LE NUOVE TENDENZE CULTURALI NOCIVE
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- Scritto da Santo Privitera
Ma in che mondo stiamo vivendo? È una espressione d’uso corrente. “ ‘U munnu cancìau…” si sente dire; è una constatazione comune che l’anziano quanto il giovane condividono. Il filosofo greco “Eraclito”( Efeso 535-475 a.C) lo diceva: “Tutto scorre”. E scorre davvero. Col tempo, questo ipotetico fiume “dove la stessa acqua non può bagnare due volte,” è andato ingrossandosi fino a scorrere impetuoso….impietoso e travolgente. E’ la perfetta metafora della vita di ciascun uomo nella società. Vero. Storici, filosofi, antropologi, religiosi, sociologi e scienziati vari hanno potuto constatare che nell’arco dei secoli la distanza tra le varie generazioni si è accorciata. La rapidità con cui i cambiamenti avvengono sono evidenti. Tendono addirittura a intensificarsi giorno dopo giorno. La “forbice” si è allargata a dismisura nei modelli di vita, nell’etica, e perfino nei linguaggi. “ ‘A viremu comu ni va’ a finiri…mancu vòli Ddiu d’accussì! ” si dice a Catania. Di contro c’è chi invece inneggia al progresso: “ ‘Na vota avèumu l’occhi chiusi…oggi ccu ‘nclik facemu chiddu ca vulemu! Quando già negli anni ’60 dello scorso secolo si parlava di “Robot”e di macchine intelligenti capaci di superare di gran lunga le capacità umane, c’era chi sorrideva di gusto. In un celebre film, il personaggio principale, un tale “Capitan Nemo che viveva in piena autonomia nelle profondità marine all’interno del suo super tecnologico sottomarino, sfoggiava la progettazione di “modelli” molto simili a quelli attuali. A Catania, negli anni ’70, un certo Eugenio Siracusa che asseriva essere in contatto con gli extraterrestri, teorizzò un brusco cambiamento climatico con conseguenze catastrofiche su tutto il pianeta. Non sappiamo ancora quanto ci sia di vero visto che a fronte dei fenomeni contrastanti finora riscontrati, neanche la scienza ufficiale è riuscita a venirne a capo. Le tecnologie hanno favorito questi fenomeni, rendendo tutto più artificiale, virtuale ed estraneo rispetto a una società che oggi stenta ad assorbire l’enorme squilibrio destinato purtroppo a crescere in maniera sempre più esponenziale. “Cu ll’ava a diri ca l’omu hava arrivari supra ‘a luna… è un’espressione ormai superata”; Adesso si parla di arrivare su marte. Già, cu l’hava ’a diri!…
La linguistica è la prima a risentirne. L’esterofilismo, dal dopoguerra in poi ha preso il sopravvento tra i giovani. Nella musica come nello sport, gli “inglesismi” hanno cominciato a dilagare. Per i telecronisti sportivi, il fuori gioco era e continua a essere “ofside”; il calcio d’angolo “Corner”; il lancio laterale “cross”, e così via. Adesso, con l’evento dei social, si va per simboli e acronimi. Il campo ormai è vasto ed enciclopedico. Per una larga fetta di popolazione refrattaria al mondo cosiddetto on-line, si corre verso una nuova “Torre di Babele” di biblica memoria. Anziani e i dislessici in particolare sarebbero i più colpiti. Qualche avvisaglia si registrava già nel linguaggio cartaceo “burocratico”. “Chi è sta cosa?…chi significa?…picchì non scrivunu comu ci ‘nzignau ‘a maestra?!” si chiedevano gli antichi catanesi. “Sold out”.. “non ni putemu cchiù!” Il fenomeno dei social ne ha fatto una regola. L’uso è corrente. Per risparmiare tempo e fatica quando si scrive in modo diretto, si ricorre alle abbreviazioni. Una pratica che gli esperti informatici chiamano “slang di internet”. “Lol”( ridere forte); “Bro”(fratello, amico); “Gostare”(sparire senza spiegazione), tanto per citarne alcuni. Msg, Cfm, tvb, sono i più comprensibili perché…italiani. E’ tutto in…progress. Prima o poi saranno destinati a essere sostituiti da altri. Della serie: “Come ti faccio a fare sparire la lingua italiana. Più preoccupante ancora il manifestarsi della cosiddetta cultura “Woke”. Rientra nel novero della “cancel cultura” e del “politicamente corretto”. Un fenomeno molto preoccupante proveniente dall’America, estraneo alla cultura europea. Nel tentativo di eliminare presunte ingiustizie sociali, parole ritenute “razziste” e “maschiliste”, propone di scrivere e parlare in modo neutro evitando il predominio del maschile sovraesteso. Come? Mettendo un asterisco al posto dell’ultima sillaba. Purtroppo in Italia, qualche dirigente scolastico la sta facendo applicare. Follie. Fortunatamente, per evitare certi “eccessi” pare stiano tornando i detti latini. Alcuni commentatori esteri, a proposito delle guerre in corso così si esprimono: “Si vis pacem para bellum”. “Cui prodest? Verrebbe da rispondere.
