Storia e tradizioni popolari

F.I.T.P. : LA GIORNATA FOLKLORICA A VALVERDE

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Malgrado gli attacchi subiti dall’incalzare del progresso, resistono ancora le tradizioni siciliane. A dire il vero, più nelle rappresentazioni che nella pratica quotidiana. Il popolo siciliano possiede un folklore ricco e originale, abbastanza conosciuto ormai in una vasta porzione del mondo. Molto ha contribuito il fenomeno migratorio cui è stato soggetto nei secoli. Per folklore si intende quel complesso generico di materiali che attengono agli usi e costumi dei popoli. Quello siciliano comprende una variegata serie di espressioni artistiche che dalla decorazione dei carretti e delle terrecotte, va agli spettacoli coloriti dell’opera dei pupi; dalla gastronomia semplice a genuina fino alle suggestive processioni religiose che a loro volta traggono le proprie origini da antichissimi retaggi pagani. Senza contare le danze e i canti popolari che continuano ancora ed essere praticati sia pure con grandi difficoltà. Lo studio del folklore, da sempre ha impegnato eminenti studiosi locali. Illustri figure che con le loro ricerche hanno riportato alla luce, materiale destinato a rimanere sepolto per chissà quanto tempo ancora. Ricordiamo su tutti il medico palermitano Giuseppe Pitré, padre della demopsicologia moderna; autore di ben quattordici libri sull’argomento. Con lui, l’esperto etnologo e scrittore Salvatore Salomone Marino. A testimonianza del grande interesse nutrito dai siciliani per le tradizioni del loro popolo, sempre tra l’Ottocento e il Novecento, altri studiosi si sono occupati di reperire e catalogare antichi testi e composizioni ancora sconosciuti. “Scavando” tra biblioteche e ambienti dismessi, hanno rintracciato materiale di grande utilità musicale e letterario da offrire ai cultori. Tra questi ricercatori, il nome dell’illustre etnologo messinese Giuseppe Cocchiara. Ma anche quello dell’agrigentino Alberto Favara e dell’acese Leonardo Vigo. Non ultimo il critico musicale e compositore catanese Francesco Pastura. La fraterna amicizia che lo legò al maestro Francesco Paolo Frontini, musicista di grande fama e autore di una interessantissima raccolta musico-poetica che porta il suo nome, lo indirizzò verso lo studio dei canti popolari. Pastura si occupò anche di ordinare i manoscritti di Vincenzo Bellini, divenendone uno dei massimi studiosi. Fu direttore del museo belliniano. Oltre ai tanti scritti di musicologia pubblicati su vari quotidiani e riviste internazionali, a lui si deve la scoperta e la pubblicazione di antichi canti tra i quali la famosa “Ciuri ciuri” eretta a “Inno” della sicilianità nel mondo. Con i naturali ricambi generazionali imposti dal tempo, numerose antiche tradizioni sono del tutto scomparse. Nella loro essenza originaria, perdute per sempre. Resistono in parte, solo in alcuni paesi dell’entroterra isolano. Anch’esse però sono destinate a cessare rapidamente. Per questa mattina, nel ridente paesino di Valverde, è prevista una manifestazione folklorica con la presenza di numerosi gruppi Folklorici provenienti da tutta l’Isola. Il titolo è abbastanza significativo: “ L’importanza delle tradizioni e della cultura popolare nella società moderna”. Un resoconto che, partendo dalla storia, arriva a nostri giorni. Ne discuteranno due esperti della materia. A organizzarla è stata la F.I.T.P. (Federazione Italiana Tradizioni Popolari) regionale, nell’ambito della “Giornata nazionale del folklore e delle tradizioni popolari” che dal 2019 si celebra il 26 ottobre di ogni anno. L’evento a cadenza annuale è stato istituito in Italia per sensibilizzare le popolazioni sull’ importanza culturale delle tradizioni popolari nelle diverse regioni italiane. L’intento è pure economico, visto che il nostro Paese è ricco di risorse storiche architettoniche ed ambientali di grande interesse. Tenere viva la memoria delle tradizioni attraverso rituali, balli, costumi e rappresentazioni teatrali esponendole alla curiosità dei turisti provenienti da varie parti del mondo, significa valorizzare maggiormente le radici della nostra terra. In mattinata verrà ricordata anche la figura umana e artistica del maestro tamburellista Alfio Russo, venuto a mancare prematuramente lo scorso aprile. Russo per tanti anni alla guida regionale della F.I.T.P. è stato un infaticabile organizzatore di manifestazioni folkloriche, portando in giro per il mondo canti e balli soprattutto catanesi. Nel 2016 venne insignito del prestigioso Premio Nazionale “Padre del Folklore”. È stato autore di un libro che ripercorre la storia dei gruppi Folklorici catanesi e i suoi maggiori personaggi dal 1929, anno di fondazione dei “Canterini etnei” al 2018.

