FONTANA DEI “LAVANDINI”
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- Scritto da Santo Privitera
Quando abbatterono il cavalcavia del Tondo Gioeni, il rumore fu infernale. Era il 7 agosto del 2013. Le “pinze meccaniche” si accanirono senza pietà su quella struttura che appariva solida. “Altro che pericolante come avevano lasciato credere….” si commentò in città. Non cedette di schianto, ma dovettero “rosicchiarlo” per parecchi giorni prima di eliminare l’ultimo lembo di cemento e ferro rimasto attaccato. L’eco di questo rumore si sente ancora. Si sente tutte le volte che davanti al “torna indietro” della circonvallazione, il traffico verso Ognina subisce rallentamenti. Il “fantasma” del ponte si materializza quando sui social appare la foto dell’autobus 29 che corre “allegro” su quella rampa “serpentina” vicino al “bivio” tra Barriera e Canalicchio. E’ pieno di passeggeri. A giudicare dall’immagine, potevano essere circa le 14.00. Il catanese di una certa età fantastica: “su quell’autobus potrei esserci anch’io di ritorno dalla scuola”. Si impreca, si maledice “l’ura e ‘u mumentu di quannu fu”. Qualcuno ricorda pure lo “scherzetto” della caduta del ponte che avrebbe causato una “strage”. Una “bufala” tutta catanese che allarmò non poco la popolazione. Era stata messa in circolazione appena qualche anno prima dell’abbattimento. Non si sa bene il motivo. Una premonizione o una “prova” per vedere la reazione dei i cittadini di fronte al reale abbattimento? Chissà. Sul rimpallo di responsabilità che ne seguì, meglio stendere un velo pietoso. Le amministrazioni comunali dell’epoca, giocarono a scarica barile: “Fusti tu;…no..fusti tu co’ facisti abbiari ‘n terra…!” Manco i bambini dell’asilo. E all’automobilista catanese non resta che dire: “ Cu fu, fu…basta ca c’è ‘a paci!”. Ma quello del traffico in questo snodo cruciale della città, non è il solo “bubbone” rimasto. Da diversi mesi la fontana fatta costruire nel contesto della cosiddetta “riqualificazione” dell’area, è desolatamente asciutta. Doveva essere una “Monumentale Fontana” e invece oggi sembra un vero e proprio monumento allo spreco. Al centro della grande nicchia rivestita con pietra di Mirto, campeggiano due vasche marmoree a forma di calotta sferica. Ancorate sulla parete di fondo, sono poste a diversa altezza l’una sopra l’altra. Qualcuno in quel frangente si chiese: “…ma picchì a ficiuru d’accussì!?, ‘na putèunu fari cchiù semplici??!!…Fa sempri ‘u lippu; e quannu c’è ventu, vagna i machini e i muturini ca ci passunu vicinu.” Nell’idea del suo progettista, avrebbe dovuto richiamare la storica fontana dell’ Amenano di piazza Duomo, all’ingresso della pescheria. Costata a suo tempo più di settecento milioni, ultimamente ci sono persino voluti altri soldi spesi per spiantare e ripiantare con criteri meno complicati il vecchio “giardino verticale” nel frattempo andato in malora. In questi giorni, a completamento della “quinta scenografica” della zona, è comparso un “murales”. Non è raffigurato uno dei simboli cittadini bensì due donne tra i fiori. “Mah!… Vacci a capire qualcosa!