ANTICHI ACQUEDOTTI CATANESI
- Dettagli
- Categoria: Moda Costume e Società
- Scritto da Santo Privitera
Cattivo tempo al nord, siccità al sud, l’Italia è divisa in due. Non autonomia differenziata ma clima differenziato. La natura fa il suo corso senza alcuna burocrazia. L’ideologia in questo caso è unica e risponde solo ai disegni del creatore. Da quando esiste il mondo, è sempre stato così. Chi parte da Catania per recarsi nelle città del nord Italia anche in piena estate, in valigia o nello zaino porta almeno un maglioncino al seguito. “ ‘A ddassupra c’è friddu; pottiti quacchi cosa di pisanti, non si po’ sapiri mai…” è la raccomandazione che i famigliari rivolgono ai propri cari in procinto di affrontare un viaggio verso il settentrione d’Italia. Il cambiamento climatico è certo che esiste. La maggioranza degli esperti però è propensa a credere che “munnu ‘ha statu e munnu è”. Si tratterebbe più che altro di una normale ciclicità climatica. Uno “smacco” per i “catastrofisti” di professione, secondo i quali: “ ‘o peggiu non c’è fini”. Allo stato attuale, ciò che preoccupa in particolare i siciliani è la siccità. Le scarse piogge hanno impoverito gli invasi e prosciugato importanti risorse idriche utili per gli usi domestici oltre che per quelli irrigui. In aggiunta, l’enorme spreco generato dalle infrastrutture che fanno “acqua da tutte le parti”, aggrava non poco il problema. Poi c’è la questione delle opere idrauliche iniziate e mai concluse. Gli acquedotti sono al limite del collasso. “Supra ‘a vàddira, ‘n craunchiu” (sopra un’ernia nasce un foruncolo) direbbe ogni buon catanese. “ ‘A squagghiata ‘da nivi si vìrunu ì puttusa” è però un modo di dire per indicare la constatazione di un problema solo quando esso si manifesta. Eppure nella nostra Isola tutto potrebbe mancare tranne che l’acqua. L’anno scorso nel sottosuolo ragusano, ricco di trivellazioni petrolifere, è stato scoperto un vastissimo giacimento d’acqua. Una risorsa di acque dolci di origine piovana le cui sorgenti-come riportano le recenti cronache-si troverebbero fra i 700 e i 2500 metri di profondità al di sotto dei Monti Iblei. Una risorsa talmente grande che potrebbe in gran parte risolvere la profonda crisi idrica che sta attanagliando la Sicilia. E’ Catania la città che storicamente vanta una privilegiata tradizione in materia idraulica. La nostra città è stata sempre ricca d’acqua. Grazie anche alla presenza dei suoi “alti rilievi” e soprattutto alle nevi dell’Etna. Nel suo sottosuolo scorrono laghi e fiumi. I più noti fiumi sono il Longane e l’Amenano. Il lago di Nicito dalle copiose acque, venne totalmente coperto dalla colata lavica del 1669. Quando nel 729 a.C. i Calcidesi fondarono Katana, scelsero questo sito grazie anche all’abbondanza delle acque. In una delle prime monete, un tetragramma, come simbolo venne raffigurato il Dio fluviale “Amenanos” sottoforma di un toro androcefalo. Raramente la città ha sofferto la mancanza d’acqua. I sistemi di captazione per quei tempi erano molto sofisticati. Pozzi, fontane, lavatoi, numerose sono le testimonianze storiche ancora esistenti. Molte delle fontanelle ancora oggi sparse tutto il perimetro urbano, si presentano prime di rubinetto. Indice di scarsa manutenzione che purtroppo implica uno spreco che andrebbe evitato. Quando la calura delle estati catanesi si fa sempre più forte, una fontana in una delle strade del centro storico e nelle periferie la si trova sempre. Famosa è quella meglio conosciuta come “ ‘Muss’i ferru”. E’ la preferita dei turisti. Si trova addossata al muro della chiesa San Francesco all’Immacolata(Piazza S. Francesco). I catanesi mostrano una certa comprensione nei loro confronti. A volte gli danno perfino la precedenza. Tra amici invece si scherza: “ ‘Lassammilla, non t’ha viviri tutta” è il tono che si usa quando qualcuno beve con avidità. I disastri naturali, fortunatamente non sono riusciti a cancellare le Terme romane e neanche i possenti acquedotti i cui resti sono in parte visibili in alcune zone strategiche della città. Le vie dell’acqua sono molto vaste e suggestive da seguire. L’acquedotto di Catania fu la maggiore opera di convoglio idrico nella Sicilia romana. Attraversava il territorio compreso tra le fonti sorgive di Santa Maria di Licodia e l’area urbana catanese, percorrendo gli attuali territori comunali di Paternò, Belpasso e Misterbianco prima di giungere al capoluogo Etneo. Quello che invece si partiva della Licatia, nel sec.XVII copriva interamente l’area urbana. Serviva: da una parte per i possedimenti benedettini, dall’altra per gran parte della città. Alimentava mulini e abbeveratoi. Sfruttava le acque del fiume Longane che ancora oggi da quelle parti scorre a pelo libero perdendosi.
