SANTO CHIODO, UNA FESTA CHE FU CARA AI CATANESI
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- Scritto da Santo Privitera
L’estate siciliana è ricca di feste religiose. I turisti che visitano la nostra Isola, hanno di che vedere e apprezzare. Spettacolarità, devozione e colore sono elementi che uniti alla bellezza dei luoghi, non possono che confermare la bontà della scelta di visitare la Sicilia. A Catania si comincia a luglio con la Festa dedicata alla Madonna Santa Maria del Carmelo. Poi, nel bel mezzo della vacanze, c’è Sant’Agata di mezz’agosto. A settembre, la solennità di Maria S.S. Di Ognina( ‘a Bammina) conclude il ciclo. Lo stesso per i vari paesi dell’hinterland etneo. Feste Patronali e ricorrenze varie caratterizzate dai rituali usi e costumi locali. Ciascuna con i propri devoti, con le proprie suggestive tradizioni, molte delle quali resistono ancora oggi grazie alle profonde radici cristiane vantate dalla nostra terra. La festa di Sant’Euplio che si celebra a Catania il 12 agosto di ogni anno, pur non essendo solennemente festeggiata in città, è comunque sentita dai fedeli. Loro, attraverso le parole dei sacerdoti e gli scritti pubblicati nell’arco dei secoli da eminenti storici locali, conoscono bene la storia agiografica di questo Santo compatrono predicatore dei Vangeli. Euplio, consegnatosi volontariamente al suo carnefice per ribadire “de visu” la propria fede cristiana, nel 304 d.C. morì decapitato nella pubblica piazza. La storia ci racconta però di feste solennemente celebrate poi cadute in disuso. Una in particolare: quella della Reliquia del Santo Chiodo. Era organizzata dai monaci benedettini. Un evento molto partecipato dai cristiani catanesi. Ne parlò pure lo scrittore De Roberto nel suo capolavoro “ I Vicerè”. “Nelle grandi solennità religiose, a Natale, a Pasqua”-scriveva De Roberto-“per la festa del Santo Chiodo, tutti prendevano parte alle cerimonie la cui magnificenza sbalordiva la città”. Lo scrittore di origini napoletane, non fu il solo a descriverne i fasti. Quasi tutti gli storici catanesi narrarono di questa reliquia miracolosa eletta a compatrona della città. I Catanesi ricorsero alla reliquia negli esorcismi come nelle guarigioni. Ma anche nei momenti più critici attraversati dalla loro città. Durante l’eruzione del 1669. Quando la lava stava per invadere Catania, il vescovo Bonadies la portò in processione ottenendo la grazia. La massa di fuoco lambì il monastero benedettino prima di riversarsi in mare. I danni furono limitati. Durante il terremoto che nel 1693 sconvolse la città, il Santo Chiodo fu trovato incolume sotto le macerie. La teca di vetro che lo conteneva, non subì conseguenze. L’usanza di onorare solennemente il Santo Chiodo, ebbe inizio nel 1578. Secondo la tradizione, avrebbe trafitto la mano destra del Cristo nella fase cruenta della crocifissione. La reliquia, come spiegò nei suoi scritti il compianto storico Antonello Germanà Di Stefano, era in possesso dei monaci cassinesi sin dal lontano 1393. Durante uno dei suoi soggiorni sulle pendici dell’Etna, re Martino l’aveva donato al Monastero di San Nicolò l’Arena di Nicolosi. Il culto per la reliquia continuò imponente quando i monaci si trasferirono a Catania. All’inizio si celebrava il 3 maggio. Solo dopo il 1600 la data venne differita al 14 settembre, giorno dedicato all’ esaltazione della Santa Croce. I Benedettini, dopo mesi di meticolosa preparazione, questa festa la celebrarono “pompa magna”. La solenne processione con la reliquia sorretta dall’ abate sotto un prezioso baldacchino, attraversava il centro storico. Durante tutto il suo percorso veniva salutata con spari di mortaretti e musiche orchestrali. Sullo sfondo, il brusìo della folla “orante”. L’itinerario prevedeva sosta e preghiera davanti alle chiese più rappresentative. Nella cattedrale, infine, veniva celebrata una solenne messa. Quando per agevolare la processione fu variato il percorso, la chiesa S.S. Trinità rimase “tagliata fuori”. Si aprì così un aspro contenzioso con i monaci organizzatori. La contesa causò un drastico cambiamento di itinerario che finì per penalizzare tutte le altre chiese. Per devozione e fasto, secondo i padri Cassinesi, questa festa sarebbe stata seconda solo a quella di Sant’Agata. In realtà, dopo il forzato abbandono del monastero avvenuto nel 1866 per effetto della legge che privava la chiesa dei propri beni immobili, cessò ufficialmente di esistere. Visse ancora per qualche tempo grazie a un nugolo di monaci devoti alla reliquia e gelosi della tradizione. Nel 1933 venne portata in processione in occasione del venerdì Santo. Allorquando i Benedettini tornarono per un breve periodo a Catania, nel 1990 vi fu il tentativo di ripristinarla. L’iniziativa fu dello storico Antonello Germanà Di Stefano, dell’allora rettore e benedettino Don Michele Musumeci e di un gruppo di volontari. Per un momento, le lancette dell’orologio sembrarono tornare indietro di alcuni secoli.Durò appena tre edizioni. Poi calò definitivamente il sipario.
