SAN MARTINO, OGNI MOSTO DIVENTA VINO
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
Domani è l’estate di San Martino. A giudicare dal meteo, ci vorrà l’ombrello. L’estate non è mai troppa per noi siciliani. Malgrado qualche acquazzone sparso a macchia di leopardo, il sole si riaffaccia sempre più luminoso di prima. E’ la conferma che dalle nostre parti la bella stagione si protrae fino ai “Morti”, ovvero fino ai primi giorni di novembre. Neanche le piogge dei giorni scorsi sono servite ad abbassare le temperature stagionali. Qualcuno ancora va in giro con le mezze maniche; sono tutti quei turisti che in Sicilia sanno di trovare un clima mite. Più per spocchia che per altro, anche i giovani catanesi lo fanno. “…C’è ‘ncauruuuu!!!…” Così facendo, prestano il fianco a commenti ironici di questo tipo. Finalmente è autunno. Già si avvertono i tipici “profumi” nell’aria. Vedere le foglie degli alberi mulinare al vento, suscita ancora una certa emozione. Ci ricorda la maestra della scuola elementare quando ci lasciava per casa il tema: “descrivi l’autunno”. Per redigerlo, bisognava per forza ricorrere all’osservazione ambientale. L’avvicendarsi regolare delle stagioni nella loro ciclicità, garantisce quell’armonia insita nella natura stessa. Da anni non si sente parlare d’altro che di cambiamento climatico. In parte è così. I disastri che hanno duramente colpito il nostro Paese e altre parti dell’Europa, sembrano confermarlo. Molti di questi hanno dei precedenti, ma adesso bisogna correre ai ripari lo stesso. Intanto ci siamo. Parafrasando una vecchia canzone del repertorio italiano: “Un bicchiere di vino fa tutto scordar….”(La vita è bella). “Per San Martino, ogni mosto è vino… Amici…si stimpagna!!!( si aprono le botti per il primo assaggio). La variante è: “ Ppi San Martinu…castagni e vinu”. Di fatti, i venditori di caldaroste, per tutta la giornata invadono di fumo le strade con i loro “fuculara”. Hanno la licenza per farlo, proprio per mantenere viva la tradizione. Del resto, è una delle poche usanze rimaste. A loro posto sono subentrati riti che poco hanno a che vedere con il nostro comune sentire. Anche se la vendemmia ormai si svolge ai primi di settembre anziché ai primi di ottobre come si faceva una volta, il clima della cantina mantiene intatto il suo fascino. E’ il momento in cui si chiede “ ‘o putiàru” il permesso di assaggiare il vino nuovo. La degustazione avviene sul posto. Meno di mezzo bicchiere per scegliere la varietà ritenuta più consona al proprio palato. Anche chi non è un esperto della materia, in quel preciso istante si comporta come il più intransigente dei “sommelier”. Il classico sorseggiamento, e dopo qualche istante di pausa arriva la sentenza: “…Bonu mi pari…chissu vogghiu!!!” Fino alla metà dello scorso secolo, Catania era piena di “Putìe”. Una delle più famose fu quella di “Peppa ‘a Tucca”, nel cuore della Civita. Peppa era un personaggio. Di lei si diceva che fosse “cutta e amara”. Una mosca sul naso non se la faceva passare. Era sempre molto attenta. Quando si accorgeva che qualcuno alzava un po' troppo il gomito, lo cacciava fuori. faceva “opera di prevenzione” per evitare che finisse per fare “dannu”. Nella sua Putìa, si beveva vino “ ‘m-pettra”, cioè a temperatura ambiente. Ne declamava la qualità. Se qualcuno “osava” chiedere dell’acqua, lo apostrofava bonariamente: “ ‘a viviri vinu”-diceva-“picchì cu l’acqua ti nasciunu ‘i larunchi ‘nto stomucu!