Catania: “Sacrario dei caduti in guerra” e il suo degrado
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
Novembre è il mese dedicato ai defunti. Anche quelli che sono caduti in guerra per difendere la Patria. Sul concetto di Patria, da qualche tempo si è riacceso un dibattito piuttosto infuocato. Sono il frutto di vecchie questioni ideologiche dure a morire. Il cosmopolita vorrebbe abolire tutte le frontiere; il “Patriota” invece tiene ben saldi i confini del proprio Paese, mantenendo tutte le tradizioni ed i costumi acquisiti nel corso dei secoli. Il tema delle immigrazioni di massa, ha messo a nudo e accentuato ulteriormente questa problematica.La diplomazia sembra impotente di fronte alle intemperanze prodotte da una globalizzazione ormai senza freni. Ha ceduto le armi. Mettere tutti d’accordo è diventata impresa difficile. Di fronte al “Dio denaro”, nessuno è disposto a cedere. Troppi i “focolai” accesi nel mondo. Vi sono guerre che durano da diverso tempo, molte anche dimenticate, senza che nessuno abbia fatto qualcosa per farle cessare. Nel Medio Oriente è in atto un vero e proprio massacro, frutto di odi e di rivendicazioni ataviche difficili da risolvere. “Ma comu”-si chiede incredulo l’uomo della strada-“Propriu ‘nta terra do’ Signuri succerunu sti così!? Gli Stati rispondono solo alle proprie esigenze; il metro non è più il buonsenso ma la “Borsa”. Per dirla alla catanese: “Ognunu si tira ‘i catti ‘a pettu, e cu si visti si visti!…” Il conflitto Russo-Ucraino è una “spada di Damocle” che pende sulla testa dell’Europa. Rischia di destabilizzare un intero continente con esiti imprevedibili. Dal punto di vista economico, diventa sempre più difficile da sostenere. Gli Stati con i maggiori problemi in materia di risorse finanziarie, sono quelli più penalizzati. Si trovano sempre più difficoltà a difendere il Paese aggredito. “Ma quannu cià finisciunu!?” Questa guerra dura ormai da alcuni anni, non si intravede ancora il ben che minimo spiraglio per una soluzione definitiva. La minaccia della Terza Guerra mondiale sembra incombere, anche se molti analisti ritengono si stia già combattendo. Fortunatamente, almeno fino a questo momento, non ci tocca direttamente. La guardiamo dal binocolo. La guerra di per sé è una sconfitta. Una volta scoppiava per un nonnulla perché non c’erano i mezzi distruttivi di oggi. Allo stato attuale bisogna pensarci due volte prima di commettere simile sciocchezza. L’uomo non se lo può permettere. Le condizioni dei soldati sono quelle descritte nella breve ma saggia poesia di Giuseppe Ungaretti: “Si sta come d’autunno/ sugli alberi/le foglie.”(Soldati). I cimiteri di guerra sono lì a testimoniare come intere generazioni di giovani abbiano lasciato la propria vita in combattimento. Vite spezzate, private di un futuro. Basta guardare le date di nascita e di morte incise nelle croci. È di questi giorni la polemica riguardo allo stato di degrado in cui versano le tombe nel Sacrario dei caduti in guerra ubicato all’interno del monumentale tempio di San Nicolò l’Arena. La denuncia è scattata non appena il parente di un soldato tumulato nel mausoleo, si è reso conto del degrado in cui versava la tomba del proprio congiunto. La classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Impossibile continuare a tacere. I media, sollecitati dalla “Guardia d’onore ai Sacrari di guerra” hanno perciò fatto da cassa di risonanza, rendendo pubblica la questione. Il degrado generale che investe già da tempo questa struttura, è sotto gli occhi di tutti. Lapidi divelte, polvere dappertutto, pareti rigonfie a seguito di copiose infiltrazioni d’acqua e della mancata manutenzione che dura già da diversi anni. Nel 2016, le “Guardie d’onore ai Sacrari di guerra” avevano lanciato l’allarme. Niente! A che serve organizzare manifestazioni commemorative in “pompa magna” se poi le condizioni sono quelle che vediamo? Un vero disonore per una città che fu tra le poche a essere decorate con la medaglia d’oro al V.M. da appendere orgogliosamente al proprio gonfalone. L’onorificenza fu concessa nel 1898, in occasione del cinquantenario della rivoluzione del 1848. “Per commemorare”-è scritto nella motivazione-“le azioni eroiche della cittadinanza catanese nei gloriosi fatti del 1848, che iniziarono il Risorgimento Nazionale e la conquista dell’Unitá.” Il Sacrario dei caduti in guerra, dietro la sagrestia della chiesa benedettina, è un piccolo contenitore d’arte. L’idea della sua creazione nacque nel 1924. Il 4 novembre del 1926 avvenne la prima traslazione di 96 salme provenienti dal cimitero cittadino e dalla provincia, caduti nella Grande guerra 1915-18. Successivamente ne furono aggiunte molte altre. Compreso la collocazione delle lapidi di oltre 2300 soldati periti in combattimento. Una cerimonia indimenticabile. Le cassette con i resti mortali dei militi, coperte dal tricolore e disposte a doppia fila, vennero condotte a spalla dai propri congiunti fino alla tumulazione finale tra gli spari a salve dei cannoni.