Catania 02.06.2024
Nella foto, un tratto dell’antico Acquedotto Romano
TRA I CANTI POPOLARI SICILIANI
- Dettagli
- Categoria: Arte e Musica
- Scritto da Santo Privitera
La musica è tra i fattori che hanno reso celebre l’Italia nel mondo. Musica colta per gusti più raffinati; musica popolare per chi invece predilige le antiche tradizioni. Si dice che l’Italia sia “Patria di santi e navigatori”: perché non aggiungere anche…di “poeti, musicisti e cantanti?” Ciascuno nel proprio ruolo, è da considerare “cassa di risonanza” della divina arte. Non solo i professionisti affermati, ma il contributo dei cosiddetti “Illetterati” e “orecchisti” è stato determinante. Loro si formavano nella “strada” a contatto con la realtà di tutti i giorni. Praticavano i mestieri più umili. A Catania, all’ospizio di beneficienza, tra i vari mestieri si insegnava pure la musica. Celebre “ ‘a banna do’ cummittu” composta dagli “orfanelli”. Veniva ingaggiata per esibirsi nelle cerimonie pubbliche. In questa struttura dove insegnò il musicista ricercatore e direttore d’orchestra Francesco Paolo Frontini, si formò professionalmente anche il maestro Gaetano Emanuel Calì. Il musicista catanese fondatore nel 1929 dei Canterini etnei, sui versi del poeta Giovanni Formisano, compose pure la celebre mattinata “ ‘E vui durmiti ancora”. Da quelle mura uscì pure Giovanni Gioviale, incontrastato genio del mandolino. Dalla lirica all’operetta, dalla ballata alla canzonetta, il nostro Paese vanta una tradizione musicale che non è seconda a nessuno. Dell’ampio comparto a carattere culturale racchiuso nel termine Folk(popolo)+lore(sapere), i canti popolari dialettali sono parte integrante. E’ importante sottolineare come in alcune regioni piuttosto che nelle altre, l’esaltazione delle bellezze naturali dei luoghi hanno ispirato capolavori immortali. Gioie, dolori, patimenti e amori sono stati i temi più comuni. Trattati con la giusta dose di umorismo e ironia, hanno ben rappresentato lo spirito e la filosofia in dote al popolo. “Romagna mia/Romagna in fiore/ tu sei la stella/ tu sei l’amore”, si canta nell’Emilia Romagna del “Liscio”. Mentre in Puglia, terra della “Taranta” e della “Pizzica”, stride un po' quel: “Qunt’è bellu lu primm’ammore…’u secunnu ‘è chiù bello ancor”(Lu maritiello). La canzone napoletana classica, ad esempio, è conosciuta in ogni angolo del pianeta. Grazie anche agli interpreti che l’hanno resa particolarmente accattivante. Molti dei suoi più celebri motivi sono stati tradotti in diverse lingue. “Chist’è ‘o paese d’o sole/ chist‘è ‘o paese d’o mare/ chist’è ‘o paese addo’ tutte è canzone so’ doce o so’ amare/…so’ sempe parole d’ammore”/( ‘O paese d’o sole). Era 1925 quando i poeti Vincenzo D’Annibale e Libero Bovio la scrissero. Se le delicate note di Giovanni Danzi celebrano una “Bela madunina che le brilla de luntan”; a Firenze “sull’Arno d’argento si specchia il firmamento/ mentre un sospiro e un canto si perde lontano”(Firenze sogna). Lo spirito “capitolino” aleggia sempre tra le note delle canzoni romane. Non un “addio” ma un “Arrivederci”. “Arrivederci Roma/Goodbye, Au revoir”. Cantava così un “piccoletto” ma grande Renato Rascel figlio prediletto della città eterna. Dal Nord al Sud il divario sta pure negli atteggiamenti femminili. Alla frivola “Bella Gigogin” si contrappone una morigerata “Calabrisella ciuri d’amuri”. La Sardegna delle ballade” a suon di launeddas(caratteristico strumento musicale a fiato), si potrebbe fare un discorso a parte. Per farlo, dovremmo però addentrarci in un mondo pastorale un po' troppo complicato. Questo ideale “excursus canoro” nell’Italia della canzonetta popolare, sia pure largamente rimaneggiato, si completa nella nostra Isola. “Forti, sunati forti sunaturi/ cu bummuli friscaletti e marranzani/ ca chistu è lu vantu di li Siciliani”.