Storia e tradizioni popolari

STORIE DI CATANIA: "QUANDO L'ELEFANTE DI PIETRA STAVA PER ESSERE SPOSTATO"

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(…) ‘A l’Elefanti bestia,/ ca non si smovi mai,/ ci lassu pri mimoria,/ tutti li peni e guai!/Con questi versi, il poeta popolare Cicciu Buccheri Boley chiudeva uno dei suoi tanti componimenti dedicati all’Elefante di pietra lavica simbolo di Catania. La poesia “Lu novu tistamentu” risale al 1927; ne sarebbero seguite tante altre su questo tema. Lui, Boley, con ‘U Liotru “ci parrava”quotidianamente; probabilmente ancora oggi molti catanesi lo fanno in silenzio. Sono gli anziani che ricordano la propria giovinezza nella città che nel frattempo è cambiata molto; i disoccupati che fanno la spola tra la piazza e la ringhiera antistante la pescheria; i turisti che lo guardano con curiosità mentre si chiedono cos’abbia di particolare questo animale per rendere così fieri di lui i cittadini che rappresenta. “Marca Liotru” è ormai una definizione che tutto il mondo conosce. Etichetta indelebile indice di pura catanesità. Eppure il povero pachiderma, nell’arco della sua esistenza ne ha viste di cotte e di crude. A partire dalla leggenda di Eliodoro. Il mago dal quale deriverebbe per corruzione linguistica il nome di “Liotru”, lo avrebbe cavalcato in volo sottoponendolo alle fatiche più immani. Eppoi il terremoto. Lo ritrovarono con le zampe mozzate sotto le macerie. Durante la festa della matricola, i giovani universitari, attentando al suo pudore, si divertivano a pulirgli le parti basse. Dal suo stilobate (basamento) domina dall’alto, ma è proprio questo il motivo che lo rende bersaglio di tutte le proteste che periodicamente si svolgono in città. Meno male che è di pietra. Qualche anno fa, gli affissero il cartello “Si Vende”. Ci mancava pure questa. Una pubblicità apparsa su di un quotidiano, lo ritrasse nelle sembianze di un maiale. Ma si può essere così cinici!? “Su ‘u liotru putissi spustarisi di unni è misu”-afferma un attempato signore- “ ‘a corpa di fungia ‘ni facissi curriri a tutti!!!”. Andando a ritroso nel tempo, scopriamo altro. La raggiunta Unità d’Italia, per lui era cominciata male. Eppure, per sconfiggere gli odiati Borboni, i Patrioti avevano fatto affidamento alle sue conclamate virtù talismaniche. Le aspettative non andarono deluse; …ma quale fu il trattamento che gli venne riservato? Era il 1862 quando una violenta campagna di stampa venne sferrata contro di lui. Scrive il “Giornale di Catania” nel maggio di quell’anno: “Tutto sembra andare per il meglio, il piano del Duomo è in corso di abbellimento…e allora? Che si aspetta a togliere quel mostruoso elefante? Che si aspetta a piazzarlo fuori Porta Garibaldi, in modo che il Duomo, sgombro da ogni cosa, resti un vero salone da ballo? “… Ma come, spostare a piazza Palestro l’Elefante simbolo di Catania?… il primo monumento nato a suggello della rinascita catanese dopo il terribile terremoto del 1693? Quello che il popolo sotto sotto definiva una “follia”, venne presa invece in seria considerazione dall’Amministrazione cittadina a quel tempo governata dal sindaco Cav. Giacomo Gravina. L’architetto Vaccarini che nel 1737 lo aveva fatto erigere al centro della piazza, si sarebbe certo rivoltato nella tomba. In un primo momento le autorità sembravano averla vinta. Fecero tutto in fretta. Pochi giorni dopo avere deliberato la rimozione, cominciarono i lavori. Issato il ponte, l’Elefante venne saldamente imbracato per essere tirato giù. Lo strano silenzio che fino a quel momento aveva aleggiato attorno alla vicenda, venne squarciato dal Capitano delle guardie D.Bonaventura Gravina. Raccontano le cronache che l’intervento fu tempestivo. Il militare, sguainata la sciabola, fermò d’imperio l’operazione. “Ohhhhh…..fremmi!: unni jiti cco’ sceccu?!” sembrò gridare. Da lì a poco si radunò una folla minacciosa che cominciò a inveire contro il palazzo municipale. Con il passare dei minuti si faceva sempre più rumorosa e pressante. Un gruppo di cittadini chiese a gran voce di essere ricevuta dal sindaco. Questi non si fece pregare due volte. Constatata la grave situazione che si era venuta a creare, fu costretto a ritornare sui suoi passi. Con la stessa velocità con cui avevano approvato l’infausta delibera, i consiglieri procedettero al suo immediato annullamento. L’elefante fu salvo. Meno di vent’anni dopo però, si tornò alla carica. Questa volta la “minaccia” partì dal giovanissimo Federico De Roberto. Il futuro autore del romanzo “I Vicerè”,napoletano di nascita ma naturalizzato catanese, in una ironica corrispondenza datata 1881 scritta per il quotidiano italiano “Il Fanfulla”, propose di erigere la statua di Bellini al posto dell’Elefante. Manco a parlarne. Una iniziativa considerata provocatoria che non fu presa neanche in considerazione. Anni dopo, lo stesso scrittore ebbe a lodare questo monumento definendolo autentica espressione di tre civiltà: La Punica, rappresentata dall’elefante; l’Egizia, rappresentata dall’obelisco; il globo e la Palma, simbolo della cristianità.