…” In materia di vino, la nostra città e i paesini dell’Etna non sono mai stati inferiori a nessuno. Nel 1881 nacque a Catania( nel quartiere di Barriera del Bosco) la “Scuola di viticoltura ed enologia”. “ ‘A scola logica” come veniva chiamata dagli abitanti del luogo, fu uno dei primi istituti di indirizzo agrario d’Italia. Comprendeva aule, laboratori, enormi cantine e un annesso vigneto oggi purtroppo smembrato e abbandonato. Una vera eccellenza per quel tempo. Continua a far discutere la decisione da parte della commissione Europea di etichettare le bottiglie di vino con la scritta: “Dannoso alla salute”. Trattare il vino come il pacchetto di sigarette è da considerare un “oltraggio”. Il vino è una bevanda alcolica viva, che al netto di possibili deprecabili abusi, possiede tante proprietà organolettiche benefiche. Dalla vite alla tavola, passando per la botte, questa bevanda è sempre stato materia di cultura. De sempre decantata da poeti e scrittori. “Il vino è la poesia della terra” affermava il poeta Mario Soldati”. Domenico Tempio era un assiduo frequentatore di bettole e ritrovi dove il vino scorreva “ ‘ a cannaggiu”. Qualche volta lo avrà perfino “ispirato”. “Il vino muove la primavera” scriveva il poeta Pablo Neruda nella sua “Ode al vino”. Senza trascurare i poeti siciliani. In un ipotetico contrasto all’antica maniera tra Orsula e Matteu, quest’ultimo chiosa: “…’O curri, fuji…viri zoccu ‘a fari…/ ‘u vinu c’ha statu…e sempri ci sarà…/ E’ nettari divinu…sucu di filicità”( Chi è lu vinu).
Pubblicato su “La Sicilia” del 10.11.2024
ANTICHE STRUTTURE ABBANDONATE DI CATANIA
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
L’abbandono è l’anticamera del degrado e l’inizio di una lenta agonia che conduce alla morte Anche le strutture abitative hanno una “vita”. Ciò che è stato abitato, se ripiomba di colpo nel silenzio e nel buio, si avvia verso un lento e irreversibile processo di disfacimento. L’edificio diventa facile preda di vandali e rifugio per il malaffare. Una vera e propria “bomba sociale” dagli effetti imprevedibili. In giro per la nostra città, non sfugge all’occhio attento del cittadino il lento decadimento di alcuni imponenti fabbricati abbandonati da tempo. In pieno Centro storico, da San Cristoforo al vecchio San Berillo, ci sarebbe molto da recuperare sotto l’aspetto urbanistico. Solo un accorto e provvidenziale intervento di restauro conservativo può ridare smalto, lustro e decoro a ciò che non si dovrebbe mai cancellare. Opifici, ospedali, lavatoi, fontane, chiese, antichi complessi edilizi, ex stazioni daziarie e molto altro, rappresentano il patrimonio storico di una città sempre viva e operosa. “Sempre fiorente “ avrebbe scritto l’indimenticabile storico Santi Correnti. Alcuni di essi potrebbero essere recuperati e restituiti ancora alla fruizione pubblica. Ciò indipendentemente della funzione precedente. Proprio come è capitato ai vecchi locali dell’anagrafe, oggi prestigiosa sede museale. Lo sviluppo di una città passa attraverso l’utilizzo di spazi finalizzati alla pubblica utilità. Molte le idee, tanti i progetti. Anche se esistono i finanziamenti, le pastoie burocratiche purtroppo sono tra i fattori responsabili della lungaggine dei tempi. Si dice che di burocrazia si muore. “Mentri ‘u mericu sturìa, ‘u malatu mori”. Di solito l’allungamento dei tempi comporta la lievitazione dei prezzi. Ma c’è anche la possibilità che non se ne faccia più nulla. Appena iniziati i lavori, bisogna fare gli “scongiuri” affinchè proseguino senza intoppi nei tempi dovuti. Se ci soffermiamo sulle incompiute, quello che fa più male e come a Catania negli ultimi decenni si siano annunciate opere faraoniche e poi finite nel dimenticatoio. Tanto per non andare lontano, testimonianza di questo abbandono sono gli enormi edifici dell’ex sanità catanese. La città è disseminata da nord a sud di opere dismesse, di enormi aree che potrebbero diventare un moderno volano per l’economia cittadina. Invece, al contrario, giacciono in mezzo a erbacce, sporcizia e spazzatura di ogni tipo. Pensiamo ai tre dei cinque ospedali dismessi; quelli ancora rimasti “al palo”: Ferrarotto, Santo Bambino e dell’Ascoli Tomaselli. Quest’ultimo era uno dei “fiori all’occhiello” della sanità catanese. Ubicato nella zona nord della città, gode di un panorama mozzafiato. A parte le “eccellenze” sanitarie ospitate, l’aria che si respirava era diversa dagli altri ospedali. Più salubre di quella del Centro città. Non a caso, infatti, questo ospedale nacque per accogliere i malati affetti da patologie pneumologiche. Oggi è ridotto a un cumulo di edifici malmessi e depredati. Circolano pure storie di fantasmi che si aggirerebbero tra quelle mura ancora resistenti. E’ tornato ad essere in parte attivo durante il Covid, poi è stato nuovamente richiuso. Si attende una destinazione che tarda ad arrivare. E’ inutile avanzare ipotesi, tanto la soluzione(qualsiasi possa essere) appare ancora lontana. La dismissione degli ospedali si è fatta sentire nel corso delle emergenze relative alla pandemia. In quella occasione le forze politiche di destra e di sinistra si “rimpallarono” le accuse. I tagli però ci sono stati in virtù di “tagli” lineare che di fatto non hanno giovato né all’economia né soprattutto ai malati. Nel degrado vi sono altre strutture. Una delle più clamorose è quella dell’ex mulino Santa Lucia. Purtroppo, un cattivo biglietto da visita per i tanti “croceristi” che scendono al Porto di Catania. Impossibile da nascondere. Se qualcuno di loro dovesse chiedere il motivo di tanto abbandono, spiegarglielo in poche parole non sarebbe possibile. “L’Intreccio” è molto fitto e complicato. Un gioco delle parti, un commedia dell’assurdo con tanto di “tragedia” al seguito. Sarebbe stato meglio lasciarlo com’era prima. Un rudere ma…dignitoso. Senza la “beffa” di un restauro milionario andato in fumo. “Jappunu soddi di ittari…” è stato il commento più appropriato. Di quello che forse doveva essere un grande rinomato hotel, è rimasta integra solo la “ondeggiante” facciata bianca. Un sepolcro imbiancato. All’interno non c’è più nulla. Solo sporcizia dappertutto. E quella grande statua di gesso raffigurante Santa Lucia, dove sarà finita? Era posta a bella vista nell’antica facciata fronte mare. Sembrava benedire i naviganti.
Catania 06.07.2024
Nella foto di Santo Privitera, il vecchio mulino di Santa Lucia com’era prima dell’inutile rifacimento. La nuova struttura, oltre ad essere stata depredata, e diventata ricettacolo di disperati.
Pubblicato si “La Sicilia“ dell’8 Luglio 2024
GLI EBREI NELLA STORIA DI CATANIA
- Dettagli
- Categoria: Storia e tradizioni popolari
- Scritto da Santo Privitera
Guerra. La parola guerra risuona sinistra nelle orecchie di tutti. Anche se geograficamente è lontana, è più vicina di quanto non sembri. Non può essere ignorata a cuor leggero, perché tocca la coscienza di tutta l’umanità. Ai tempi d’oggi, dove la medicina ha fatto passi da gigante allungando perfino le aspettative di vita, attentare alla vita appare come una immane cattiveria. La pace che si reggeva sulla paura della “bomba atomica”, adesso sembra non funzionare più. La Russia che ha tentato di invadere l’Ucraina, quasi quotidianamente agita lo spettro di una guerra nucleare; chissà se a furia di parlarne non lo farà davvero. Ci si chiede che fine abbia fatto la diplomazia; ma quando cominciano a tuonare le armi, tutto diventa più difficile. “ ‘A virèmu comu ni va a finiri…mi pari ca stamu jennu a cazzicatummula” diremmo dalle nostre parti. Tra il silenzio dei “media”, si consumano però altri conflitti. Dimenticati. Vi sono eserciti che si combattono in varie parti del mondo. I morti non si contano più e la sofferenza affligge le popolazioni civili che sono costrette a lasciare le proprie terre, alimentando così il fenomeno migratorio. Diversa è invece l’attenzione verso quelle guerre che potrebbero destabilizzare