Pubblicato su “La Sicilia” del 15.09.’25
ANTICHI STILISTI CATANESI
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- Scritto da Santo Privitera

L’Italia ancora scossa per la recente scomparsa del “nostro” Pippo Baudo, a distanza di poco tempo piange la morte di Giorgio Armani. Così come avvenuto per il mondo dello spettacolo, stavolta è l’ ambiente della moda a esserne colpito. Un altro personaggio popolare se ne va. Se aggiungiamo anche la morte del giornalista Emilio Fede, il quadro funereo di questa estate può dirsi completato(si spera). “A picca ‘a picca si nni stànu jennu tutti” si sente dire in giro. Il Made in Italy, con la scomparsa del Re della moda, subisce una perdita enorme. Lo stilista piacentino ex vetrinista de “ La rinascente”, è stato il fondatore di un vero e proprio “impero” economico. Era noto soprattutto per aver imposto uno stile sobrio e innovativo al mondo della moda. E’ dal giorno della sua morte che le testate giornalistiche e dei media ne parlano. Lo faranno almeno fino al giorno del suo funerale. Dopo calerà il silenzio e sarà la storia a parlare per lui. Solo una eventuale coda polemica legata all’enorme lascito patrimoniale potrebbe riaccendere i riflettori sulla sua vita terrena. Ma per adesso, come si direbbe a Catania: “Co’ muttu a mmenzu a casa e ancora supra ‘a terra, si cianci e basta!” Quando si parla del mondo della moda, un riferimento alla nostra città è d’obbligo. Anche in questo affascinante campo si è distinta Catania. Dalla piccola alla grande sartoria, la storia della moda in Europa ma anche oltre oceano ha “parlato” catanese. Non è stato un semplice “balbettio” ma una “voce” autorevole. I nomi di oggi, titolari di Atelier di alta moda sono quelli di Marella Ferrera, di Mariella Gennarino e altri eredi di una tradizione che non conosce pause. Sin dalla giovane età, erano le ragazze a imparare il mestiere della sarta. “Si jeva ‘nta mastra” quantomeno per imparare a cucire un paio di pantaloni per il futuro marito, rammentare calze e magari allestire una gonna da indossare secondo i propri gusti. A ‘fera ‘o luni, ancora oggi si trova ogni tipo di stoffa. Gli “scampoli” erano a buon mercato. Le ragazze ormai signore che avevano imparato a cucire, riuscivano a “vestire” con pochi soldi tutta la propria famiglia. “Chidda àvi l’oru ‘nte manu” era l’apprezzamento più sincero e lusinghiero che si potesse fare. La donna che sapeva cucire era un vero e proprio “investimento” per il marito. Veniva di gran lunga preferito al posto di lavoro in fabbrica o altro. Per l’uomo era diverso. Il mestiere di sarto non era per tutti. Quei pochi uomini che lo praticarono, ebbero però campo libero. Bisognava avere passione e arte. Anche un pizzico di coraggio, perché secondo certi “pregiudizi” la professione del sarto non era “roba per uomini”. E invece, una volta appreso il mestiere, era tuttu “santu e binirittu”. A Catania, a cavallo tra glia anni ’60-’80, i sarti più noti si chiamavano Giuseppe Risicato, Giovanni Isaja, Paolo Filippini, Nello Caponetto, tanto per fare dei nomi. Quest’ultimo spiccò per professionalità e intraprendenza organizzativa. Per tre decenni fu il promotore de “La forbice d’oro”, una accurata selezione regionale per la Sicilia Orientale dedita a premiare i giovani sarti del