 

Pubblicato su La Sicilia del 26.07.'21 

 

 

CATANIA: RITI DI SAN GIOVANNI

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La filosofia spicciola del popolo, nasce dall’esperienza più che dagli studi. L’empirismo è la sua Bibbia. Quanta verità! I progressi della scienza; secoli e secoli di emancipazione sociale non sono riusciti mai a smentire tutte quelle sentenze popolari che si sostanziano nei detti e proverbi. Volendo considerare le tante dominazioni che si sono avvicendate nel corso dei millenni, quelli siciliani assumono una valenza culturale ancora più ricca di significati. Gli studiosi di casa nostra: da Leonardo Vigo a Giuseppe Pitrè da Salvatore Salomone Marino a Serafino Amabile Guastella, per citarne solo alcuni, fecero davvero un buon lavoro. Utili e importanti le loro ricerche. Espressioni del tipo: “Mai diri di st’acqua non ni vivu”( mai dire mai) oppure “Semu tutti sutta stu celu”( viviamo tutti in questo mondo) sono principi sempre attuali; mai confutati. Chi lo doveva dire che nel Terzo Millennio si doveva ancora morire di pandemia? Debellati il colera, la peste e altre malattie che nei secoli scorsi erano risultati esiziali, ecco arrivare il terribile “Covid”. Verrà anch’esso sconfitto, ma è probabile che col tempo altri gravi virus entreranno in circolazione. Ed anche qui ci viene in soccorso il detto “Così nichi, problemi nichi; cosi rànni problemi rànni”. Come dire che con l’avanzare del progresso, benefici e problemi saranno proporzionali alla crescita. La scienza cammina a piccoli passi ma è inesorabile. Nel frattempo c’è chi ricorre alle alchimie e alle pratiche cabalistiche che spesso si rivelano infallibili. Ma allora è vero o non è vero che in taluni periodi dell’anno, la gente ricorre ai riti piuttosto che alla scienza? La risposta è quasi sempre la stessa: “Sa chi mi ponnu diri;…non sarà veru ma ci criju!”. Ci vuole fede anche per queste cose. Ci stiamo avvicinando alla notte di San Giovanni e, come sappiamo, questo è un evento dove la religione si incrocia con strane credenze magiche e riti propiziatori dal sapore pagano. Essa coincide con il solstizio d’estate che astronomicamente cade in realtà il 21 giugno. La giornata più lunga dell’anno, ma anche quella che dà l’avvio alla fase discendente. “Doppu San giuvanni, ‘i jùrnati accuzzunu”. Qui c’è, però, una spiegazione scientifica. In epoca precristiana, il giorno del solstizio era considerato sacro al pari del capodanno e perciò si usava trarre presagi. “Paese che vai, usanze che trovi”; pur nella diversificazione dei riti, il significato è lo stesso. La notte di San Giovanni, anche se molto è cambiato ai giorni