BROGNA, IL “MAGICO” SUONO DI UNA CONCHIGLIA
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- Scritto da Santo Privitera

Il suono della “Brogna”, ovvero il suono della storia. Potrebbe essere l’accattivante titolo di un libro dedicato a questo oggetto marino dalle svariate forme e qualità. E ci sarebbe tanto di cui scrivere; giusto per riportare “a galla” particolari e curiosità legate all’importanza delle sue molteplici funzioni nel campo della comunicazione quanto nei riti sacri, nelle cerimonie regali ed altro. Gli antichi romani la usavano in guerra per svegliare i soldati. In Sicilia i guardiani delle torri la usavano per avvisare i naviganti del pericolo di imboscate nemiche. I pastori per richiamare gli armenti; i pescatori per comunicare con la terraferma. E’ della cosiddetta “conchiglia sonora” che stiamo parlando. La Brogna, appunto. Il suo impiego come strumento a fiato ha in buona misura influenzato le culture di tutto il mondo. Chi ha avuto modo di ammirarla nella bacheca di qualche elegante salotto o posta a bella mostra sul davanzale di una finestra, adesso può conoscerne più da vicino la sua millenaria storia. Il suo prodigioso suono ha attraversato il tempo. La magia delle vibrazioni, nelle proprietà estetiche e sonore che si ritrovano, rimandano a suoni ancestrali dai toni misteriosi. Tra le varietà più comuni: la “Charonia Tritonis” e la “Strobus”. L’elenco però è più lungo. Alto il suo valore simbolico. Nelle antiche tribù, suonare la “Pu” come veniva meglio conosciuta nella loro realtà, equivaleva entrare in osmosi con la natura. “Pu” è anche il suono onomatopeico prodotto dal fiato immesso nella sua cavità. Dalle nostre parti, origina dalla marineria di Acitrezza l’interesse per questo primordiale strumento di comunicazione, in particolare dal Centro Studi Acitrezza(C.S.A.)diretto da Antonio Castorina. L’uso della conchiglia come strumento a fiato, rappresenta uno dei modi più arcaici e naturali di produzione del suono. La conchiglia sonora che diciottomila anni fa col suo suono monodico veniva impiegata come mezzo di comunicazione nelle montagne come nelle marinerie, ritorna a farsi sentire attirando l’attenzione di storici, archeologi, scienziati e soprattutto semplici curiosi. Mai prima di ora in tempi moderni aveva riscosso tanta attenzione. Non è un caso se ultimamente i suonatori di Brogna sono stati iscritti per ciò che riguarda le pratiche espressive e dei repertori orali, nel particolare registro delle eredità immateriali della Sicilia ( REIS). Anche l’altro ieri a Gravina di Catania, nella sala delle arti intitolata a Emilio Greco, se n’è discusso. “Il suono universale delle brogne: Vibrazioni corali, storie e suggestioni del più antico strumento musicale”; il titolo è già tutto un programma. Artefice dell’iniziativa, il maestro Giovanni H. Grasso. Lo studioso e musicista trezzoto DOC. possiede una straordinaria cultura su questa materia. Un vero maestro. Da alcuni anni organizza convegni e dibattiti finalizzati alla conoscenza di questo strumento cavato dalle profondità marine. L’esercizio delle sue “suonate” è davvero contagioso. Grasso ha già aggregato un cospicuo numero di simpatizzanti destinato a infoltirsi sempre di più. Il suo rapporto con questo strumento è intimamente connesso alla personale passione per l’antropologia. “La Brogna è sempre stata ad aspettarmi”- confessa -“ fin da quando stava posata sul bordo di un’aiuola nel giardino di casa. E’ quella del mio bisnonno Angelo Spina che la esponeva sui canali del tetto della sua abitazione in riva al mare di Trezza”. Durante gli equinozi e solstizi, il gruppo si riunisce di primo mattino per fare vibrare coralmente la Brogna davanti ai faraglioni. Poeti, scrittori, danzatori, pittori e artisti vari si esibiscono per dare il “benvenuto” all’alba della nascente stagione. Un vero e proprio rito questo, per celebrare la natura e godere partecipando agli incantevoli scenari dei luoghi che il Verga e altri scrittori descrissero mirabilmente nelle loro opere letterarie più famose.
Nella foto, il M° Giovanni H.Grasso.
SANT’ALFIO 2025, TRA RITI E TRADIZIONI.