momento. Il catanese di classe medio-alta, ha sempre preferito “Sfilàri finu” e non si è mai fatto mancare un capo d’abbigliamento “firmato”. Indossare un capo unico fatto su misura, era un chiaro segno di vanità perché non tutti potevano permetterselo. “L’omu capricciusu” e ambiziosetto, affidava volentieri il suo Look al sarto di fiducia. Non badava a spese. Senza parlare di chi per ragioni istituzionali o professionali aveva la necessità di presentarsi con capi di abbigliamento adeguati al ruolo svolto nella società. Fino agli anni ’90 dello scorso secolo fu così. Quando si affermarono gli abiti “confezionati”, cambiarono le abitudini. Immersi sul mercato, invasero lo spazio a scapito della qualità artigianale. Ma come non parlare dello stilista catanese più famoso in ambito internazionale? Si chiamava Angelo Litrico( Catania 1927- Roma 1986). Nato poverissimo e senza cultura, col tempo divenne ambasciatore della moda maschile in tutto il mondo. Una vera eccellenza in questo settore. Estrose le sue creazioni, sempre adatte per ogni circostanza. Conseguì riconoscimenti e titoli onorifici italiani e stranieri. Fu il primo in Italia a firmare un contratto con una grande casa giapponese; ne seguirono altri in quasi tutti i Paesi d’Europa , negli Stati Uniti, nel Sud Africa e in Australia. Fu tra le personalità di spicco della “dolce vita” romana; vestì grandi statisti come John Fitzgerald Kennedy, Nikita Krisciov, Richard Nixion, Giulio Andreotti; attori come Vittorio Gassman, Richard Burton, Gregory Peck. Tra i suoi clienti ebbe anche il cardiochirurgo Christian Barnard. Fu il sarto personale di Gianni Agnelli.
Pubblicato su “La Sicilia” del 7 Settembre 2025
Sant’Agata di mezz’agosto tra storia e leggenda
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- Scritto da Santo Privitera

La città è in festa. Si celebra oggi l’899° anniversario del ritorno a Catania delle Spoglie di Sant’Agata. Il venerato corpo della Vergine e Martire Agata venne trafugato nel 1040 insieme a quello di Sant’ Euplio e di San Leone il Taumaturgo, il vescovo che secondo la leggenda avrebbe sconfitto il mago Eliodoro bruciandolo davanti l’antica cattedrale. L’ autore del sacrilego furto, il generale bizantino Giorgio Maniace, lo avrebbe trasportato a Costantinopoli per consegnarlo come “bottino di guerra” all’allora imperatore Plafagone IV. Ma su quest’ultima versione non tutti gli storici pare siano concordi. Ultimamente circola una ipotesi più suggestiva e nobile: Maniace lo avrebbe fatto per sottrarre le sacre Spoglie dei santi cristiani agli arabi, sotto il dominio dei quali era la Sicilia. La lotta per spodestare gli “infedeli” a quel tempo si faceva di anno in anno sempre più aspra. Una possibile “caduta saracena” come in effetti sarebbe avvenuto trent’anni dopo ad opera dei Normanni, avrebbe potuto comportare gravi ritorsioni sui simboli cristiani della città. Sta di fatto però che il corpo di Sant’Agata, molto venerato anche dai Bizantini, prima che i soldati Goselmo(calabrese) e Gisliberto(francese) lo riportassero in patria, rimase in terra straniera per 86 anni. Tra storia e leggenda, c’è di mezzo tanta fantasia. Il viaggio dei due soldati sarebbe stato particolarmente lungo e avventuroso. Se fossero stati scoperti, li avrebbero passati