Pubblicato su “La Sicilia” del 24.11.2024
Mammoriani e Monfiani a Catania
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
Così va la vita, i tempi cambiano. Se andasse diversamente, sarebbero guai. Ci si annoierebbe a morte. Il cambiamento è tanto necessario quanto difficile da arrestare. Lo si percepisce dalle nuove continue tendenze con cui evolvono usi e costumi nel mondo. Anche se a molti tradizionalisti catanesi piacerebbe vivere ancora a tempu “de’ “Canonichi ‘i lignu”( sempre alla stessa maniera), davvero non si può più. Prima che ritornino i cosiddetti “corsi e ricorsi storici” di vichiana memoria, ci vorrebbe almeno un'altra vita. E non è detto che ci sia… concessa. Per intanto è meglio affidarsi alla storia. Anzi, proprio la storia diventa il metro col quale misurarsi. Frugare con curiosità nei ricordi da bambino, per vedere come e con quale ritmo nel frattempo sia cambiata la società che ci circonda. In questo senso, la nostra città offre spunti molto interessanti. “ Il catanese è filosofo per natura e incolto in filosofia; la follia e la saggezza lo guidano senza litigare”: questo affermava lo scrittore Vitaliano Brancati. Lui conosceva molto bene di che “pasta” erano gli abitanti della sua città d’adozione. ”Quando tra conoscenti ci si incontra per strada, è solito domandare “come stai?…” la risposta è quasi sempre la stessa: “Cca semu!…” Un vero e proprio automatismo appartenete alla sfera del buon augurio. La variante è: “ ‘A comu voli ddiu!… semu tutti sutta stu celu”. In quest’ultimo caso, si avverte evidente il segno di uno strisciante malessere tipico di chi è avanti d’età. In piazza, nell’autobus, nei giardini pubblici, o in qualche altro luogo, diventa un rituale che quasi sempre innesca il dibattito sul momento storico che si sta vivendo. Ognuno dice la sua, ma si finisce per convergere solo su un punto: la critica verso l’amministrazione pubblica. A qualsiasi colore essa appartenga. Ma Catania, si sa, è patria di “liscìa”. Alla domanda “come stai?…si corre il rischio di sentirsi rispondere in modo lapidario: “A ttia chi ti ‘nteressa!!!…”. E’ già successo. Quando esisteva il telefono fisso, uno dei passatempi preferiti era lo scherzo telefonico. A essere prese di mira erano le signore, meglio se anziane: “Signora, sono dell’acquedotto, che fa ne ha acqua nei rubinetti!?…alla risposta affermativa, l’interlocutore palesava la burla con epiteti poco edificanti. Quando nei primi anni ’60 dello scorso secolo Catania era denominata la “Milano del Sud”, il reddito pro-capite era molto soddisfacente. Nasceva il corso Sicilia sulle ceneri di una parte consistente del vecchio San Berillo. Da un lato si rimpiangevano le “case chiuse” cancellate dalla legge Merlin, dall’altro si dava il “benvenuto” al nascente centro finanziario che avrebbe dovuto schiudere le porte a un futuro “brillante” sul piano economico. Una città del profondo sud, finalmente figurava nelle altre classifiche. Anche la squadra di calcio militava con successo nel massimo campionato. Pippo Baudo scalava le vette di gradimento in tv, rivendicando con orgoglio la propria catanesità. A quel tempo si diceva che Catania era “ ‘nta sudda” cioè in mezzo al benessere. La “Sulla” è quella pianta foraggera che cresce abbondante nella Piana di Catania. Gli animali che la pascevano ingrossavano a vista d’occhio. Si facevano “n’àutru tantu”. Anche esteticamente era bella a vedersi con i suoi fiori folti, penzolanti e rossicci. Facendo la spola tra Catania e Taormina, quando l’autostrada ancora non esisteva, i giovani trascorrevano la loro vita in modo spensierato. C’era il lavoro, ma non per quelli che preferivano “scansarlo” in quanto benestanti. Questi ultimi venivano bollati col termine dispregiativo di “maccagnuni”. “Chissi ‘o travagghiu, ci sparunu ‘i luntanu”-si diceva. Approfittando della buona cucina, le mense abbondavano di prelibatezze di ogni tipo. “Panza mia, fatti capanna”: partiva l’abbuffata. Si mangiava a “setti ganasci”. Nella mente “fertile” di chi ha coniato questo detto, una sola ganascia sarebbe stata insufficiente a frenare la voracità di quelle bocche. Si evolvono i costumi, ma anche i linguaggi e i loro contenuti. Quelli che una volta erano considerati “Zàurdi”, oggi sono diventati, in modo più elegante, “Mammoriani “. Lo stesso dicasi, a parti inverse, per i ragazzi appartenenti al ceto più elevato. Anche la loro denominazione è cambiata: i “Figli di papà” di una volta, adesso sono “Monfiani”. Fino a qualche tempo fa, questi ultimi si riunivano nelle piazze più eleganti della città; particolarmente nella rinomata piazza Europa. Si faceva passerella sfoggiando gli ultimi arrivi “autunno-inverno”, “primavera-estate”. Chi si “imbucava”, faceva dì tutto per non sfigurare. Metteva da parte i magri risparmi della settimana per potere a modo suo “competere”. Quando ci si recava a mare in comitiva, ogni “mascariamento” però cadeva: soprattutto se si apriva bocca. “Mamma mia che bello!!!…ora mi abbollo!”
Nella Foto, “Le maschere”
Pubblicato su “La Sicilia” del 24.11.2024
SAN MARTINO, OGNI MOSTO DIVENTA VINO
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
Domani è l’estate di San Martino. A giudicare dal meteo, ci vorrà l’ombrello. L’estate non è mai troppa per noi siciliani. Malgrado qualche acquazzone sparso a macchia di leopardo, il sole si riaffaccia sempre più luminoso di prima. E’ la conferma che dalle nostre parti la bella stagione si protrae fino ai “Morti”, ovvero fino ai primi giorni di novembre. Neanche le piogge dei giorni scorsi sono servite ad abbassare le temperature stagionali. Qualcuno ancora va in giro con le mezze maniche; sono tutti quei turisti che in Sicilia sanno di trovare un clima mite. Più per spocchia che per altro, anche i giovani catanesi lo fanno. “…C’è ‘ncauruuuu!!!…” Così facendo, prestano il fianco a commenti ironici di questo tipo. Finalmente è autunno. Già si avvertono i tipici “profumi” nell’aria. Vedere le foglie degli alberi mulinare al vento, suscita ancora una certa emozione. Ci ricorda la maestra della scuola elementare quando ci lasciava per casa il tema: “descrivi l’autunno”. Per redigerlo, bisognava per forza ricorrere all’osservazione ambientale. L’avvicendarsi regolare delle stagioni nella loro ciclicità, garantisce quell’armonia insita nella natura stessa. Da anni non si sente parlare d’altro che di cambiamento climatico. In parte è così. I disastri che hanno duramente colpito il nostro Paese e altre parti dell’Europa, sembrano confermarlo. Molti di questi hanno dei precedenti, ma adesso bisogna correre ai ripari lo stesso. Intanto ci siamo. Parafrasando una vecchia canzone del repertorio italiano: “Un bicchiere di vino fa tutto scordar….”