nostri, conserva il fascino misterico di sempre. Anticamente era conosciuta come la “notte delle streghe”. Una credenza arcaica, in questa fase solstiziale dell’anno, racconta che le streghe usavano darsi convegno nella notte tra il 23 e 24 giugno attorno ad un antichissimo albero di noci. Da qui deriverebbero i presunti effetti terapeutici attribuiti a questo frutto. Ma c’è di più. Durante questa “notte magica”, per guarire i bimbi tormentati da “I trizzi ‘i rònna”,alle donne anziane era affidato il compito di recitare significativi passi del Vangelo di San Giovanni. Non si trattava di guarire una malattia, ma di invocare lo scioglimento “naturale” dei capelli che spiriti burloni, secondo una antica convinzione, si divertivano ad annodare nella testa dei bambini. Guai a toccarli o, peggio, tagliarli. Tra le usanze più comuni, vi sono ancora oggi i falò accesi in prossimità dei campi. Fiamme e fumo allontanerebbero per tutto l’anno ogni negatività, propiziando abbondanza del raccolto. La rugiada della notte, direttamente attinta dalle piante, possiederebbe poteri terapeutici per le pelle. Le donne effettuavano abbondanti di abluzioni in tutto il corpo. Così le erbe raccolte durante la notte; le erbe cosiddette di San Giovanni. L’Iperico, l’Artemisia, la Verbena, Ruta, Mentuccia e Rosmarino sono tra queste. San Giovanni, secondo un’altra tradizione popolare, usava favorire i fidanzamenti. Le ragazze nubili traevano “informazioni” sul futuro marito, dalla forma assunta dal piombo fuso versato in una bacinella o in un fiore bruciacchiato lasciato sul davanzale. Era di buon auspicio se quest’ultimo fosse rimasto ancora vegeto alle prime luci del giorno. A Catania è nota l’usanza di allacciare “ ‘u Sangiuvanni”, ovvero il comparato; il patto d’affetto, cioè, tra soggetti legati da amicizia stretta. Un tempo veniva suggellato dallo scambio di vasi di basilico( i rasti ) adornati da un nastrino rosso. La formula è: “Cumpari semu, cumpari arristamu; quannu veni la morti ni spartemu”. A volte “ I cumpari arrisùttunu megghiu de’ parenti”, anche se non sempre è così. Al pari del più famoso Padre nostro di San Giuliano, quello di San Giovanni è ugualmente efficace. “San Giuvanni decullatu,/ tri brizzi e tri ‘nnigati/ tutti novi v’àti uniri,/ e tantu lu prijati e lu strinciti/ ch’a mia di sti peni mi Livati./ Porta battiri/ campana sunari/ friscu friscari,/ cani baiari./ Tandu mi partu di Vui, Signuri/ quandu sentu battituri./ Seguitano preghiere. Si recita la notte, in luoghi solitari per così conoscere, ascoltando i rumori d’ambiente, qualcosa che si desidera.

 

Nella foto, il Simulacro seicentesco di San Giovanni.

