Storia e tradizioni popolari

IL COMM. FRANCESCO SPINA CHE SALVO' DUE VOLTE IL PALAZZO DELLE POSTE DI CATANIA

Share

                                                                 

Durante l’ultimo conflitto mondiale, Catania fu tra le città più bombardate d’Italia. Considerata la sua posizione strategica, gli alleati anglo-americani dovettero farsi largo dal cielo e dal mare per avere ragione dei nemici e liberare la città. Le loro ingenti truppe appoggiate dai potenti mezzi bellici di cui disponevano, si lanciarono in sanguinose battaglie che ebbero come epicentro la piana di Catania ed i paesi limitrofi. Su tutto il suo territorio, piovvero bombe a grappoli dalle fortezze volanti americane ma anche dalle navi dislocate al largo della costa. “ ‘I bummi ‘i mari” come venivano chiamate nel linguaggio comune le bordate sparate dalle imbarcazioni militari, furono particolarmente temute. A differenza delle bombe aeree, infatti, le “sirene” poste negli edifici più alti, scattavano quando i primi bersagli erano già stati raggiunti. I grossi proiettili, quando si impennavano, colpivano obiettivi civili imprevisti. Frequenti furono le stragi che causarono. In alcuni quartieri del Centro storico, ancora sono visibili le ferite inferte dalla guerra nel tessuto urbano. Durante le operazioni belliche a Catania e provincia, le vittime si contarono a migliaia. Per non parlare dei feriti, la maggior parte dei quali riportarono danni fisici permanenti. Molti nuclei familiari furono costretti a sfollare nelle località più disparate del capoluogo etneo, e quelle rimaste in città trovavano rifugio in massa nei cosiddetti “ricoveri”(cavità naturali o grotte di scorrimento lavico) che si rivelarono provvidenziali. “ ‘U sicilianu avi cori e sapi pavari” questa scritta campeggiò per lungo tempo sui muri di molte città e paesi della Sicilia. Le ostilità a Catania ebbero inizio sin dal luglio del 1940. Con l’intensificarsi della guerra, tra il 1941 e 42 si registrarono altri cruenti bombardamenti. Quelli più violenti, invece, precedettero la liberazione avvenuta il 5 agosto del 1943. La distruzione subita dalla città fu subito accostata a quelle causate dalla natura, terremoti compresi. Caddero chiese, monumenti, palazzi di pregio artistico. Il Teatro Coppola, alla Civita, centrato da una bomba, è stato distrutto e mai più ricostruito. Soprattutto caddero le case della povera gente. Molti rimasero sotto le macerie perché non intendevano lasciarle balìa degli sciacalli. Mentre da Napoli all’estremo Nord i partigiani lottavano per liberare il Paese dai nazi-fascisti, nella Sicilia già liberata andò diversamente. Il governo militare provvisorio instaurato dagli anglo-americani, ’A.M.G.O.T.( Alied Military Governiment of Occupied Territories), si trovò a fronteggiare il fenomeno degli “sbandati”. Era costituito da renitenti alla leva, disertori, anarchici e agitatori sociali di tutte le estrazioni sociali. I Movimenti separatisti allora molto agguerriti, con il loro braccio armato l’EVIS, dal canto suo ebbe un ruolo centrale nella contesa. Catania pianse i suoi morti, in particolare la piccola Eugenia Corsaro. La giovanissima, appena dodicenne, venne giustiziata dai Nazisti perché sorpresa a tranciare i fili della corrente elettrica all’aeroporto di Gerbini( Enna) dal quale si innalzavano i temibili aerei della Luftwaffe tedesca. Altro merito ebbero le gesta dell’allora direttore Provinciale delle Poste, il dott. Francesco Spina. L’alto dirigente, di famiglia nobile, nipote del chirurgo Francesco Condorelli noto per le coraggiose imprese rivoluzionarie compiute durante i moti anti-borbonici del 1860, salvò in due occasioni il palazzo delle poste, pregiata opera dell’architetto Francesco Fichera( Catania, 1881-1950). Una prima volta, barricandosi nei propri uffici, impedì ai tedeschi in ritirata, di fare esplodere l’edificio già minato. Con questo clamoroso gesto, i militari nazisti avrebbero ritardato l’avanzata verso nord delle truppe nemiche. Il 14 dicembre del 1944, altro valoroso episodio. I rivoltosi, dopo avere dato fuoco al municipio, si diressero verso il palazzo delle poste; avrebbero voluto dargli fuoco con l’intento di distruggere i precetti militari per il richiamo alle armi. Francesco Spina, sfidando le ire dei facinorosi, si precipitò in strada nel tentativo di dissuaderli. Ci riuscì dando loro una falsa comunicazione: “E’ inutile che incendiate l’edificio”- disse-“ tanto le corrispondenze sono ormai tutte in distribuzione…” Il gruppo si disperse alla ricerca dei postini che, fortunatamente, in quel momento erano tutti in concedo temporaneo. Nel 2004 a Francesco Spina è stata intitolata una piazzetta del quartiere Barriera-Canalicchio, del quale fu delegato sindaco fino al 1958 anno della sua scomparsa.

