologico e storico. Non è roba da poco. Lì di storia ce n’è tanta davvero. La questione ricorda un episodio accaduto molti anni fa a pochi passi dalla zona contesa. Negli anni ’50 dello scorso secolo, grazie alla tenacia di una popolana del luogo, l’antico lavatoio fu salvo. Da oltre un secolo le lavandaie “cifalote” lavavano i panni nelle acque del “Longane”, il fiume che scorre nel sottosuolo. Un tratto di esso venne incanalato in superficie, per servire questo piccolo ma accogliente lavatorio. Continuando la tradizione dei suoi avi, anche donna Carmela( detta ‘a cuzzulara) se ne serviva. Quando un’ordinanza sindacale ne decretò la demolizione per motivi igienico-sanitarie, lei fu la prima ad opporsi. Qualcuno le mise in mano un documento del ‘600, attraverso il quale riuscì a dimostrare che quell’area non era di pertinenza pubblica ma privata. Il vescovo Bonadies, dopo la distruttiva colata lavica del 1669, l’aveva acquistata e donata ai cittadini per “pubblica utilità”. Di fronte all’evidenza, il comune che già aveva mandato le ruspe, dovette fare marcia indietro.

 

Nella foto, ruderi del quartiere San berillo di Catania.

Pubblicato su "La Sicilia" del 12.01.2024

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