immediatamente per le armi. Ebbero molto coraggio, anche perché secondo quanto narra la leggenda, Sant’Agata apparve in sogno a Goselmo. Lo avrebbe implorato di riportarla nella sua amata Catania. Il corpo di Agata, per essere trasportato, sarebbe stato smembrato e riposto nelle faretre dove i soldati solitamente riponevano le frecce. E qui di leggenda ne circola un’altra. Durante il viaggio in terra bizantina, Goselmo e Gisliberto sarebbero stati fermati da un gruppo di commilitoni. “Trasportiamo gelsomino” rispose Gisliberto a chi gli stava davanti. Un miracolo. Un profumo inteso si sparse per l’aria, tanto da convincere i soldati bizantini che era tutto vero. Da qui una tradizione ormai scomparsa da tempo a Catania. Fino ai primi anni ’70 dello scorso secolo, durante la festa di mezz’agosto, per le strade comparivano i venditori di gelsomino. Il mazzetto “piantato” nelle umide “sponse” di colore verde scuro, costava trenta lire. Tornando al viaggio. Lasciata la terra di Bisanzio, via mare le sacre Spoglie approdarono a Taranto e da qui a Messina. L’allora vescovo Maurizio che a quel tempo si trovava nella residenza estiva al castello di Aci, non esitò un istante a inviare due monaci benedettini nella città dello stretto. Le Membra riposte in una piccola bara, appena prese in consegna ripartirono via mare. Durante la navigazione, l’imbarcazione attraccò ad Alì Terme. In questa cittadina tutti gli anni si celebra il fausto evento. Da qui, prima di riprendere di nuovo il mare alla volta della residenza estiva arcivescovile, sarebbe stata solennemente trasportata in terraferma attraverso tortuosi sentieri fino a Taormina. Al Castello di Aci sostò un giorno: poi la processione fino a Catania. Il sacro drappello arrivò nottetempo nella città etnea. La consegna alle autorità cittadine avvenne al porto Ulisse (odierna zona del Rotolo). Era il 17 agosto del 1126. Il tragitto fino alla cattedrale venne salutato da due ali di folla festante e dallo scampanìo delle campane. I cittadini catanesi, con l’occasione, in segno di devota cristianità indossarono camici bianchi simbolo della purezza( e non vestaglie da notte). La veridicità dei fatti è narrata minuziosamente nella famosa epistola redatta dello stesso vescovo Maurizio. Il documento originale andato perduto probabilmente durante il terremoto del 1693, è stato attestato da autorevoli studiosi come il Carrera, Amico, De Grossis ed altri. “Un esemplare”-precisa la professoressa Mariuccia Stelladoro-“si conserva nel Liber Prioratus, passato dai monaci benedettini al clero secolare”. Il vescovo Maurizio, inoltre, nel luogo dove avvenne la consegna( nella odierna via Calipso) fece costruire una “Cappelletta votiva” distrutta dalle lave del 1381 prima e definitivamente cancellata dalle mani dell’uomo nei primi anni ’60. Al suo posto venne costruito un asilo nido. Non è rimasta traccia: solo un anonimo eucaliptus piantato all’interno di un semicerchio di basalto lavico. Negli anni ’90, a ricordo, il comune si premurò a collocarvi una lapide. Tutto qui. La ricorrenza di Sant’Agata di mezz’agosto ha una importanza fondamentale per la storia agatina, perché da quel momento hanno avuto inizio i festeggiamenti Patronali che oggi tutto il mondo ammira.
Pubblicato su “La Sicilia” del 17 agosto ‘25