 

Nella Foto, la Conferenza organizzata a Valverde.

 

Pubblicato su "La Sicilia" del 29.10.2023

 

 

LA RICOGNIZIONE CANONICA DELLE SACRE RELIQUIE AGATINE

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Con il Giro interno detto dei “Nobili” perché attraversa il centro storico tra le arterie circondate da palazzi nobiliari, si concludono i festeggiamenti agatini. Ormai non più il 5 sera come una volta, ma nella prima mezza giornata del 6 febbraio. Poche le novità, ma ci sarebbe anche un importante anniversario da ricordare. Sessant'anni fa veniva effettuata l’ultima ricognizione canonica delle reliquie agatine. Era il 3 febbraio del 1963. Nella cattedrale erano presenti il cardinale Larraona(delegato del papa), l’arcivescovo Guido Bentivoglio, il medico legale Prof. Nicoletti, gli orafi di fiducia e le autorità municipali. Come riportato dalle fonti dell’epoca: “Venne eseguita l’ispezione accuratamente trascritta nei minimi particolari”. In passato era avvenuto altre volte. Nel 1376, anno in cui il costruttore Giovanni Di Bartolo da Siena, consegnò ai catanesi il prezioso Busto reliquiario; successivamente nel 1444, 1501, 1797 e 1915. Quest’ultima, ordinata dal cardinale Giuseppe Francica Nava. Quella del 1963 è  stata la più dettagliata e curata in tutte le sue parti. Il silenzio fu dentro e fuori le antiche mura della Cattedrale. Le porte rigorosamente sbarrate; nessun estraneo poteva essere ammesso ad assistere: solo gli addetti ai lavori. Il momento era solenne, emozionante; occasione unica per coloro che ebbero questo privilegio. Il giuramento di tutti i presenti, era parte del rito consistente nella rottura del sigillo e l’apertura della calotta cranica del busto reliquiario. Una volta estratte le sacre ossa, prima dell’ispezione vennero portate in processione all’interno dello stesso luogo di culto. L’obiettivo principale era quello di constatare lo stato di conservazione e di trascrivere analiticamente le reali condizioni del teschio e delle altre parti conservate all’interno del prezioso busto: torace e viscere(rinsecchiti). Con essi anche i reliquiari anatomici  esposti alla venerazione negli appositi preziosi astucci d’argento massiccio dorato, sbalzato e cesellato. Sono in tutto sette: due contengono i femori, due le braccia con le mani , due le gambe con i piedi, una mammella. Solo una, perché l’altra, durante l’avventuroso trasporto da Costantinopoli a Catania, rimase in terra di Puglia. Una curiosità. Nel dito di una mano, si nota distintamente la mancanza di un lembo di pelle. Il motivo di tale lacerazione ce la racconta Pietro Carrera nella sue “Memorie historiche catanesi”(1641). Secondo lo storico militellese, la reliquia sarebbe stata morsicata da un prelato il quale, fingendo di baciarla, senza farsene accorgere strappò coi denti un pezzetto di carne. Allora non vi era alcuna protezione. Le reliquie dei santi potevano essere baciate anche attraverso il contatto diretto. Dovendo partire, il religioso tentò inutilmente di imbarcarsi per prendere lestamente il largo. Tutte le volte che saliva a bordo del piroscafo, il mare si rivoltava minaccioso. Le onde alte avrebbero reso sconsigliabile qualsiasi viaggio. Constatato il prodigio, il religioso fu costretto perciò a restituire il lembo di pelle morsicato. Confessò tra le lacrime il misfatto. Tornando alla ricognizione. Oltre a una cerchia ristretta di clericali, vi parteciparono il sindaco Salvatore Papale, il presidente della confraternita Sant’Orsola, Andrea dell’Acqua, e un giovanissimo Luigi Maina non ancora  investito della carica di cerimoniere del Comune di Catania. Il bollettino ecclesiastico riportò  il seguente rapporto: “La calotta conservava aderente al cranio la cotenna di colore scuro, senza traccia veruna di capelli: e parti di pelle si è osservata dagli zigomi facciali in giù, ed anche parti di essa nella mandibola, la quale era staccata e trattenuta al teschio con due nastri di seta: l’uno antichissimo color rosa secca; l’altro rosso di epoca più recente. Rimanevano attaccati al teschio”-continua la relazione-“solamente alcuni molari di colore oscuro”. Quando verrà effettuata la prossima ricognizione? Qualche anno fa pare che l’amministrazione del tempo abbia cominciato a “sondare il terreno”presso gli esperti del museo Vaticano. Non se ne fece nulla. Il problema, Intanto, sono le condizioni in cui versa il busto reliquiario. Sempre bello a vedersi ma alquanto degradato: annerito nel volto e con alcune parti consumate; necessiterebbe un serio restauro come Dio comanda. Non sarà facile, soprattutto perché simili operazioni richiederanno un lasso di tempo più o meno lungo.

