Storia e tradizioni popolari
Carretto e carrettieri
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- Created on Tuesday, 10 May 2022 08:40
- Published on Tuesday, 10 May 2022 08:40
- Written by Santo Privitera
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Si trovano nei bazar, in bella mostra nei bar e perfino in qualche salotto nobiliare; parliamo dei carrettini siciliani in miniatura. Assieme al ficodindia, al pupo e alla trinacria, è simbolo della sicilianità. Per i turisti che visitano l’Isola, è forse il souvenir più apprezzato. I carretti, quelli veri, possiamo invece ammirarli esposti in qualche museo o durante le sfilate che di si svolgono nelle stagioni più calde. Non c’è immagine pubblicitaria dell’Isola dove il carretto siciliano non compaia seguito dalla canzone “Ciuri ciuri”. La sua presenza non va considerata solo in chiave folcloristica, ma come pura espressione culturale. Infatti assomma a sé il carattere di tutto un popolo. Rappresenta al tempo stesso, gioia, accoglienza e operosità dei siciliani. A completare il “quadretto”vi sono i suonatori che con i loro tipici costumi, gli strumenti a corda, a fiato e a percussione, lasciano una scia di sano buon umore. Vista da vicino, la sfilata dei carretti siciliani è sempre spettacolare; un evento assolutamente da non perdere. Quello del carrettiere è un mestiere antico quanto il mondo. Un un mestiere duro, faticoso, paziente e silenzioso, che l’uomo condivideva solo con il suo animale da soma. Il carrettiere trasportava di tutto. Quando “scattiava ‘a zotta”(frusta), “ ‘a cravaccatura”( l’equino) capiva che doveva partire. Gli escrementi dell’animale venivano poi utilizzati negli orti come fertilizzante. Il cosiddetto “stallatico” è un ottimo concime ancora oggi in uso. Un tempo veniva raccolto per strada dal “fumararo” che lo ammonticchiava prima di rivenderlo. Romantico, scanzonato e un po’ poeta, questo era nell’immaginario collettivo il volto del carrettiere. Qualche volta sapeva anche essere violento. Verga, nella sua Cavalleria rusticana, lo raffigurò al naturale. I lunghi viaggi sotto le intemperie, lo costringevano a periodi di rassegnata solitudine. Così il canto e la poesia diventavano i migliori compagni di viaggio. Componeva versi senza saperlo. Nulla di scritto lasciarono i carrettieri, perché erano quasi tutti analfabeti. I pochi frammenti che si conservano, sono tutti per “sentito dire”. Nei primi del ‘Novecento, alla Barriera, un noto carrettiere meglio conosciuto con il nomignolo di “Munniali”, recitava strada facendo le sue “chilometriche” composizioni dai temi bizzarri. I ragazzi lo incitavano per ascoltarle dalla sua viva voce. “Zzu Pippinu,…chi ffá, puisii nenti oggi!?….. E lui: “Stu sciccareddu di lu sangu puru/forti mi fa parrari e sempri chiaru/di tutti li ‘mprisi so sugnu sicuru,/ pettu di ferru e carina d’azzaru”(…). Scrittori, poeti e musicisti rimasero affascinati dalla figura quasi mitologica del carrettiere. Da qui la nascita di tutta una vasta letteratura in parte sconosciuta. Lo zoccolare ritmico del cavallo, era “musicale”. “Ah Tira, mureddu miu, tira e camina/ eh, ca l’ura è tarda e a casa è luntana./Eh ccu lu sgrusciu di li roti e la catina/ ti cantu ‘na canzuna paisana”(…)(Tira mureddu miu). Sono i versi di un’antico brano appartenente al repertorio tradizionale siciliano. La prima descrizione del carretto siciliano risale al 1833, compare nel resoconto di un viaggio fatto in Sicilia dal francese J.B. Gonsalve de Nervo. A incuriosirlo, furono soprattuto i colori, le sponde istoriate e tutti quegli elementi decorativi che lo impreziosivano. Di solito le scene erano d’argomento religioso, leggendario oppure cavalleresco. La pittura del