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C’è grande giubilo nel mondo cattolico: “Habemus papam…!”. Qualcuno scherzosamente ha pure aggiunto in un improbabile latino simil-maccheronico: “Finalmentem!”. E sì, perché dalla morte di Papa Francesco e fino all’elezione del nuovo pontefice, non si è fatto altro che parlare sulla figura del possibile sostituto. L’argomento è stato voltato e rivoltato fino alla noia. Uno dietro l’altro sono intervenuti storici, teologi, politici e giornalisti; ciascuno a dire la sua. Dibattiti lunghi e articolati, alcuni dei quali interessanti; altri un po' meno. “ Menu mali ca finìu: radiu, televisioni, telefonini e giunnali, javi ddu misi ca ‘ni fánnu ‘a testa quantu ‘m palluni!...Auuuu e com’è!!!… s’ann’â puttàtu sensu e ciriveddu!!!… non ni putèumu cchiù…ahhhh! ”, chissà in quanti l’avranno pensato. E’ stato come una vera liberazione. Ma di certo non è finita qui. In questa fase, media e politici muoiono dalla voglia di scoprire se il Santo Padre eletto sia progressista oppure conservatore. E’ già cominciato il “tiro della giacchetta” anzi: “della tonaca”. Su questi temi si dibatterà ancora a lungo. Intanto ieri è stata la festa di S.Alfio, Cirino e Filiberto. Anche se tante usanze nel frattempo sono scomparse, molte altre resistono ancora. Sono sempre di meno quelli che ricordano la corsa dei cavalli nella ripida e caratteristica ‘N chianata ‘i sapunara. Inoltre, con i carretti siciliani nessuno scende più “ubriaco” da Trecastagni a Catania. A’ calata de’ ‘mbriachi come la descrisse Giuseppe Pitrè in una delle sue più importanti opere sul folklore siciliano, ormai è solo un mito. “Lu deci di Maggiu ‘nciuri su li vigni/ ca lu suli accalura li campagni/ Tu carrettieri la vita t’impigni/pi ghiritinni ‘a festa a Tricastagni(…) lo scriveva il poeta Salvatore Coco intorno alla metà dello scorso secolo. Oltre ai riti liturgici dedicati ai Santi martiri, lo spessore culturale di questa festa si misura dalle gesta spontanee del popolo. Carrettieri, musicisti, semplici poeti illetterati trassero linfa per le loro composizioni. La letteratura dedicata a questa festa è zeppa di opere e di autori celebri. Federico De Roberto, Ercole Patti, Antonio Aniante e perfino Carlo Levi furono tra questi. Una festa che riesce ancora oggi ad attrarre devoti da tutte le parti. Il suo fastoso contorno denso di Arte e Folklore allo stato puro, l’ha resa celebre nel mondo. Molti i turisti che affollano le vie del piccolo paesino Etneo; si fanno strada per seguire la processione ma anche per ammirare gli ex voto che all’interno del Santuario testimoniano i miracoli ricevuti negli anni dai devoti. Trecastagni ogni anno diventa il “centro” della Sicilia. La notte tra il 9 e 10 maggio, “flotte” di devoti si recano a piedi verso il Santuario. Portano i ceri da offrire ai Santi Martiri. Lo fanno invocando ad alta voce i loro nomi. Raramente ormai si incontrano “ I Nuri”(I nudi). Erano uomini che a torso nudo e con una larga fascia a tracolla, gravati da un grosso cero sulle spalle, a passo svelto affrontavano pregando la dura salita da’ ‘N chianata ‘ì sapunara. Indossavano solo larghi mutandoni( mutanni ‘a sbaccu). Poi l’’ingresso spettacolare all’interno del Santuario e l’urlo liberatore: “Sant’Afiuuuuuuu!!!”. Fin dal settecento la festa di S.Alfio a Trecastagni era uno dei tre eventi religiosi, dopo quella di Sant’Agata e del Carmelo, più seguiti dai cittadini catanesi. Nel quartiere della Civita, non avrebbero mai concesso in sposa la propria figlia se il pretendente non avesse promesso di andare tutti gli anni con la famiglia per festeggiare i Tre Santi. Anche a Sant’Alfio a Vara il culto dei tre Santi è molto sentito. Il toponimo del piccolo centro situato alle falde dell’Etna, possiede una propria peculiare simbologia. Prende il nome dal Fratello più grande dei tre. Alfio, prima di morire arso nella pece, incitò i fratelli a non cedere all’abiura della Fede cristiana. Inoltre la “Vara”(sbarra) fa riferimento a un miracoloso evento capitato ai tre Santi durante il lungo tragitto mare-terra che da Messina li portò a Lentini nel passaggio obbligato tra le lave dell’Etna. Tradizionalmente il piccolo centro celebra i suoi tre Santi la prima domenica di maggio, lo fa proprio per non farla coincidere in concorrenza con quella di Trecastagni. Nella festa “Sant’Affiota”, spicca la “Dera”: piccoli falò accesi presso l’uscio di ciascuna abitazione lungo le strade principali del Paese. L’usanza nasce dal ricordo della compassione che il popolo manifestò durante il transito dei tre giovani fratelli. “I falò servivano” -spiega il devoto Orazio Patanè- “ a illuminare e riscaldare il cammino dei Tre martiri. Intanto che passavano la gente cercava di rifocillarsi sfidando l’ira delle guardie di scorta.