 

Nella foto, il ritratto del Comm. Francesco Spina

Pubblicato su La Sicilia del 25.04.'21

VILLA BELLINI,IL GIARDINO DEI NOSTRI RICORDI

Share

 

La Villa Bellini è tra i parchi urbani più conosciuti al mondo. Non c’è stato un solo turista che non l’abbia immortalata in una foto o in un pensiero appuntato nel proprio diario di viaggio. Per noi catanesi è il giardino della nostra infanzia. La foto in maschera o con il Sacco devozionale agatino insieme alla famiglia, era un rito irrinunciabile. Ora ce la ritroviamo un pò ingiallita, ma ben viva nella memoria. Sappiamo dal calendario sullo sfondo, il giorno e l’ora esatta. Il fotografo era sempre lì, pronto con la sua macchina professionale per uno o più “scatti”in bianco/nero. Dipendeva da quanto volevi spendere. Si pagava anticipatamente e la foto potevi ritirarla dopo qualche giorno presso lo studio fotografico. A volte te la facevano recapitare a domicilio. Al centro del giardino, lo “sghiccio” alto due metri e i cigni, quelli veri, facevano bella presenza. Quanta emozione quando riuscivi ad avvicinarne uno. Il primo parco cittadino realizzato a Catania, fu quello di Villa Pacini ( ‘A Villa varagghi). Nacque subito dopo gli eventi post-risorgimentali, sulle acque dell’antico porto Saraceno dalla caratteristica banchina d’attracco a “Spina di pesce”. A quel tempo Catania era in piena espansione, non poteva accontentarsi di una modesta villetta troppo piccola anche se parecchio suggestiva. L’obiettivo dell’amministrazione catanese restava quello di dotarsi di un polmone di verde molto più esteso e rappresentativo. La disponibilità da parte della famiglia Biscari a vendere il “Laberinto”, fu l’occasione giusta. L’amena collinetta conosciuta con questo nome, fu luogo particolarmente caro al grande mecenate Ignazio Paternò-Castello V principe di Biscari( 1719-1786). Lì il principe-archeologo aveva fatto scavare delle grotte e costruire dei vialetti “labirintici” a corredo della propria dimora. Il Comune di Catania l’acquistò nel 1853. I lavori procedettero a più riprese. Accorpati gli attigui “Orti di San Salvatore” dopo una lunga battaglia legale sostenuta contro i proprietari, l’architetto Filadelfo Fichera( 1850-1909) potè redigere, completandolo, il progetto finale. L’inaugurazione avvenne nel gennaio del 1883. La ricca flora impiantata, fu per quei tempi una vera rarità botanica. Il Comune non badò a spese, incaricando perfino professionisti dall’estero. Ne vari viali costruiti al suo interno sul modello del vecchio “Laberinto”, vennero creati spazi ludici, piazzali per raduni e mezzi di trasporto, ma anche culturali. I migliori scultori dell’epoca, modellarono busti marmorei a ricordo dei grandi personaggi catanesi. Un ampio spazio venne riservato allo zoo. Nella palazzina costruita sul modello cinese venne allocata una grande biblioteca. Col tempo, altri restauri vennero effettuati. Quello degli anni ’30 dello scorso secolo fu molto consistente. Si lavorò alla realizzazione di nuovi varchi, procedendo a un ulteriore livellamento destinato a cambiare l’ingresso prospiciente Via Etnea. Venne realizzato il cavalcavia su via S. Euplio. L’ultimo restauro risale a poco più di un decennio fa. Villa Bellini è una corda sensibile dell’anima; dal “passeggino” al “bastone di sostegno”, ha scandito il tempo della nostra vita. Un luogo romantico dove le coordinate spazio-temporali si annullano. “ ‘Unni su cchiù ‘i tempi di ‘na vota?...‘ A villa su!!!”. Dicono così i catanesi quando vedono i muri imbrattati dagli idioti di turno, oppure i monumenti vandalizzati da individui senza scrupoli che scorrazzano indisturbati e quasi sempre impuniti. “Tutti i strati pottunu ‘a Villa” dicevano gli antichi catanesi. È vero. “ ‘A Villa” come luogo d’appuntamento, di intrattenimento mondano; “ ‘A Villa” come punto di riferimento per chi dal “Centro” deve spostarsi nei dintorni; “ ‘A Villa” quando da pensionati si va a incontrare…i “colleghi” per una sana chiacchierata. Scriveva in un sonetto il poeta Ciccio Spampinato(1899-1975): (…) “Villa Bellini, a tanti e a tanti genti,/ ccu l’aria pura, fina e profumata,/ cci duna vita, paci e gudimenti./( Villa Bellini). I più nostalgici non perdono occasione per ricordare aneddoti e figure; Quelli appresi tramite i ricordi dei propri genitori, oppure vissuti in prima persona. Come non ricordare l’elefante “Menelik”, regalo del Negus in persona fatto al Regno d’Italia dopo il trattato di Uccialli. Venne donato successivamente alla “Città di Catania” in omaggio al suo Simbolo. E in epoca più recente, nel 1965, il pachiderma “Tony”, gradito dono del circo Togni. Entrambi ebbero poca vita, forse perché non riuscirono ad ambientarsi. Il Pellicano e le scimmie con i quali intere generazioni di bambini giocarono. “ Papà pottimi ‘nti Ginu!”. Questo era il nome della simpatica scimmietta nota per la sua bruttezza. “Pari Ginu, ‘a scimia d’a’ villa” è ancora oggi considerata una ingiuria. A differenza, invece, di “Billonia” da villa. Questa splendida fanciulla venditrice di fiori, nel primo novecento stazionava all’interno del giardino. Vestiva in modo sgargiante, facendo innamorare i giovani del suo tempo. Sparì improvvisamente poco prima dell’inizio del primo conflitto mondiale. Di lei si parla quasi fosse una leggenda.