carro, assolve diverse funzioni: protettiva del legno, ma anche magico-religiosa per allontanare ogni possibile negatività. Il pittore Santantonese Domenico Di Mauro ( Minicu)scomparso nel 2016 alla veneranda età di 103 anni, fu uno dei più illustri artisti in questo campo. Per creare un’opera artigianale così complessa, occorre impegno e abilità. Tre sono le figure professionali che collaborano: Il carradore, colui che assembla le parti lignee; il fabbro( ‘u firraru) il quale realizza boccole e meccanismo per la funzionalità delle ruote. Per ultimo, l’intagliatore che oltre alla scultura cura le pitture. Prezioso è il carretto, ma anche la bardatura del cavallo. Finimenti e cinghie ornate di specchietti, sonagli, piastrine, fiocchetti multicolori, pennacchi, galloni, frange e cianciane. Oggi sono pochi i cultori del carretto siciliano, ma nelle zone dell’acese e nei paesini alle falde dell’Etna, la tradizione è ancora viva. Viene tramandata da padre in figlio. Proprio in questi giorni è in corso a Trecastagni la “Festa ‘de Tri Santi”( Alfio, Cirino e Filadelfo). Questo evento, oltre alla profonda devozione dei fedeli verso i tre santi martiri, offre uno spettacolo folkloristico di grande effetto.
Nella foto, il carretto siciliano,
Pubblicato su La Sicilia dell'8.05.'2022
ANTICHI TOPONIMI CATANESI
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- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Sunday, 01 May 2022 16:58
- Published on Sunday, 01 May 2022 16:58
- Written by Santo Privitera
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Un’altra città era la Catania di una volta. E non soltanto perché nei secoli si è estesa in tutte le direzioni, ma per la sua “duttilità” urbanistica. Dal Camastra al Vaccarini; Dall’Ittar al Gentile Cusa; dal Fichera al Lanzerotti, Catania potè vantare i migliori architetti presenti sulla piazza. Non è un caso se la città di Adelaide, in Australia, sia stata costruita ricalcando proprio il suo modello. “Melior de cinere surgo”(risorgo sempre migliore dalle mie ceneri) è un motto latino linguisticamente ormai comune ai catanesi. Perfino “abusato” se consideriamo che è stato riesumato con le ultime vicende legate al calcio Catania. Calamità naturali a parte, la mano dell’uomo, nel bene o nel male, ha avuto la sua dose di responsabilità. “Ma Catania era chista, na vota?” È la domanda ricorrente che ogni buon cittadino si pone allorquando scopre qualcosa di nuovo che prima non conosceva. Il raffronto tra le varie epoche emerge dalle curiosità toponomastiche. Impossibile citarle tutte ma ne ricordiamo appena qualcuna. Quasi tutto il Centro storico era un “Pianoro” che dalla “Platea magna” o “piano di Sant’Agata” attuale piazza Duomo, si estendeva, passando per il “piano degli Studi”, fino alla “Porta di Aci”. La strada di collegamento era la “via della Luminaria” poi “Stesicorea” prima di diventare “via Etnea”. “Dritta come un dardo da piazza Duomo al Tondo”- scriveva negli anni ‘30 lo sceneggiatore Leo Mezzadri-“lungo le pendici sale una delle più belle strade al mondo”. Rivangando tra le vecchie denominazioni scomparse delle strade cittadine, incontriamo “ ‘U chianu ‘I Sanfilippu( piazza Mazzini); ‘U chianu ‘i Nicosia( San Berillo); “ ‘U chianu ‘de minzogni”( piazza Palestro); “Piazza dei cereali”( San Francesco all’Immacolata); “Vico delle fosse”( v. Sant’Euplio); “ ‘U chianu ‘i malati” (piazza Bovio); “ ‘U chianu ‘i l’ovvi”(piazza Sciuti); “Via fossa dell’arancio”( via M.R.Imbriani); “Piazza del Campanaro( piazza San Placido); “Via degli Archi”( v.Antonino Longo); “Piazza dei Solichianeddi”(piazza San Francesco di Paola); “Chianu ‘i Novaluci”( piazza Teatro Massimo). Di quest’ultima contrada ricordiamo una famosa poesia dI Nino Martoglio scritta per una ragazza della quale si era invaghito. Di lei si conosce solo il cognome: Fragalà. “Sutta lu Ponti, attàgghiu Novaluci/a manu ‘ritta, quasi a’ cantunera…/ ci sta ‘na picciuttedda custurera,/ figghia di l’arma mia, chi cosa duci!