Nella foto, la Reliquia del Santo Chiodo.
Pubblicato su “La Sicilia” del 15.09.2024
LA RECENSIONE: “ANTONIO MONTECASSINO, UN SICILIANO A NEW YORK”
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“Montecassino un Siciliano a New York” è un agile volumetto scritto da Salvatore Carcò e Torquato Tricomi. Quasi cento pagine corredate da foto, documenti vari e spartiti musicali. Al suo interno ospita due articoli di Pio Salvatore basso e Luca Sinatra. “Un saggio utile”-come riportato nella prefazione- “scritto dosando bene cuore storia e memoria”. Non è soltanto un lavoro biografico, perché affronta in estrema sintesi diverse tematiche relative agli usi e costumi popolari militellesi dello scorso secolo. I due autori, entrambi musicisti, trattano gli argomenti su fronti diversi. Tricomi si occupa delle tradizioni, della musica da ballo, della pregiata liuteria catanese, dei musicisti che hanno fatto la storia della musica popolare catanese in particolare; Carcò invece fa ricorso ai ricordi personali e alla documentazione inedita per tratteggiare con estrema precisione la biografia del musicista militellese Antonio Montecassino del quale fu anche allievo. Montecassino nasce a New York nel 1916. Trasferitosi Militello in Val di Catania paese d’origine dei genitori, eserciterà per tutto il ‘900 una intensa attività musicale come polistrumentista, compositore e insegnante. Sotto la sua attenta guida, si sono formati musicisti di talento che ancora oggi svolgono la propria attività in Italia all’estero. Suo grande merito è stato quello di avere ridato vigore e professionalità al corpo bandistico del suo paese. Ha composto e inciso un lungo elenco di musiche ballabili, marce e trascrizioni per chitarra di brani famosi. Attorno alla sua figura, ruotano altri protagonisti dell’epoca d’oro della musica popolare fatta di “fistini” in famiglia, serenate sotto i balconi e musiche dei saloni da barba. Il maestro concluse la sua vita nel 2007 a New York, dove si recava spesso.