(Terra d’amuri). Nel 1985 dello scorso secolo, così scriveva un poeta contemporaneo nostrano. Il repertorio musicale è molto vasto. I ritmi vivaci e allegri si alternano a melodie struggenti e commoventi. A essere considerato l’Inno della Sicilia, è il brano “Ciuri ciuri”. Alla versione originale del 1833 rinvenuta nella raccolta Frontini, sono seguiti diversi rifacimenti. Quello del 1939, più consistente, sarebbe stato operato dal critico e musicologo Francesco Pastura coadiuvato dal poeta Carmelo Molino. E’ stato interpretato anche da celebri artisti. “Vitti ‘na Crozza” è invece un motivo tanto famoso quanto discusso. Dopo anni di contrasti dovuti ai diritti d’autore, è stato finalmente attribuito al musicista agrigentino Franco Li Causi. Si tratta di un canto funebre ispirato ai minatori morti e rimasti sepolti nelle miniere. Un’atto d’accusa contro una società insensibile, avida e egoista. Il motivo originale, è stato successivamente trasformato in un ballabile che parrebbe stridere con il contenuto. In realtà quel “Trarallallero, lallero…lallero…” non è altro che una variante per esorcizzare la morte.
"INCONTRI D'ARTE " CON FRANCESCA PRIVITERA
- Dettagli
- Categoria: Arte e Musica
- Scritto da Santo Privitera
Il successo ottenuto con la personale di pittura “Incontri d’Arte” realizzata al Castello Leucatia dal 22 al 25 ottobre scorso, non ha fatto altro che confermare il limpido quanto proficuo percorso artistico già da tempo intrapreso dalla maestra d’arte Francesca Privitera. L’incontro si è poi concluso con uno spettacolare recital poetico che ha visto la partecipazione di alcuni tra i più noti poeti di Catania e provincia. Pregevole e bene organizzata anche nei minimi dettagli, la mostra ha affascinato i visitatori per la poliedricità delle opere esposte e il gusto della scelta. Un artista esprime tutto il sentimento e la sensibilità che possiede dentro; se poi questa sensibilità e questo sentimento sono supportati dall’innata passione e dallo studio intenso, il messaggio profondo che pervade lo spirito giunge immediato. Un concetto, questo, che Francesca Privitera, sembra aver fatto proprio. Pittrice, scultrice, decoratrice e perfino poetessa: tutto questo è Francesca. La definisco una “poetessa del pennello” proprio perché la sua pittura è di per sé letteratura. E non c’è una sola deficienza poiché eccelle in tutte queste forme d’arte espresse. Le sue opere risentono molto del suo carattere brillante ed estroverso, anche se da alcune di esse traspare un sottile velo di malinconia che sfugge a una prima superficiale “lettura”. I lavori esposti danno l’esatta misura della potenza espressiva di cui è dotata l’artista. Francesca ha ormai acquisito una tecnica e una padronanza che la rendono sempre più matura all’occhio della critica. Questo è frutto di un continuo lavoro di laboratorio e di confronto svolto a fianco di altri talentuosi artisti. I suoi soggetti, nella loro apparente semplicità, esprimono un proprio carattere; quasi fossero dotati di anima, possiedono un eloquente linguaggio che li rende vivi. Elementi tematici prediletti della sua arte sono la sicilianità, la sacralità e la quotidianità. Il suo è un moderno espressionismo che le consente di dipingere con le dovute proporzioni tutto ciò che la colpisce della realtà e non solo. Come non dare ragione alla dott.ssa T. Rapisarda quando sostiene nella sua sintetica nota che “una scarpa, un bicchiere, al pari dei volti o della Madonna, diventano vettori del suo messaggio”. Non sfugge-infine- il particolare di avere visitato una mostra di pochi esemplari rispetto alla totalità della sua vasta produzione.
Nella foto di Gianni De Gregorio, L'artista mentre ringrazia il numeroso pubblico intervenuto.