 

Nella foto, un momento della Ricognizione canonica. Al centro, l'arcivescovo Mons. Guido Bentivoglio.

Pubblicato su La Sicilia, Febbraio 2023   

                                                                        

PROVERBI(Nuova serie) 1

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-QUANTU DANNU FA 'NCRETINU, MANCU 'MPORCU 'NTO GIARDINU( Un cretino fa più danno di un maiale quando entra all'interno di un giardino)

-AMA CU T'AMA SI VO' AVIRI SPASSU, CA AMARI A CU NON T'AMA E' TEMPU PERSU( Ama chi ti ama se vuoi gioire, perchè amare chi non ti ama è solo una inutile perdita di tempo )

-'A GENTI VILI, L'ASSILA JIRI( Le persone vigliacche vanno allontanate dalla propria vita)

-'A PIGNATA TALIATA, NON VUGGHI MAI(Una pentola o quant'altro, quando viene che viene guardata assiduamente non da' il risultato sperato) 

-'A VIGNA ASSEMI 'A RAMIGNA FA BONU VINU( IL vigneto infestato di gramigna, migliora la qualità del vino)

-'A PUTìA SI NON CHIOVI STIZZìA( Un'attivita commerciale, anche se non ti arricchisce, ti fa vivere degnamente).

-'A VIGNA VECCHIA FA BONU VINU(Il vigneto vecchio migliora la qualità del vino)