…” verrebbe da dire. Intanto la fontana resta muta. “Muta come un fiore morto/…come una bocca che non ha sorrisi/“ recitano i delicati versi di un’antica canzone degli anni ’50 dello scorso secolo(Fontana muta). Pochi giorni dopo la sua inaugurazione avvenuta a giugno del 2018, la reazione non si è fatta attendere. Condita di “liscia”, come sempre. La fontana è stata prontamente ribattezzata “ ‘a funtana de’ lavandini”. Successivamente, un gruppetto di ragazzini appartenenti a una scolaresca cittadina, si è presentato in tenuta balneare. I fanciulli hanno fatto il bagno nella vasca di sotto. Una “provocazione”al limite dell’oltraggio, pare architettata dalle loro stesse maestre. Quanto accaduto, ha indotto l’allora amministrazione a istallare telecamere in tutta la zona. Storicamente, i cittadini catanesi non hanno mai avuto un buon rapporto con le fontane monumentali. Ricordiamo la fontana raffigurante la Dea Pallade( ‘A Tapallira), che da piazza Università venne spostata in periferia. La fontana di piazza Stesicoro, invisa ai catanesi che la denominarono “A funtana ‘da jettatura” o “Sculapasta”. Venne eliminata per fare posto al monumento dedicato a Vincenzo Bellini. L’antica “Fontana dell’Obelisco” a piazza Cutelli, alla Civita; smontata pezzo per pezzo dai monelli del rione. Lo stesso simbolo del “Liotru” privato della settecentesca vasca. Questi non sono che pochi esempi. Il Sindaco Domenico Magrì fu appassionato sostenitore delle fontane monumentali. Per questo gli venne attribuito il “pecco”(nomignolo) di “La fontaine”. Tra gli anni 1952-53, ne fece istallare tre. In particolare fu noto per avere disseminato fontanelle ovunque: nel centro storico come nelle periferie. Col “beverino” o con il “cannoncino” non c’era preferenza. Queste ultime vennero ribattezzate dai catanesi: “Muss’ì ferru”.
Nella fato, un particolare della Fontana del Tondo Gioeni
Pubblicato su “La Sicilia“ del 6 Luglio 2025
BROGNA, IL “MAGICO” SUONO DI UNA CONCHIGLIA
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- Scritto da Santo Privitera
Il suono della “Brogna”, ovvero il suono della storia. Potrebbe essere l’accattivante titolo di un libro dedicato a questo oggetto marino dalle svariate forme e qualità. E ci sarebbe tanto di cui scrivere; giusto per riportare “a galla” particolari e curiosità legate all’importanza delle sue molteplici funzioni nel campo della comunicazione quanto nei riti sacri, nelle cerimonie regali ed altro. Gli antichi romani la usavano in guerra per svegliare i soldati. In Sicilia i guardiani delle torri la usavano per avvisare i naviganti del pericolo di imboscate nemiche. I pastori per richiamare gli armenti; i pescatori per comunicare con la terraferma. E’ della cosiddetta “conchiglia sonora” che stiamo parlando. La Brogna, appunto. Il suo impiego come strumento a fiato ha in buona misura influenzato le culture di tutto il mondo. Chi ha avuto modo di ammirarla nella bacheca di qualche elegante salotto o posta a bella mostra sul davanzale di una finestra, adesso può conoscerne più da vicino la sua millenaria storia. Il suo prodigioso suono ha attraversato il tempo. La magia delle vibrazioni, nelle proprietà estetiche e sonore che si ritrovano, rimandano a suoni ancestrali dai toni misteriosi. Tra le varietà più comuni: la “Charonia Tritonis” e la “Strobus”. L’elenco però è più lungo. Alto il suo valore simbolico. Nelle antiche tribù, suonare la “Pu” come veniva meglio conosciuta nella loro realtà, equivaleva entrare in osmosi con la natura. “Pu” è anche il suono onomatopeico prodotto dal fiato immesso nella sua cavità. Dalle nostre parti, origina dalla marineria di Acitrezza l’interesse per questo primordiale strumento di comunicazione, in particolare dal Centro Studi Acitrezza(C.S.A.)diretto da Antonio Castorina. L’uso della conchiglia come strumento a fiato, rappresenta uno dei modi più arcaici e naturali di produzione del