le economie delle “grandi potenze” mondiali. In tal senso, il conflitto arabo-israeliano preoccupa enormemente. Si sta estendendo a “macchia d’olio”, col rischio di interessare una vasta area dove è sempre stato faticoso mantenere la pace. In questi luoghi considerati un vero e proprio “crocevia” di religioni, convivono Ebrei, Cristiani e Musulmani. Inevitabilmente il pensiero corre al destino del popolo ebraico, la cui storia ultramillenaria è sin dalle sue origini molto complessa. Storia, mito e leggenda si intrecciano. Il popolo ebraico, tra diaspore e guerre nel tentativo di riappropriarsi dei territori che considerano di proprietà, è sempre ricerca di una Patria che da quelle parti non gli viene riconosciuta. La storia si ripete. In queste terre dove secondo i Vangeli nacque e visse Gesù Cristo, da tempo immemorabile contese, continuano a scorrere fiumi di sangue. “Mancu ‘a terra do’ Signuri po’ aviri paci…” è ’opinione molto diffusa in Sicilia. La comunità ebraica ha avuto un lungo periodo di proficua convivenza con la nostra città. Un esempio di integrazione perfetta. La sua presenza a Catania risale all’epoca romana. Lo testimonia una lapide rinvenuta nel 1929 nella chiesa di Santa Teresa( In v.Di San Giuliano). Con il trascorrere dei secoli andò sempre più consolidandosi. Poi nel 1492, a seguito del decreto dell’ Alhambra emanato in Spagna da Ferdinando II D’Aragona, gli ebrei non convertiti al cristianesimo furono costretti a lasciare il Regno. Verranno altri tempi bui. Le deportazioni di massa nei campi di concentramento naziste durante la seconda Guerra mondiale e le leggi razziali in vigore in Italia, rimarranno ferite mai rimarginate. A Catania, la comunità ebraica contribuì notevolmente alla crescita culturale ed economica della città. Tant’è che quando la maggioranza degli ebrei furono costretti a lasciare l’Isola, venne coniato il detto: “Sinni jenu li ebrei e ristamu senza mutanni”. Di contro, il termine “su comu l’ebbrei” è paragonabile all’atteggiamento schivo che pare caratterizzasse gran parte dei membri della comunità. Si distinsero nel campo della medicina, come nell’astronomia e nella gastronomia. Fondamentale in epoca medievale fu l’apporto delle loro maestranze nella costruzione del Castello Ursino. Lo attesta la stella di David che campeggia nella parte sommitale di una delle finestre del maniero. Essi vivevano nell’area Nord-occidentale della città, in due distinte zone: “Judecca Suprana, configurabile come “quartiere bene, popolato da funzionari e professionisti; “Judecca Suctana”abitata invece da operai e maestranze varie. Di quest’ultima area fece parte il mercato del pesce( oggi, ‘A Piscaria”). Ciascuna era autonomamente dotata di Sinagoga. La presenza del fiume Amenano (o meglio conosciuto come “Judicello”) che attraversava i due settori, serviva per i bagni rituali di entrambi i sessi. Oggi tra i personaggi di origine ebraica più popolari sono Caviezel e Caflish. Da Aggiungere anche Agostino Mioccio che sul finire dell’800 e fino a buona parte del primo Novecento operò nel campo della pelletteria. Ricopri incarichi apicali nell’ambito dell’industria e del commercio etneo. Mioccio commissionò la costruzione del Castello di Leucatia, lasciato incompleto nel 1911. Vendette il maniero in stile neo-gotico e il terreno circostante per costruire un’artistica cappella cimiteriale privata. Tristissima la sua vicenda familiare legata al lutto per la prematura morte della figlia Angelina. Il maniero oggetto di “moderni” miti e leggende, situato al centro tra i quartieri di Barriera e Canalicchio, è oggi sede di una Biblioteca oltre che di una importante Sinagoga.
Nella foto, il Castello Leucatia, oggi sede di una importante comunità ebraica.
Pubblicato su “La Sicilia” del 6 ottobre 2024