Catania 1.08.’24
Nella foto, la copertina del libro
L’AUTONOMIA DIFFERENZIATA E L’AUTONOMIA SICILIANA
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- Scritto da Santo Privitera
La recente approvazione della legge sull’ autonomia differenziata, ha riportato alla memoria la vecchia questione dell’autonomia siciliana. La scia velenosa, rumorosa e polemica che in questi giorni si sta sviluppando da sud a nord, sembra però essere in contraddizione con la storia. Si invoca perfino il referendum abrogativo nel segno di quella Unità che dai banchi dell’opposizione si considera minacciata. A Catania, qualcuno ha ironicamente commentato: “Si viri ca sti pulitici mangiunu pani scuddatu!”. Fino a qualche tempo fa, quando in Sicilia si parlava di autonomia, erano in molti a storcere il naso. Ma c’era pure chi qualche sorrisetto lo faceva sotto i “baffi”(anche se non li aveva). Non perché non la volesse, anzi tutt’altro. Perché a quasi settant’anni dal varo, 15 maggio 1948, la sua applicazione si è rivelata del tutto insufficiente, se non addirittura inconsistente. Una vera e propria beffa, se proprio la vogliamo dire tutta. Eppure a suo tempo fu fortemente invocata addirittura nelle forme più estreme: quelle cioè inneggianti al separatismo. Per questa causa vi furono dei morti. Sulla questione si sono espressi autorevoli storici e politologi. Quasi tutti convergono su un punto: lo Statuto autonomistico siciliano sarebbe stato “Uno specchietto per le allodole” , o forse un “contentino” dato in pasto dal neonato governo repubblicano per sedare gli animi dei gruppi separatisti sparsi in tutta l’Isola. Alcuni di essi fondarono un regolare partito, il M.I.S. ( Movimento Indipendentista Siciliano), altri invece imbracciarono addirittura le armi. Tutto nasce dal fatto che i vecchi malumori post -unitari non si erano mai sopiti. “Arsa l’arma a Garibaldi”-sostenevano i più accaniti-“ il barbuto generale ha agito in combutta con i Savoia i quali hanno depredato la Sicilia per risanare le finanze dei piemontesi indebolite delle guerre d’indipendenza”. “Mpriulai jardini di rosi/ pi cògghiri simenza di zammàra/”-scriveva il poeta nativo di Catenanova ma catanese di adozione, Venero Maccarrone(Turi Lima)- “e m’astutaru dintra l’occhi/ travi di focu”.(Ju Sicilia). Il gruppo dirigente che perorava la causa della separazione politico-amministrativa dall’Italia, convinto com’era che le forze economiche dell’Isola lo consentissero, lottarono per la separazione “costi quel che costi”. Ci tentarono con la forza dei numeri, ottenendo discreti risultati. Gli onorevoli Andrea Finocchiaro Aprile, Antonino Varvaro, Attilio Castrogiovanni, Concetto Gallo sedettero in Parlamento. Chi in quello nazionale, chi in quello regionale; si distinsero per la forza delle proprie convinzioni. In quel preciso contesto storico, rappresentavano la voce di un popolo che si sentiva “tradito” dalle legittime aspettative unitarie. Si batterono per portare “a casa” qualcosa di utile come forma “risarcitoria”. Ottennero uno Statuto che, “Sulla carta”, appariva innovativo e soprattutto utile per lo sviluppo economico, sociale e culturale della Sicilia. Alla luce del risultato finale e dopo tante lotte sostenute, l’esito fu deludente. Anno dopo anno, quella che doveva essere la Carta costituzionale, andava sempre più sbiadendosi. Lo Statuto, così venne svuotato dalle fondamenta. Vilipeso. Di chi la colpa? Di “Uno, nessuno e centomila” avrebbe risposto il grande Pirandello. Le critiche si abbattevano tutte le volte che veniva fatto rilevare lo stato di arretratezza dell’Isola. I tentativi compiuti( o soltanto promessi) di ridargli una effettiva “vitalità” sono stati vani. Subito dopo la seconda guerra mondiale, nell’Isola era scoppiato il caos. Troppe armi ancora circolavano: anche tra la popolazione civile. Qualcuno pensò che fosse giunto il momento di tentare il “colpo di mano”: anche militare se fosse stato necessario. L’ala militarista dell’E.V.I.S. ( Esercito Volontari per l’Indipendenza della Sicilia), si batté questo. Mise in campo tutte le risorse possibili, andando però a scontrarsi con le forze dell’ordine prima e con l’abile tessitura diplomatica messa in campo dal nascente governo repubblicano, dopo. Proprio in questi giorni, come ogni anno, gli indipendentisti in forma ristretta ricordano l’eccidio di “Murazzu ruttu” , nei pressi di Randazzo. In questo luogo, 17 Giugno del 1945, in uno scontro a fuoco con i carabinieri trovarono la morte Antonio Canepa e quattro giovani studenti tutti animati dalla medesima causa rivoluzionaria. Canepa, docente universitario, era stato l’autore del libro “La Sicilia ai Siciliani”. Si trattava di un vero e proprio “statuto” da applicare nel caso in cui l’Isola avesse ottenuto la sospirata indipendenza.
Catania 22.06.’24