suono. La conchiglia sonora che diciottomila anni fa col suo suono monodico veniva impiegata come mezzo di comunicazione nelle montagne come nelle marinerie, ritorna a farsi sentire attirando l’attenzione di storici, archeologi, scienziati e soprattutto semplici curiosi. Mai prima di ora in tempi moderni aveva riscosso tanta attenzione. Non è un caso se ultimamente i suonatori di Brogna sono stati iscritti per ciò che riguarda le pratiche espressive e dei repertori orali, nel particolare registro delle eredità immateriali della Sicilia ( REIS). Anche l’altro ieri a Gravina di Catania, nella sala delle arti intitolata a Emilio Greco, se n’è discusso. “Il suono universale delle brogne: Vibrazioni corali, storie e suggestioni del più antico strumento musicale”; il titolo è già tutto un programma. Artefice dell’iniziativa, il maestro Giovanni H. Grasso. Lo studioso e musicista trezzoto DOC. possiede una straordinaria cultura su questa materia. Un vero maestro. Da alcuni anni organizza convegni e dibattiti finalizzati alla conoscenza di questo strumento cavato dalle profondità marine. L’esercizio delle sue “suonate” è davvero contagioso. Grasso ha già aggregato un cospicuo numero di simpatizzanti destinato a infoltirsi sempre di più. Il suo rapporto con questo strumento è intimamente connesso alla personale passione per l’antropologia. “La Brogna è sempre stata ad aspettarmi”- confessa -“ fin da quando stava posata sul bordo di un’aiuola nel giardino di casa. E’ quella del mio bisnonno Angelo Spina che la esponeva sui canali del tetto della sua abitazione in riva al mare di Trezza”. Durante gli equinozi e solstizi, il gruppo si riunisce di primo mattino per fare vibrare coralmente la Brogna davanti ai faraglioni. Poeti, scrittori, danzatori, pittori e artisti vari si esibiscono per dare il “benvenuto” all’alba della nascente stagione. Un vero e proprio rito questo, per celebrare la natura e godere partecipando agli incantevoli scenari dei luoghi che il Verga e altri scrittori descrissero mirabilmente nelle loro opere letterarie più famose.
Nella foto, il M° Giovanni H.Grasso.
SANT’ALFIO 2025, TRA RITI E TRADIZIONI.
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- Scritto da Santo Privitera
C’è grande giubilo nel mondo cattolico: “Habemus papam…!”. Qualcuno scherzosamente ha pure aggiunto in un improbabile latino simil-maccheronico: “Finalmentem!”. E sì, perché dalla morte di Papa Francesco e fino all’elezione del nuovo pontefice, non si è fatto altro che parlare sulla figura del possibile sostituto. L’argomento è stato voltato e rivoltato fino alla noia. Uno dietro l’altro sono intervenuti storici, teologi, politici e giornalisti; ciascuno a dire la sua. Dibattiti lunghi e articolati, alcuni dei quali interessanti; altri un po' meno. “ Menu mali ca finìu: radiu, televisioni, telefonini e giunnali, javi ddu misi ca ‘ni fánnu ‘a testa quantu ‘m palluni!...Auuuu e com’è!!!… s’ann’â puttàtu sensu e ciriveddu!!!… non ni putèumu cchiù…ahhhh! ”, chissà in quanti l’avranno pensato. E’ stato come una vera liberazione. Ma di certo non è finita qui. In questa fase, media e politici muoiono dalla voglia di scoprire se il Santo Padre eletto sia progressista oppure conservatore. E’ già cominciato il “tiro della giacchetta” anzi: “della tonaca”. Su questi temi si dibatterà ancora a lungo. Intanto ieri è stata la festa di S.Alfio, Cirino e Filiberto. Anche se tante usanze nel frattempo sono scomparse, molte altre resistono ancora. Sono sempre di meno