(…)( ‘A custurera). Il ponte al quale il poeta Belpassese si riferiva, esisteva davvero. Visto il notevole dislivello, serviva per l’attraversamento tra piazza Teatro Massimo e v. Lincoln ( via Di Sangiuliano). Una città sempre viva che “ ammuttuni o ‘a ruzzuluni”, ha saputo cambiare pelle cercando di stare al passo con i tempi come meglio ha potuto. Oggi il completo recupero del monastero benedettino è un stupenda realtà. E la sua chiesa? Quella che una volta veniva considerata “la chiesa della caserma” oggi sta per diventare un luogo museale di tutto rispetto. Manca ancora un vero progetto in proposito, ma la via sembra ormai tracciata. Essa è tra le più grandi dell’Isola, testimone silente di un glorioso passato in chiaro-scuro. Lo stesso possiamo dire per l’ex convento di San Placido, ribattezzato “Palazzo della cultura” aperto a tutte quelle realtà che esaltano l’arte in tutte le sue forme. C’è tanto ancora da fare. Gli antichi palazzi restaurati che vengono restituiti al pubblico, rappresentano una grande conquista per una città che aspira a diventare una metropoli moderna. Giorni fa la notizia del finanziamento di un progetto che prevede il restauro dell’ex convento di Sant’Agata alla Badia, in via S.M.del Rosario. Un tempo, tutta quella zona, da est a ovest faceva parte del “piano dei Trixscini(Barbieri). Siamo nel cuore della città. Diventerà un Polo socio-turistico. Ci voleva. La struttura veniva da anni utilizzata impropriamente. Negli anni ’50 fu sede del Corriere di Sicilia prima che de La Sicilia e dell’Espresso Sera. In questo pionieristico giornale si sono formate le migliori eccellenze professionali dell’epoca. Particolari ricordi sono stati raccolti in un libro pubblicato agli inizi di questo secolo dal compianto giornalista e scrittore Aldo Motta. Già, via S.M. Del Rosario. Così in uno dei suoi numerosi articoli redatti dal nostro Enzo Trantino: “ Scrivendo senza pretese in aereo o in attesa di sentenze ho reso un servizio alla mia vita prima che al giornale: mi sono rivisitato incontrando uomini non fantasmi. Ed ho provato l’intensa emozione di sentirmi di nuovo abitante di quella leggendaria via della mia giovinezza”(..). (Quelli di v. S.M. del Rosario).
Nella foto, Vico delle Fosse( oggi v.Sant'Euplio)
Articolo pubblicato su la sicilia dell'1.05.2021
PORTE E BASTIONI DELL'ANTICA CATANIA
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- Created on Thursday, 28 April 2022 08:33
- Published on Thursday, 28 April 2022 08:33
- Written by Santo Privitera
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Il recente restauro effettuato nella facciata del monumentale palazzo Biscari alla marina, ha riportato alla luce particolari interessanti sulle antiche mura cinquecentesche che cinsero Catania. Si tratta solo di una breve porzione, ma quanto basta per mettere in risalto la loro solida e poderosa consistenza. L’attenta ripulitura effettuata, ha “svelato” i conci in pietra lavica squadrati di cui il manufatto difensivo è composto. Quasi tutto questo materiale, ci ricorda la storia, proviene dalla dismissione di antichi monumenti; soprattutto dei teatri Greco-Romani, fiore all’occhiello della città. Viste le frequenti invasioni via mare cui Catania era soggetta, nel periodo Medievale il tempo delle fortificazioni fu ritenuto maturo. Un suggestivo dipinto del pittore Lucio Cammarata, illustra una sanguinosa battaglia tra Saraceni e Normanni verificatasi