MEMORIE BELLICHE CATANESI

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“Ogni annu ci nnè una”. È vero: “ ‘n’annu non è comu a n’autru annu”. Al peggio, non sembra mai esserci fine. “Il più bello dei mari è quello che non navigammo”, scriveva in un suo famoso componimento il poeta Nazim Hikmet. Si aspetta la bonaccia, per farlo; Prima o poi dovrà arrivare. L’anno scorso eravamo ancora alle prese con i vaccini e il covid; in un modo o nell’altro si parlava di …speranza. Oggi la guerra in Ucraina non mostra un solo spiraglio di pace. A Natale si dovrebbe essere tutti più buoni; “Palora ca si dici”, diremmo nel nostro dialetto per semplificare: purtroppo resta la solita “frase fatta”. Il conflitto alle porte dell’Europa pesa come un macigno, anche perché alle grandi sofferenze di un popolo si aggiunge il timore per l’eventuale coinvolgimento di altre Nazioni. La “spada di Damocle” della guerra nucleare è sempre presente, ma è pure un valido deterrente. Meno male. Accadde così agli inizi degli anni ’60 dello scorso secolo. La paventata istallazione di missili a Cuba da parte dell’Unione Sovietica, innescò una profonda crisi tra USA e URSS. Le armi erano ancora “fumanti” visto che il secondo conflitto mondiale era terminato da appena 15 anni. Si era in piena “guerra fredda” e tutto poteva accadere. A Catania, la guerra è ricordata con orrore dai sopravvissuti. Ancora oggi, dalle parti di via Garibaldi e della marina, qualche antico edificio reca inequivocabili segni degli eventi bellici che colpirono la città tra il 1941 e 1943. Oltre alla popolazione, a subire i danni maggiori fu il tessuto urbano della città . Nel dopoguerra i cambiamenti si resero necessari. Furono profondi ma non stravolgenti. Durante la ricostruzione, si effettuò la conta di cosa salvare e no del patrimonio culturale e materiale della città. I parametri si basarono sulle convenienze economiche prima ancora di quelle affettive. In alcune parti della città, dove le bombe sganciate dalle fortezze volanti anglo-americane avevano colpito duramente, non si ricostruì più. Sulle macerie nacquero strade e piazze. Alcune chiese molto danneggiate, vennero abbattute. Tra queste, la chiesa di San Giovanni. Si trovava in via Garibaldi “alta”, quasi addossata al vecchio teatro Eliseo. Nelle vicinanze vi è pure la lapide che ricorda la casa Natale del popolare attore Angelo Musco. Nella cripta di questa chiesa, si trovavano sepolte le spoglie mortali del grande poeta illuminista Domenico Tempio. A seguito della devastazione, vennero rimosse insieme a tutte le altre e tumulate negli ossari comuni del cimitero monumentale catanese. Non solo case, chiese e monumenti, ma anche gli altarini “raccontano” la storia bellica etnea. La nostra città, a testimonianza della profonda devozione dei suoi abitanti, di queste edicole votive o “tempietti in miniatura”, ne possiede una enorme quantità. Sono sparse per tutto il Centro storico e oltre. Senza parlare di quelle esistenti nei quartieri periferici. Spesso la loro presenza ha contribuito alla denominazione toponomastica di un luogo o di una contrada. Innalzate come ex voto per una grazia ricevuta, sono dedicate ai Santi, alla Sacra Famiglia e alle immagini sacre in generale. Molte di queste, anche alla Santa Patrona Vergine e Martire Agata. Sono quasi tutte di grande pregio. Altre sono artigianali ma non per questo privi di valore. Sarebbe stato un peccato perderli. Chi attraversa Porta Uzeda, nota subito la teca contenente il dipinto del Cristo Flagellato. Gli antichi catanesi lo conoscono come “Ecce Homo”. Reca sulla fronte uno squarcio. L’opera pittorica, durante i bombardamenti del 1941 si salvò miracolosamente. Non venne mai restaurata perché, come recita la lapide posta di fianco, “Sia sempre monito di pace”. Una icona molto venerata è quella che si trova nella cosiddetta “calatedda” che immette sulla via Dusmet. Il dipinto riproducente la Vergine Maria è anch’esso tuttora danneggiato. Siamo nel cuore della Civita. “Madre Santissima”-recita la scritta posta alla base dell’altarino-“La tua immagine rovinata dall’infausta guerra, ci induca a pregare di più per la pace”. Restando sul tema: come non citare il glorioso teatro Coppola( già comunale)? Della sua triste storia e dei suoi gloriosi trascorsi, ormai si conosce tutto. Di farlo ritornare agli antichi splendori, però , non se ne parla. Venne abbattuto durante un cannoneggiamento dal mare. A “ bumma ‘i mari” com’era chiamato il proiettile scagliato da una nave da guerra, si impennò andando a colpire in pieno l’antico complesso architettonico nato settant’anni prima del “Bellini”. Di questo teatro, anch’esso ubicato alla Civita, è rimasto poco. Solo il sito che volenterosi giovani da anni cercano di valorizzare attraverso ammirevoli iniziative culturali.

 

Pubblicato su La Sicilia dell'11.12.2022

Nella foto, estate del 1943, l'ingresso dei carri armati alleati al Duomo di Catania

 