quelli che ricordano la corsa dei cavalli nella ripida e caratteristica ‘N chianata ‘i sapunara. Inoltre, con i carretti siciliani nessuno scende più “ubriaco” da Trecastagni a Catania. A’ calata de’ ‘mbriachi come la descrisse Giuseppe Pitrè in una delle sue più importanti opere sul folklore siciliano, ormai è solo un mito. “Lu deci di Maggiu ‘nciuri su li vigni/ ca lu suli accalura li campagni/ Tu carrettieri la vita t’impigni/pi ghiritinni ‘a festa a Tricastagni(…) lo scriveva il poeta Salvatore Coco intorno alla metà dello scorso secolo. Oltre ai riti liturgici dedicati ai Santi martiri, lo spessore culturale di questa festa si misura dalle gesta spontanee del popolo. Carrettieri, musicisti, semplici poeti illetterati trassero linfa per le loro composizioni. La letteratura dedicata a questa festa è zeppa di opere e di autori celebri. Federico De Roberto, Ercole Patti, Antonio Aniante e perfino Carlo Levi furono tra questi. Una festa che riesce ancora oggi ad attrarre devoti da tutte le parti. Il suo fastoso contorno denso di Arte e Folklore allo stato puro, l’ha resa celebre nel mondo. Molti i turisti che affollano le vie del piccolo paesino Etneo; si fanno strada per seguire la processione ma anche per ammirare gli ex voto che all’interno del Santuario testimoniano i miracoli ricevuti negli anni dai devoti. Trecastagni ogni anno diventa il “centro” della Sicilia. La notte tra il 9 e 10 maggio, “flotte” di devoti si recano a piedi verso il Santuario. Portano i ceri da offrire ai Santi Martiri. Lo fanno invocando ad alta voce i loro nomi. Raramente ormai si incontrano “ I Nuri”(I nudi). Erano uomini che a torso nudo e con una larga fascia a tracolla, gravati da un grosso cero sulle spalle, a passo svelto affrontavano pregando la dura salita da’ ‘N chianata ‘ì sapunara. Indossavano solo larghi mutandoni( mutanni ‘a sbaccu). Poi l’’ingresso spettacolare all’interno del Santuario e l’urlo liberatore: “Sant’Afiuuuuuuu!!!”. Fin dal settecento la festa di S.Alfio a Trecastagni era uno dei tre eventi religiosi, dopo quella di Sant’Agata e del Carmelo, più seguiti dai cittadini catanesi. Nel quartiere della Civita, non avrebbero mai concesso in sposa la propria figlia se il pretendente non avesse promesso di andare tutti gli anni con la famiglia per festeggiare i Tre Santi. Anche a Sant’Alfio a Vara il culto dei tre Santi è molto sentito. Il toponimo del piccolo centro situato alle falde dell’Etna, possiede una propria peculiare simbologia. Prende il nome dal Fratello più grande dei tre. Alfio, prima di morire arso nella pece, incitò i fratelli a non cedere all’abiura della Fede cristiana. Inoltre la “Vara”(sbarra) fa riferimento a un miracoloso evento capitato ai tre Santi durante il lungo tragitto mare-terra che da Messina li portò a Lentini nel passaggio obbligato tra le lave dell’Etna. Tradizionalmente il piccolo centro celebra i suoi tre Santi la prima domenica di maggio, lo fa proprio per non farla coincidere in concorrenza con quella di Trecastagni. Nella festa “Sant’Affiota”, spicca la “Dera”: piccoli falò accesi presso l’uscio di ciascuna abitazione lungo le strade principali del Paese. L’usanza nasce dal ricordo della compassione che il popolo manifestò durante il transito dei tre giovani fratelli. “I falò servivano” -spiega il devoto Orazio Patanè- “ a illuminare e riscaldare il cammino dei Tre martiri. Intanto che passavano la gente cercava di rifocillarsi sfidando l’ira delle guardie di scorta.
Pubblicato su “La Sicilia“ 11.05.’25