anticamente nel “Piano di Sant’Agata”(Attuale piazza Duomo). L’opera, oggi di proprietà privata, è davvero ragguardevole: misura 3,5x1,75. Un documento iconografico prezioso in quanto sullo sfondo si intravede la “Ecclesia Munita”, Cattedrale-fortezza fatta costruire dai Normanni nel 1091. L’edificio ebbe la doppia funzione di luogo di culto cristiano e avamposto difensivo. Venne affidata al vescovo-guerriero bretone di nascita, il benedettino Ansgerio. Il gran Conte Ruggero I aveva da poco liberato l’Isola dal dominio musulmano, quando all’alba del 1095 alcune feluche saracene sbarcate alla rada dei sette canali, tentarono la riconquista della città. Lo scontro fu durissimo. Lasciò sul terreno centinaia di soldati. Alla fine gli invasori furono respinti è costretti a ritornare da dove erano venuti. Le cronache raccontano che il sangue versato sarebbe stato talmente copioso “Da tingere il fiume Amenano di un rosso vermiglio”. Era necessario dotare la città di sistemi di sicurezza tali da scongiurare altre possibili “sorprese”. La prima cinta muraria fu segnata da piccole torri a pianta quadrata. Racchiuse l’agglomerato urbano limitatamente alle case e ai monumenti sparsi in un raggio assai modesto. Col tempo, la crescita della città e le calamità naturali avrebbero imposto il rifacimento e l’ampliamento delle protezioni difensive. A questo pensò l’imperatore Carlo V, allorquando comandò al Vicerè Juan de Vega di procedere a una nuova fortificazione della città. Incaricato della progettazione fu l’ingegnere militare Antonio Ferramolino. I lavori iniziarono nel 1541. Vista la complessità dell’impresa, andarono parecchio a rilento. In corso d’opera, come testimoniano le piantine topografiche successive degli ingegneri Tiburzio Spannocchi e Antonio Locadello, il progetto originale venne ampliato e arricchito di nuovi sistemi difensivi. Le mura furono del tipo “ a scarpa”, concepite cioè con criteri militari di rafforzamento. La forma “trapezoidale” garantiva infatti il massimo della solidità. La cinta muraria era dotata di “Porte” e “Bastioni”. Le porte si “aprivano” nelle varie direzioni, seguendo le rotte commerciali. Originariamente erano sette quelle più importanti. “Porta di Carlo V”, “Saracena”, “Decima”, “di Ferro”, “di Aci”( o Stesicorea), “ Sant’Orsola”, “del Re”. La “Porta del Fortino”( o De Ligne, dal Vicerè che la inaugurò ) nacque successivamente sulle lave fumanti che nel 1669 invasero la parte Ovest della città. Nessuna ha resistito al tempo. Ad eccezione dei resti della “Porta Decima”, tutte le altre figurano solo sulle carte turistiche. Gli undici Bastioni ebbero finalità di avvistamento e difesa. I Bastioni di “Don Perrucchio”, “Porto Puntone”( Grande o del Salvatore), “San Giorgio” e “ S.Croce”, furono quelli prospicienti al mare. I Bastioni di “San Giuliano”,” San Michele”, del “Santo Carcere”, “San Giovanni”, “Sant’Euplio”, degli “Infetti” e del “Tindaro” erano anch’essi dislocati negli altri punti strategici. Del loro originario splendore, rimangono residue ma significative tracce sparse. Danneggiate terremoto del 1693, l’uomo poi ci mise del suo. Nella ricostruzione che seguì, vennero inglobati dai nuovi edifici pubblici e privati. Nel 1621, per facilitare il percorso della processione agatina, vi fu la necessità di riordinare la zona della marina. Don Francesco Lanario duca di Carpignano, vi fece costruire alla base delle banchine. Trovò la sua collocazione pure la fontana con il bassorilievo di Sant’Agata. Questo monumento ricorda il punto esatto da cui vennero imbarcate le sacre reliquie, dopo la sosta notturna nella scomparsa chiesa di San Giorgio, verso Costantinopoli.
Nella foto, Particolari della cinta muraria in via Dusmet.