Pubblicato su La Sicilia del 20.06.2021

CATANIA: C'ERA UNA VOLTA LA TORRE ALESSI

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“C’era una volta a Catania”, sembra l’incipit di una fiaba; invece è il racconto del sacco edilizio che flagellò la città nel decennio 1955-65. Niente lieto fine, però. La mano dell’uomo, stavolta potè più della natura. Soprattutto nel Centro storico si appuntò il cambiamento. Chi pensò di dare un volto più moderno alla città, rimase profondamente deluso. Buona l’intenzione, ma niente di più. Il nuovo assetto urbanistico che doveva portare Catania a competere con le grandi città, non essendosi pienamente compiuto, lasciò nel territorio profonde ferite non ancora sanate. “Le cose fatte a metà, puzzano”, questa è comune convinzione. Lo sventramento del Vecchio San Berillo è cosa assai nota; un triste simbolo, tanto per rimanere in tema. Se poi ci spostiamo nelle periferie, scopriamo che le cose non sono andate meglio. Catania “Milano del sud” durò solo lo spazio del “boom edilizio”. Quella “esplosione” devastò pezzi importanti del territorio. Si costruì sfruttando anche il minimo spazio, ma soprattutto si cancellò indiscriminatamente senza una effettiva selezione. Fu così che insieme alle casupole fatiscenti, caddero edifici di grande pregio artistico e monumenti storici di rilievo. I cittadini si domandano quanto preziosi sarebbero stati questi edifici, in termini di decoro urbano, se fossero stati ancora in piedi. Avrebbero potuto essere il fiore all’occhiello di una città ricca di storia qual è la nostra. La Villa D’Ayala, al corso Italia; la Villa Carcaci, a piazza Santa Maria di Gesù; La Torre Alessi, alle spalle della Villa Bellini. Pochi ma significativi esempi. Ma ci pensate la Torre Alessi ancora in piedi? Poteva essere uno dei simboli catanesi da esibire ai turisti. Addirittura la “Torre di Catania”. Sotto accusa, oltre ai costruttori dediti al massimo profitto, i proprietari; molti dei quali, nobili caduti in disgrazia, svendettero anche a prezzi di saldo. Ma siccome al peggio non c’è fine, una grande responsabilità l’ebbe pure la sovrintendenza ai monumenti. La demolizione di questo singolare edificio in stile moresco, opera dell’architetto Carlo Sada, fu tutta della sovrintendenza ai monumenti che dette parere favorevole all’abbattimento. La richiesta partì dell’ufficio tecnico. Lo stato di abbandono in cui versava, non poteva essere una valida giustificazione. Né che non ci fosse un vincolo; poteva essere fatto d’ufficio. Si trattava di una Torre-vasca che sul finire dell’800, il cav. Salvatore Alessi aveva fatto costruire per irrigare i vasti giardini sottostanti di sua proprietà. C’era perfino scritto in bella evidenza in una delle facciate. Svettava tra una fitta vegetazione. Nei pressi, la pittoresca via degli Archi (odierna v. Antonino Longo), costeggiata dalla massiccia “innervatura” dell’acquedotto benedettino della Licatia. Il nobiluomo volle unire l’utile al dilettevole, per questo non badò a spese. Affidò il progetto all’architetto più noto del momento, perché di quell’impianto di riserva d’acqua ne facesse un’opera d’arte. Il marchingegno funzionò benissimo.Nei piani soprastanti vennero rispettivamente realizzati un salotto e una piccionaia con 51 nicchie. La terrazza, sormontata da una cupola in ferro ricoperta di rame, dall’alto dei suoi oltre 36 metri di altezza dominava la città. Da quel belvedere, Catania era visibile da tutti i punti cardinali. I visitatori pagavano un biglietto per assistere allo “spettacolo”. Era acquistabile presso un noto negozio di fiori ubicato a piazza Università. Molti i particolari architettonici che caratterizzavano l’edificio: Le scale a spirale di 196 gradini adornate da apposite ringhiere stilizzate; i finestroni dalla strana forma “ a goccia”; balconcini, fregi e lastroni adornavano una facciata color cobalto. La maestosità di questa torre che ispirò al celebre scrittore catanese Vitaliano Brancati il romanzo “Gli anni perduti”, non sfuggì ai fotografi dell’epoca che la ritrassero da tutte le posizioni possibili. Non sfuggirono neanche alcune curiosità legate alla passione del proprietario per il gioco degli scacchi. “Si racconta- afferma lo studioso scacchista catanese Santo Daniele Spina-che il proprietario giocasse a scacchi per corrispondenza contro un avversario residente nella Ducea di Nelson. Per la trasmissione delle mosse, i due giocatori si avvalevano di piccioni viaggiatori allocati su un piano della Torre”. L’opera di abbattimento avrebbe avuto inizio nel 1963. Della Torre Alessi, oltre alle numerose testimonianze storiche e iconografiche, resta il toponimo tra le vie Salvatore Paola e Federico Ciccaglione, nel cuore del popoloso quartiere del Borgo.