Pubblicato su “La Sicilia“ 11.05.’25
L’autobus Rosa
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Chi a quell’epoca era ragazzino, se lo ricorderà. Quello che accadde nell’autunno del 1960, oggi avrebbe fatto “incazzare” di brutto i fautori del “politicamente corretto”. Per loro, come è noto, vige il divieto di esprimersi per “genere”. L’episodio riuscì a dividere profondamente. Da un lato mise in moto la fantasia del “barzellettieri”, dall’altro fece storcere il muso ai tanti progressisti amanti del modernismo. Ma ci fu pure chi tirò un sospiro di sollievo. “Cose di Catania” si direbbe; e in effetti solo a Catania terra della liscìa possono accadere simili cose. Chissà come avrebbe reagito poeta Domenico Tempio se fosse stato in vita. Stesso discorso per Ciccio Buccheri Boley. Ma questo acuto poeta umorista, in quel preciso periodo era ormai quasi giunto al “capolinea” della sua vita. Certi aneddoti, certi accadimenti restano indelebili nella storia della nostra città. All’epoca, se ne parlò così tanto che la notizia in poco tempo si diffuse a macchia d’olio. Riuscì davvero a fare il giro del mondo. “Cririmi”-disse un giornalista catanese al collega di Milano-“Mi cascàu a facci ‘nterra…! E meno male che non esistevano ancora i “social”, altrimenti ciascuno si sarebbe potuto sbizzarire a piacimento. I toni sarebbero stati senza dubbio ironici e irriverenti. E’ dell’autobus linea 27 che stiamo parlando, al quale venne affiancato “l’Autobus rosa”. Guarda caso, manco a faro a posta, il numero 27 nel gioco del lotto significa “Pitale”(vasino da notte). In quei primi anni Sessanta dello scorso secolo, non erano ancora molte le auto private in circolazione. A scuola, a lavoro, al cinema o a una festa da ballo ci si andava con i mezzi pubblici. Per il “gentil sesso” era ancora più complicato spostarsi. La donna che lavorava fuori dalle mura domestiche, non era vista di buon occhio. In particolare modo quelle che lavoravano nelle grandi aziende dove la commistione tra uomini e donne era la regola. “ ‘A picchì non si stanu ‘e casi!..Era il commento ricorrente degli uomini. In quegli anni, la città era nel pieno del suo sviluppo. Alla zona industriale, le nuove aziende nascevano come i funghi. Il lavoro era assicurato e la disoccupazione ai minimi livelli. In giro si vedevano ancora le “carrozzelle” con tanto di cavallo e cocchiere. Difficilmente si sarebbero avventurate per andare alla zona industriale. In ogni caso ci sarebbero voluti un bel po’ di quattrini al giorno, non era roba per operai/e. In circolazione vi erano anche le vetture private. In particolare la seicento multipla. Ne usufruivano soprattutto le famiglie che provenivano dalle estreme periferie, oppure coloro i quali dai paesini dell’Hinterland si spostavano verso la città e viceversa. Poteva imbarcare da quattro a cinque persone, con gli strapuntini (seggiolini aggiuntivi) anche sei o sette. Era dotata di portabagagli nel retro e sul tetto. Ma ad essere prese d’assalto tutti i giorni erano i mezzi pubblici. Le poche vetture circolanti della SCAT, risultavano sempre affollate. I passeggeri erano così “pigiati” tra di loro che quasi non era necessario tenersi nei sostegni. C’era sempre la corsa per accaparrarsi un posto a sedere. La linea 27 era quella che faceva tappa alla Zona industriale. Partiva da piazza duomo. All’interno, uomini e donne salivano di prima mattina per raggiungere il loro posto di lavoro. Tutto normale… invece no. Si sa che l’occasione fa l’uomo ladro; a volte anche sporcaccione. Fatto sta che signore e signorine nubili, spostate oppure fidanzate, erano costantemente “attenzionate”. Lamentavano di essere oggetto di “struscio” e “manomorta” da parte di uomini di tutte le età. Qualcuno si “imbucava” per partecipare. Quella tratta era diventata un vero e proprio “oltraggio al pudore”. Tra una corsa e l’altra, volò sì qualche ceffone, esplose pure qualche zuffa; ma nacquero anche teneri amori. Serpeggiò inevitabilmente tra mariti e fidanzati, una più che giustificata gelosia. I sussurri diventarono grida. La mattina del 18 ottobre del 1960 ci furono i poliziotti ad attendere operaie e operai al capolinea. Un solerte agente si incaricò dello “smistamento”. Le prime furono fatte salire su un autobus di colore “rosa” per sole donne, i secondi furono fatti accomodare sulla solita linea 27. Ci fu qualche mugugno, ma nulla di più. Si aprì la caccia all’autore della “trovata”; tutti: dirigenti e impiegati compresi, negarono qualsiasi coinvolgimento. Della faccenda ne parlarono i giornali di mezzo mondo. L’ironia fu tagliente, la società catanese non ne uscì affatto bene. Ci fu perfino chi tenne a battesimo le due vetture: “Cuncittina” fu l’autobus rosa; “Baffuni”, l’altra.
Pubblicato su “La Sicilia” del 10.03.25