 

Nella Foto, Il piccolo Nunzio Barbagallo posa per il fotografo alla Villa Bellini.

 

Pubblicato su La Sicilia del 18.04.2021

CATANIA: "LE VOCI DELLA STRADA" NEI QUARTIERI PERIFERICI DI UNA VOLTA

Share

 

“Le voci della strada” come si udivano una volta, oggi è impossibile anche immaginarlo. Troppi i rumori di fondo che ci circondano. Clacson, sirene dei mezzi di soccorso, il rombo dei motori, l’allarme anti-furto che scatta a corrente alternata; c’è di tutto e di più. Questa, ormai, è la normale quotidianità. Qualche attempato catanese, ricorda ancora “scampoli” di antichità vissuta nel proprio circondario; mentre i giovani, per ovvie ragioni anagrafiche, per farsene una precisa idea devono recarsi “ ‘a Fera ‘o luni”(piazza Carlo Alberto), alla pescheria o nei mercatini pianta e spianta che si svolgono settimanalmente nei quartieri periferici. Retaggi di un tempo trascorso, ma anche il nobile perpetuarsi ereditario dell’ambulandato, mestiere che ai nostri tempi viene percepito come sinonimo di abusivismo di strada. Una volta circolavano solo carretti e carrozze; si sentiva lo zoccolìo dei cavalli e lo schioccare della frusta. Oltre al parlottare solitario del carrettiere reduce da un lungo stancante tragitto, c’erano gli sbuffi della povera bestia sfiancata dalla fatica. Il fischio potente delle navi all’attracco, quello sì che si sentiva da lunga distanza. “Vadda, stà partennu ‘u papuri” era commento molto diffuso. Poi c’erano quelle che oggi chiamiamo “voci”. Meglio chiamarle “vanniate”, però. Deriva dal verbo Banniare, cioè reclamizzare ad alta voce. Gli “Strilloni”, per vendere il giornale enfatizzavano le notizie; gli ambulanti facevano lo stesso per vendere la propria mercanzia. Si andava per strada a piedi o col carrettino, vendendo ogni genere di merce. C’era anche chi andava in giro con tutto l’armamentario per le riparazioni. Ombrellai, concia-brocche, stagnatai, arrotini e perfino calzolai. Alcuni mestieri ormai scomparsi, altri sono in via di estinzione. Niente a che vedere con l’abituale “usa e getta” dei nostri tempi. A quel tempo, in pochi potevano permetterselo. Tutto ciò che si possedeva, si teneva caro fino alla totale consunsione. Stiamo parlando dei primi quarant’anni del secolo scorso, quando povertà e analfabetismo erano a livelli molto elevati. La vita scorreva lentamente. Subito dopo la seconda guerra mondiale, invece è stata tutta “ ‘na calata”. Il progresso cominciò a correre più di quanto si immaginasse. Le nuove tecnologie importate da oltre oceano, ebbero il loro peso. Se da un lato furono di grande giovamento, dall’altro hanno allontanato la