 

Nella foto, La Torre Alessi.

Pubblicato su La Sicilia del 4.07.2021

 

MONUMENTI CATANESI "ITINERANTI"

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Giova ricordare la nota canzone “Fatti più in là” per narrare vicende riguardati chiese e monumenti per così dire…”Itineranti”. Al netto delle calamità pubbliche dovute ai terremoti, alle colate laviche e quant’altro, la mano dell’uomo ha avuto un ruolo rilevante. Chiese, palazzi, edicole e statue comprese, subirono indistintamente lo stesso trattamento. Per fare posto alle opere di pubblica utilità non previste prima: o vennero definitivamente cancellate oppure spostate altrove. A questo, aggiungiamo i pregiudizi. Catania, come tutte le città in via di espansione, nei secoli è stata dotata di piani regolatori che però non vennero pienamente attuati né rispettati. Da qui il problema. Quando i nodi venivano al pettine, si correva ai ripari e… “ Amara a cu ci ‘ncagghiava!” Il ventaglio delle soluzioni si apriva, soffiando nelle più disparate direzioni. Le chiese esistenti nelle aree marinare, furono quelle che in passato subirono di più. E’ il caso della modesta chiesetta di Sant’Euplio, a Ognina, abbattuta per fare posto al cavalcavia del lungomare. Quest’opera risalente ai primi anni ’60 dello scorso secolo, ha avuto un impatto ambientale devastante. Al Santo Diacono sarebbe stato intitolata anni dopo, una nuova parrocchia nella zona opposta a quella di prima. La stessa sorte toccò alla chiesa del “Salvatorello”. Fonti iconografiche la mostrano misteriosa e austera su un promontorio a picco sul mare. Il Verga vi ambientò perfino una novella: “La festa dei morti”. In epoca post-risorgimentale venne demolita per la costruzione del porto e della ferrovia. Di essa non rimase nulla; solo una cappelletta edificata simbolicamente anni dopo. Si trova in via Dusmet, confusa tra gli esercizi commerciali della zona portuale. Secondo la tradizione, ospiterebbe il cinquecentesco busto ligneo del Redentore. Per fare posto al parterre della stazione( ‘u passiaturi), invece, venne demolita la prima chiesa do “Signuri Asciatu”( Il Signore ritrovato) risalente alla fine del ‘700. Edificata sulle sciare dell’Armisi, nel luogo del ritrovamento del prezioso S.S. Sacramento trafugato giorni prima dalla chiesa San Francesco da Borgia, questo luogo di culto venne riedificato circa 200 metri più a nord: sulla via VI Aprile dove ancora oggi si trova. “I cosi jànu ‘i peri”, sostennero molti catanesi; e non hanno tutti i torti. Quando per fare posto alla statua di Garibaldi venne abbattuta la famosa artistica “Edicola Pettinato” tra le vie Etnea