Pubblicato su La sicilia del 24.04.2022
PASQUA 2022: I DOLI DO SIGNURI
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- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Friday, 22 April 2022 21:54
- Published on Friday, 22 April 2022 21:54
- Written by Redazionale
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In occasione del cammino verso la Santa Pasqua di quest’anno, è stato riproposto nella chiesa Sacro Cuore al Fortino, lo spettacolo musico-teatrale “I Doli do Signuri”. Protagonista, il gruppo de “I Colapisci” composto da Carmelo Filogamo, voce e basso; Silvio Carmeci, fisarmonica; Pippo Grillo, primo mandolino e chitarra; Santo Privitera, secondo mandolino e mandola. A seguito del triste scenario di guerra in terra ucraina, quest’anno l’evento è stato particolarmente sentito. I Momenti più drammatici proposti dallo spettacolo sul tema della sofferenza, ha reso assimilabile il Martirio del Figlio di Dio alla sofferenza patita dai popoli schiacciati dalle guerre. La chiesa del Sacro Cuore al Fortino, ubicata nel cuore del popoloso quartiere a sud-ovest di Catania, a pochi passi da Porta Garibaldi, è luogo altamente simbolico. In epoca risorgimentale”-spiega il parroco don Rosario Mazzolaro-“ la sottostante cripta è stata teatro di un cruento scontro tra l’esercito borbonico e le truppe garibaldine”. Fu versato tanto sangue. Il sacro luogo avrebbe poi tra l’altro ospitato le salme dei patrioti giustiziati nel 1937, prima cioè del loro definitivo trasferimento nel vicino cimitero monumentale di Catania. Fin qui la storia. Tornando invece alla manifestazione religiosa, “I Doli do Signuri” ripercorre, tra poesie, nenie, lamenti, antichi canti e brani del Vangelo, il doloroso calvario di Gesù Cristo in cammino verso il Golgota. Il Verbo diventa così l’unica fonte a cui attingere per comprendere appieno il vero significato del mistero pasquale. Questo è il messaggio che si è voluto veicolare. Quattro sono state le tappe scandite nella rappresentazione: Il dolore della Madonna, la Passione e morte di Gesù Cristo, la Pietà e la Resurrezione. Povera ma essenziale la scenografia. Attorno alla croce recante alla base il volto dolente del Cristo(carboncino su stoffa, opera della maestra d’arte Francesca Privitera), i musicisti hanno alternato alla musica, lunghi silenzi e momenti di preghiera. Intensa e commovente è stata infine l’esecuzione a due voci dell’Ave Maria di Bach-Gounod, eseguita al mandolino dal bravissimo Pippo Grillo accompagnato alla mandola da Santo Privitera e dalla chitarra di Carmelo Filogamo. Una novità introdotta quest’anno. “Cu du’ ligna ‘ncruciati, Diu savvò lu munnu”, è la riflessione finale. Caduto il velo listato a lutto, issato quello bianco della Resurrezione, ecco il gesto simbolico in segno di speranza.
Nella foto, il Gruppo de "I Colapisci"
PASQUA 2022
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- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Monday, 18 April 2022 09:46
- Published on Monday, 18 April 2022 09:46
- Written by Santo Privitera
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Rondini che svolazzano attorno a un mandorlo in fiore; sullo sfondo, una coppia di campane sembrano annunciare l’imminente arrivo della Pasqua. Nel sussidiario della scuola elementare di una volta, la primavera veniva illustrata così. Trovava posto pure una filastrocca, una poesia o uno scritto di famosi poeti e scrittori pedagogisti dell’epoca. Ada Negri, Vincenzo Caldarelli e Giovanni Rodari erano tra questi. I loro componimenti si imparavano a memoria. La recita doveva essere quanto più diretta ed espressiva possibile. La maestra(o il maestro) lo pretendeva. Ancora si ricordano. Oggi una “rondine non fa più primavera” e né le campane annunciano la Pasqua. Lontani sono quei tempi. La scuola è cambiata; non è più quella di prima. Il caro sussidiario, anche se in realtà non è mai andato in soffitta, quello “vecchia maniera” resta un reperto per pochi nostalgici. Nelle classi elementari si parla poco o niente di riti cattolici; questo argomento si continua ad evitare per “non offendere”- si dice- le altre religioni. A essere contestato è perfino l’esposizione del Crocifisso nelle aule. “Ma vi pari giustu!?