collettività da quello stato di “naturalezza” che rendeva tutti più liberi. I quartieri popolari catanesi come la Civita, i S.S.Angeli Custodi, ‘ ‘U Cussu e similari, contrariamente a quanto si possa pensare, erano delle comunità aperte. Tutti si conoscevano, e tra le famiglie si solidarizzava. La strada era quasi il proseguimento naturale delle misere abitazioni tutte al pianterreno. Il commercio si alimentava di quotidiane necessità. A fare la differenza tra un venditore e l’altro era la conoscenza del quartiere, ma anche il modo di porgere il prodotto. Ciascuno di loro invogliava a comprare ciò che serviva per soddisfare i bisogni primari delle famiglie. Lo faceva usando metodi semplici e persuasivi. “ ‘A vanniata è menza vinnita”, si dice. Gli li ambulanti si presentavano in quelle polverose viuzze, con la loro caratteristica voce cantalenante; un misto di ironia e saccenza. “Arrivau ‘u cafè; ‘u cafè arrivau….mi sta vugghiennu ‘nte manu”( il caffettiere); “ ‘Aju rocculi, bastaaddi e….bastadduniii. Vaddati chi ssu beddi sti cucuzzi…e chi ssu sciabbulazzi?!!!( verduraio della Civita). Come non ricordare i venditori di sale sfuso. La loro voce rauca consumata dai vapori salini, assumeva un timbro singolarissimo: “ ‘Saleee, uoh…saleee…”. Nella zona di piazza Palestro, nel popolare quartiere del fortino, era nota la figura du “Zu Bunnanzia”. Reclamizzava la vendita di sale in modo originale: “ fimmini, ‘u zu Bunnanzia sta passannu; assai vinni dugnu ‘n sold’i sali”. Ai suoi tempi, intorno agli anni ’30 dello scorso secolo, con un soldo, cioè con appena una palanca, di sale se ne comprava a sufficienza. Con un palancuni (due soldi) la provvista era per un anno intero. Immancabili le contrattazioni. Una lira, era una lira e aveva nelle tasche di ognuno il suo “peso”. Di questi venditori, pur essendo molto conosciuti, spesso si omettevano i nomi. Le donne, quelle più castigate, per evitare eccessive confidenze o spunti di pettegolezzi e malintesi, preferivano indicarli con un generico “Chiddu”(quello). “Vadda, c’è chiddu ‘do pisci!....Sintissi.…ossa mi runa ‘n’quattruni ‘i saddi ca mi fazzu arrustuti…”. ( ‘N’quattruni= 200 grammi). Quando dal carrettino si passò alla motoape, le cose cambiarono. Oggi, tranne il gelataio nei mesi estivi, non vannia più nessuno per strada. Quando di rado si incontra un arrotino, notiamo che il “ritornello” è rimasto lo stesso: “Mola forbici e coltelliii”. Lo fa con un assordante e fastidioso altoparlante che non rende merito alla nobile tradizione.

 

Nella foto, antico venditore di acqua

 

Pubblicato su La Sicilia dell'11.04.2021

LA PASQUA CHE NON C'E' PIU'