e Caronda, vi fu una mezza rivoluzione a Catania. Quella, oltre a essere una edicola molto fornita, era un luogo di ritrovo popolarissimo. Frequentata da nobili e popolani, senza distinzione alcuna. Come contropartita, al proprietario venne offerta una bottega in Via Umberto, più un congruo gruzzoletto di denaro. E un un poeta dialettale catanese sentenziò: “(…)Ci dìssiru: te cca’, mi s’arrizzetta;…e ci muddànu ‘mmanu ‘na mazzetta”. Ma non fu più la stessa cosa. Chiuse i battenti in pochissimo tempo. Tutta colpa di quella “maledetta” statua: “Giustu, giustu cca jivu a cascari??!!” La rabbia fu totale; influirono pure motivi politici. Il monumento stette “sullo stomaco” alla stragrande maggioranza dei cittadini. “Troppo grande e grosso”, si disse. Massiccio il basamento, ingombrante la scultura. La ribattezzarono “ ‘a statula panzuta”. La città di Motevideo che l’aveva commissionata, la respinse per scarso gradimento. Lo scultore Ettore Ferrari( Roma 1845-1931) ci rimase male. L’allora sindaco Giuseppe Pizzarelli, suo amico personale e fratello Massone, volle economicamente sostenerlo acquistando l’opera. Il costo non si seppe mai. Dopo essere stata custodita per anni dentro un deposito comunale, qualcuno pensò di sgomberare la statua anche da lì. Si studiò dove collocarla. Alla fine la scelta ricadde su piazza Cutelli. Non fu una felice idea. Per situarla in questo luogo, bisognava prima abbattere l’artistica colonna dorica preesistente. I civitoti erano molto affezionati a questo monumento. Appena cominciati i lavori di rimozione, un agguerrito gruppo di facinorosi li bloccò. La vicenda della Dea Pallade, fu un caso a parte. “ ‘A Tapallira”, così venne dispregiativamente denominata dai catanesi quest’opera dello scultore palermitano Giuseppe Orlando. Originariamente si trovava a piazza Università. Le critiche cominciarono sin da subito. Non piacque soprattutto alle donne. Questa “Dea” sembrava “ancheggiare” troppo. Le sue movenze giudicate provocatorie, vennero considerate indecenti. Eppoi… a due passi dal Duomo, la casa di Sant’agata…”Ma unni semu arrivati!” Appena il Clero fece la sentire la propria voce, quella scultura da lì venne fatta sloggiare. Doveva andare via il più lontano possibile. Al Borgo, dove venne ricollocata, assunse il toponimo popolare di “ Tapallira do’ Buggu”. Oggi a essere considerata “itinerante” è la scultura “ Il Cavallo morente” del maestro Francesco Messina. E’ stata già spostata diverse volte. Ma questa è un’altra storia.

 Nella foto, la statua di Garibaldi

Pubblicato su La Sicilia del 30.05.2021

CATANIA: PORTA GARIBALDI( L'ARCU 'O FUTTINU)