(La vita è bella). “Per San Martino, ogni mosto è vino… Amici…si stimpagna!!!( si aprono le botti per il primo assaggio). La variante è: “ Ppi San Martinu…castagni e vinu”. Di fatti, i venditori di caldaroste, per tutta la giornata invadono di fumo le strade con i loro “fuculara”. Hanno la licenza per farlo, proprio per mantenere viva la tradizione. Del resto, è una delle poche usanze rimaste. A loro posto sono subentrati riti che poco hanno a che vedere con il nostro comune sentire. Anche se la vendemmia ormai si svolge ai primi di settembre anziché ai primi di ottobre come si faceva una volta, il clima della cantina mantiene intatto il suo fascino. E’ il momento in cui si chiede “ ‘o putiàru” il permesso di assaggiare il vino nuovo. La degustazione avviene sul posto. Meno di mezzo bicchiere per scegliere la varietà ritenuta più consona al proprio palato. Anche chi non è un esperto della materia, in quel preciso istante si comporta come il più intransigente dei “sommelier”. Il classico sorseggiamento, e dopo qualche istante di pausa arriva la sentenza: “…Bonu mi pari…chissu vogghiu!!!” Fino alla metà dello scorso secolo, Catania era piena di “Putìe”. Una delle più famose fu quella di “Peppa ‘a Tucca”, nel cuore della Civita. Peppa era un personaggio. Di lei si diceva che fosse “cutta e amara”. Una mosca sul naso non se la faceva passare. Era sempre molto attenta. Quando si accorgeva che qualcuno alzava un po' troppo il gomito, lo cacciava fuori. faceva “opera di prevenzione” per evitare che finisse per fare “dannu”. Nella sua Putìa, si beveva vino “ ‘m-pettra”, cioè a temperatura ambiente. Ne declamava la qualità. Se qualcuno “osava” chiedere dell’acqua, lo apostrofava bonariamente: “ ‘a viviri vinu”-diceva-“picchì cu l’acqua ti nasciunu ‘i larunchi ‘nto stomucu!…” In materia di vino, la nostra città e i paesini dell’Etna non sono mai stati inferiori a nessuno. Nel 1881 nacque a Catania( nel quartiere di Barriera del Bosco) la “Scuola di viticoltura ed enologia”. “ ‘A scola logica” come veniva chiamata dagli abitanti del luogo, fu uno dei primi istituti di indirizzo agrario d’Italia. Comprendeva aule, laboratori, enormi cantine e un annesso vigneto oggi purtroppo smembrato e abbandonato. Una vera eccellenza per quel tempo. Continua a far discutere la decisione da parte della commissione Europea di etichettare le bottiglie di vino con la scritta: “Dannoso alla salute”. Trattare il vino come il pacchetto di sigarette è da considerare un “oltraggio”. Il vino è una bevanda alcolica viva, che al netto di possibili deprecabili abusi, possiede tante proprietà organolettiche benefiche. Dalla vite alla tavola, passando per la botte, questa bevanda è sempre stato materia di cultura. De sempre decantata da poeti e scrittori. “Il vino è la poesia della terra” affermava il poeta Mario Soldati”. Domenico Tempio era un assiduo frequentatore di bettole e ritrovi dove il vino scorreva “ ‘ a cannaggiu”. Qualche volta lo avrà perfino “ispirato”. “Il vino muove la primavera” scriveva il poeta Pablo Neruda nella sua “Ode al vino”. Senza trascurare i poeti siciliani. In un ipotetico contrasto all’antica maniera tra Orsula e Matteu, quest’ultimo chiosa: “…’O curri, fuji…viri zoccu ‘a fari…/ ‘u vinu c’ha statu…e sempri ci sarà…/ E’ nettari divinu…sucu di filicità”( Chi è lu vinu).
Pubblicato su “La Sicilia” del 10.11.2024