LE ANTICHE FIERE DEL BESTIAME IN SICILIA

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Molte città italiane oggi sono invase dai cinghiali. Pascolano tranquillamente nei cassonetti stracolmi di spazzatura. Tra le auto e in mezzo alla gente ormai diventata indifferente. Qualche scatto fotografico e un video da postare sui social per documentare ciò che sta diventando “Normale”. Intere famiglie di animali selvatici scendono dai vicini boschi, dalle campagne, dopo avere devastato ettari di terreno coltivati a vigneto o a ortaggi. I cuccioli al seguito dei genitori suscitano perfino un po' di tenerezza. Qualcuno gli offre incautamente del cibo. Il disappunto dei contadini costretti a fare la quotidiana conta dei danni, in questi casi diventa rabbia. Gli allevatori di maiali temono l’esplodere della “peste suina”; troppe sono le carcasse dei cinghiali morti rinvenuti nei campi di pascolo. A seguito della ferrea opposizione degli animalisti, risulta difficile abbatterli; la situazione resta così in fase di stallo. Siamo “nell’era del cinghiale”ironizza qualcuno. Davvero uno strano fenomeno quello dei suini selvatici che si riversano nei centri abitati. La grande quantità di spazzatura ammassata per strada, li attirerebbe. Non si esclude neanche la mancanza di alcune specie di “predatori” già in via di estinzione. Sembriamo essere tornati indietro nel tempo, quando per le strade dei piccoli centri rurali come nelle città, si svolgevano le “Fiere del bestiame”. Una questione esclusivamente commerciale. Allevatori, contadini, macellai ma anche privati cittadini si riversavano nei centri abitati per vendere o scambiare i propri animali ( asini, muli, cavalli, vacche, pecore capre e altro ancora). La contrattazione avveniva tramite “ ‘u sinzali“(mediatore). Il linguaggio convenzionale era “‘u baccagghiu “, tipico del commercio popolare. Il “tira e molla” poteva durare anche ore. “Avanti, ci rassi tri catti e non nni parramu chiù;…’a crapa è da so!”. Ad affare concluso, ammiccamenti e strette di mano. Poi al mediatore “gli facevano “abbagnari ‘a ucca”; ovvero gli elargivano una piccola somma di denaro quale compenso. Fino agli anni ’80 questa pratica era ben viva. Anche oggi in alcuni centri dell’entroterra isolano resiste. Gli accorgimenti sanitari non sono più quelli dell’Ottocento. A quell’epoca il “traffico cittadino”, anche se non esistevano le automobili, era ancora più intenso di oggi. Le stradine erano quasi tutte strette. Si andava a piedi o a cavallo. Cocchieri e carrettieri il “limite di velocità” lo rispettavano. Solo i conducenti degli omnibus a quattro cavalli a volte esageravano nella corsa. Lo facevano solo per la fretta di colmare i ritardi. Gli autisti di oggi fanno lo stesso. I tempi e orari scanditi dai cittadini erano diversi dai nostri. Sconosciuta era a quel tempo la parola “smog”. Paradossalmente, lo sterco fumante dei cavalli, con il suo odore penetrante risultava un potente “espettorante” per chi era affetto da patologie polmonari. L’unico problema era il disordine che regnava in ogni angolo di strada e della melma causata dalle urine stagnanti degli animali. Non era cosa da poco. Da qui le frequenti epidemie che esplodevano all’improvviso. La mente ci riporta a un curioso fatto storico accaduto a Catania nel primo ventennio dell’800. Per evitare che le greggi venissero fatte transitare per il centro storico, mil senato cittadino fu costretto ad intervenire. Troppi erano gli animali “vaganti”. Adducendo motivi igienici, emanò un severo bando con il quale dava il “via libera” all’abbattimento degli animali commestibili vaganti per la città. Pecore, buoi, mucche, maiali e galline soprattutto. I cacciatori si misero subito a lavoro. L’utilità del provvedimento consisteva nel fatto che la carne della “preda” abbattuta, doveva essere confiscata ed equamente distribuita: Una parte andava al cacciatore, l’altra rimaneva invece in possesso dell’amministrazione senatoriale. A beneficiarne, in questo caso, furono le famiglie in estrema povertà. Alla distribuzione contribuì la chiesa che conosceva benissimo lo stato di indigenza dei “Chistiani”. In poco tempo, pastori e commercianti si guardarono bene dal contravvenire alla disposizione. L’itinerario subì una drastica variazione. Le attività vennero tutte dirottate verso la campagna. Nelle strade ancora in gran parte a fondo naturale, restava solo lo sterco lasciato dai muli dei carrettieri e dai cavalli adibiti al pubblico trasporto. Alla pulizia del “fondo stradale” provvedevano i “Fumarara”, uomini dediti a raccogliere gli escrementi equini che poi rivendevano per fertilizzare gli orti esistenti in città. Questo mestiere scomparve con l’avvento dei mezzi motorizzati.

 

Pubblicato su La Sicilia del 5.09.2022

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