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Per le guide turistiche è “Porta Garibaldi”, per i catanesi che si definiscono “Marca Liotru”, è “L’arcu ‘o futtinu”. E’ un “Arco trionfale” una porta di Bellezza, non un fortino. Il vero “fortino” quello ancora esistente più a sud, in via Sacchero, è ben altro. E’ una porta appartenente alla cinta muraria cinquecentesca, danneggiata dall’eruzione del 1669 e prontamente fatta ricostruire sulle lave ancora fumanti. Con la sua imponente struttura zebrata, modellata a “conci squadrati” ricavati dalla pietra dell’Etna e dal bianco della pietra di Lentini, Porta Garibaldi non passa affatto inosservata. Definirlo uno dei simboli più importanti e conosciuti della città, è ancora troppo poco. Nobile, popolare, capolavoro Barocco dai tratti un po' misterici. Reca in sé alcuni importanti e significativi segni della catanesità, a partire dal celebre motto voluto dal principe Ignazio V principe di Biscari e dettato dal pari titolo Rosso di Cerami “Melior de cinere surgo” (Risorgo sempre più viva dalle mie ceneri). Non a caso, al centro, nella parte più alta dell’arcata, svetta una enorme scultura che raffigura la Fenice, simbolo di continuità e rinascita. Perfettamente in asse col Duomo, chiude come una quinta scenografica la via Garibaldi. L’occhio che corre lungo l’asse stradale lievemente in salita; in un bizzarro gioco prospettico, fa apparire molto rimpicciolito questo monumento. Il capolavoro architettonico realizzato ”in famiglia” su progetto dall’architetto Stefano Ittar in collaborazione col suocero ing. Francesco Battaglia, proprio in questi giorni ha compiuto 253 anni. Emulando gli antichi romani che usavano elevare Archi trionfali durante importanti avvenimenti, i catanesi ne vollero costruire uno dedicandolo a Ferdinando I re delle due Sicilie, convolato a nozze con la principessa Maria Carolina d’Austria. Era il 13 maggio del 1768. Una incisione dello Zacco del 1780 riproduce il lato esterno della porta, affiancato da due torrioni tronco-conici, demoliti nell’800. l maestoso “Arco trionfale” mantenne il toponimo “Porta Ferdinandea” in onore del sovrano, fino al 1860; poi allo scoppio della rivolta contro i Borboni, quella dedica fu cancellata. Diventò Porta Garibaldi nel 1862, allorquando l’eroe dei due mondi entrò in città al grido di “Roma o Morte”. Abbattute le insegne borboniche; sostituiti con un grande orologio i ritratti ovali dei reali, il monumento cambiò status: da simbolo nobiliare diventò simbolo del popolo. Ad esso vennero addossate delle costruzioni e, al centro della piazza, un enorme abbeveratoio servì per preparare gli equini al tortuoso viaggio verso occidente. Solo col restauro del 1931 tornò a essere austero e solitario come prima. La totale riqualificazione dell’intera area gli ha ridato vigore, facendolo rinascere a nuova e più moderna veste. A prescindere dalla fausta occasione nuziale, la sua costruzione fu un abile pretesto per riordinare una parte nodale della città. Ottenne il duplice scopo di ingraziarsi il sovrano e allo stesso tempo di riordinare l’intera area. Era necessario infatti garantire l’uscita e i collegamenti verso la Piana e la congiunzione della strada per Palermo. L’arco, voleva indicare il “Limes”, la linea di confine naturale del Centro etneo, essendo posto a cerniera di un sistema binario di piazze. La prima( Crocifisso-Maiorana) rivolta verso l’abitato; la seconda( Palestro) aperta sulla campagna; luogo di botteghe, magazzini e fondaci. Non solo. Essendo in prossimità del cimitero, proprio “sutta l’Arcu do furtinu” si scioglievano tutti cortei funebri. Le commemorazioni del defunto di turno, spesso ridondanti nei toni, gli costò all’intera area il toponimo di “Chianu ‘da minzogna”. Più tardi, il grande Angelo Musco rincarò la dose: “Macari ca campò di mala nomina, doppu ca è mortu è sempri la bon’anima!” Fare transitare il feretro sotto l’arco, era come attribuirgli l’ultimo saluto nel modo più nobile e solenne possibile. Atto che in epoche passate, solo ai grandi sovrani e condottieri veniva riservato. “Passànnu sutta l’arcu d’u Furtinu/ ti trovi di Palestru ‘nta lu Chianu,/ e senza fari cchiù tanti vaneddi/ arrivi rittu rittu e tri canceddi.” Questi versi li scrisse agli inizi del ‘900 un poeta illetterato; uno dei tanti figli di questo quartiere destinato a dare i natali a noti personaggi di spicco nel mondo della letteratura, dell’arte e dello spettacolo.

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