…Viri a chi puntu semu arrivati…”sentenzia “ ’a ‘za Sara ‘a saristana. Fortunatamente, oltre le mura scolastiche, resistono ancora molte delle tradizioni legate al passato. Si continuano a praticare per devozione e costume. In Sicilia, quando si parla della Santa Pasqua, si fa riferimento ai suggestivi riti religiosi che la caratterizzano. La Settimana della Passione è sacra; è proprio il caso di dirlo. In alcune località dell’entroterra siciliano, gli antichi riti sono rimasti tali e quali quelli di una volta. Non hanno subito variazioni. Di generazione in generazione, anche i giovani vi partecipano con canti, nenie e preghiere. Salvo rare eccezioni, solo i riti di autoflagellazione sembrano non essere più praticabili. In alcuni capoluoghi di provincia, i riti della Settimana Santa sono parte integrante dei costumi locali. La popolazione ne resta coinvolta sia attivamente che emotivamente. Sono note in tutto il mondo le processioni penitenziali che si svolgono a Enna e Caltanissetta. A Trapani, è famosa la “processione dei misteri”; richiama ogni anno turisti da tutto il mondo. Superata la fase più acuta della pandemia, dopo due anni di forzata pausa, le timide aperture di questi giorni hanno fatto segnare la tanto auspicata ripresa. A Catania e in provincia, le “cantate poetiche”, vere e proprie preghiere, continuano ancora a fare rivivere il clima drammatico della settimana dedicata alla Passione e morte del Cristo. Alcune sacre rappresentazioni sono state effettuate quest’anno in in alcune chiese dei quartieri periferici. Al centro della rievocazione, è la nobile figura di Maria addolorata racchiusa nel suo mantello di dolore. Oggi ripensiamo a tutte quelle mamme che hanno perso i loro figli in circostanze drammatiche o nelle guerre sparse i tutto il mondo. “Maria e peri di la cruci stava,/ lu sangu di lu Figghiu stizziava/ e cu li carni d’idda si juncia/ si qualche vota l’occhi si isava/. Non c’è cunottu ca ci po’ bastari/ ‘nterra la morti torna ‘a scarpisari/ lu celu cupu pari lacrimiari/ supra sta matri ca sta cca ‘a prijari.( Da I Doli do Signuri). Fino agli inizi degli anni ’60 dello scorso secolo, per tutta la settimana in cui si commemorava la morte del Cristo, era bandita qualsiasi forma di frivolezza. Dopo la funzione del Giovedì Santo, veniva esposta la statua del Cristo Crocifisso. Le campane venivano legate perché non suonassero; I campanili, di conseguenza, rimanevano rigorosamente chiusi. Nelle abitazioni, tutti gli specchi dovevano essere coperti. Durante le funzioni liturgiche, il suono della campanella veniva sostituita dalle cosiddette “Troccole”, speciali strumenti in legno dal suono lugubre. Il Venerdì Santo, era assolutamente proibito mangiare qualsiasi tipo di carne, altrimenti sarebbe stato peccato mortale. Dopo la Santa messa e la Via Crucis, era buona norma(ma lo è ancora) baciare, nel Crocifisso, le piaghe del Cristo Morto. Molte di queste usanze furono poi abolite dal Concilio Vaticano secondo, celebrato a più riprese dal 1961 al 1965. A differenza di oggi, la resurrezione si celebrava a mezzogiorno e non a mezzanotte. Il motivo era semplice: Anche i bambini dovevano partecipare alla gioia. “Cuntenti comu ‘na Pasqua” si dice. Al momento dello scioglimento delle campane, tutti si fermavano. Chi si trovava in strada si inginocchiava; chi era a casa, correva a pregare davanti a una immagine sacra. La Pasqua era pure occasione di perdono e di vicendevole rappacificazione. Le pietanze della tradizione, preparate con cura nei giorni precedenti, servivano soddisfare il palato ma anche a riunire tutti i commensali davanti al desco imbandito per l’occasione. Anche oggi, malgrado tutto, è così. Buon appetito e …Auguri!
Pubblicato su La Sicilia del 17.04.2022