Share

Fino a qualche decennio fa, nei sussidiari delle scuole elementari o negli almanacchi popolari, la Pasqua veniva illustrata con una iconografia da libro cuore. Una splendida giornata di primavera dove i bimbi correvano felici tra alberi e fiori; sullo sfondo, le svolazzanti rondinelle attorno al campanile della piccola chiesetta di campagna. E poi l’Ulivo della pace; i gialli pulcini, simbolo di un nuovo inizio e del perpetuarsi della vita; l’uovo, metafora di rinascita e di speranza. Il vero significato della Pasqua sta nel passaggio dai rigori invernali al risveglio della natura in arrivo con la bella stagione. Sul piano religioso, dalla morte fisica alla rinascita spirituale. Quella era l’immagine festante dell’evento cristiano forse più importante di tutti. Il momento buono per “confessarsi” almeno una volta l’anno. Ci si sentiva tutti un po' più buoni dopo le prediche quaresimali e le giornate della “Settimana Santa” vissute in preghiera. La narrazione della morte e Passione di Gesù Cristo prima dell’attesa Resurrezione, coinvolge e affascina. Più buoni e anche più contenti. Non è un caso se il detto: “cuntenti comu ‘na Pasqua” derivi proprio da questo diffuso stato d’animo. Ma i tempi cambiano: “ ‘U bon tempu non dura tuttu ‘ tempu” recita un antico proverbio che sembra stato scritto ieri. Ci voleva questa brutta pandemia per ricordarcelo. Il mare è in tempesta, si va per ondate. Niente processioni, niente riti di massa; niente strette di mano e abbracci: solo “distanziamento sociale” che paradossalmente confligge con i principi stessi dell’evento pasquale. Non successe neanche nel secolo scorso, tra il 1919 e il 1920, quando allignò pesantemente l’epidemia della “Spagnola”. Con l’andare del tempo, questa festa ha subito alcuni importanti mutamenti. Questo perché le alte gerarchie della chiesa hanno saputo raccogliere i segnali di una evoluzione sociale sempre crescente. Il cambiamento più consistente si è registrato con la riforma liturgica sancita dal Concilio Vaticano II (1962-1965). Stravolse quasi interamente il cerimoniale: a partire dalle prediche quaresimali. Abolito il pulpito; niente più “troccole” e “raganelle” durante le funzioni della Passione. Venne stabilito di posticipare alla notte tra il sabato e la domenica la messa di Resurrezione che prima si celebrava alle undici antimeridiane del sabato. Ovunque si trovasse, al suono delle campane la gente si abbracciava per scambiarsi gli auguri. In un primo momento, questo provvedimento non è stato molto gradito dai fedeli. “ Non c’è cchiù puisia” qualcuno si lasciò scappare tra i denti. Per molti anziani ancora oggi è così. Tuttavia bisognava accettare anche se per semplice “ubbidienza”. “ Cu nn’appi nn’appi ‘de cassateddi ‘i Pasqua!” Di fronte all’incedere del tempo, anche la Pasqua è diventata una festa soggetta al consumismo. Così “a cuddura cu l’ova”, i “pupicena”(pupi di zucchero) e i dolci tipici di manifattura casalinga, hanno ceduto il passo alla “pasticceria di professione”. “Pasta reale”(frutta martorana), “l’agnello di zucchero” (dalla classica posa “aggiuccata” con la bandiera della resurrezione tra le zampe) e “ l’uovo di cioccolata” con tanto di sorpresa al proprio interno. Già, la sorpresa; una trovata commerciale che si è rivelata davvero geniale. Usanza che vai, Paesi che trovi. In Sicilia, come nel resto del mondo, i riti ricalcano i costumi autoctoni delle singole località. Riti suggestivi che mantengono intatta la propria originalità. La Pasqua è sempre stata una festa all’insegna della semplicità e dei sani principi cristiani. Anche per le famiglie aristocratiche. Ma era tra il popolo che si viveva la vera festa. Quando la povertà era condizione di molti, la Pasqua riuniva tutta la famiglia. Un momento irrinunciabile anche quando le finanze non lo permettevano. Qualche ricetta più elaborata; dolci e liquori tipici della “casa”, niente di più. Giusto per interrompere la quotidianità fatta sempre dei consueti alimenti: pasta di casa, fave, ceci, cipolla, olive e trippa ‘co sucu “ ‘a bagnapani”. Si andava a messa dopo avere preparato il “desco” a puntino. “Prima ‘u Signuri e poi ‘a panza”, si diceva. La tavola diventava la prosecuzione naturale del rito religioso. Non a caso si cominciava con una preghiera. Attorno a essa sedevano figli, genitori e nonni. A volte anche altri familiari. Questa era la festa che sanava screzi e risolveva controversie. “Quannu sona ‘a Loria, scumpari ogni tinta mimoria”. Era buona abitudine, perciò, inginocchiarsi tutti insieme e pregare. Gli anziani ricevevano il bacio della mano; i grandi abbracciavano i più piccoli. E questi, sollevati in aria, ricevevano la benedizione: “Crisci, crisci, co Signuri abbrivisci”( Cresci, cresci che il signore risorge). Buona Pasqua a tutti!

 

Nella foto, i Pupicena(Pupi di zucchero)

Pubblicato su La Sicilia del 4.04.2021

VIDEOCONFERENZA DI SALVO TROINA ALL 'AMMI: "LE DONNE DEL RISORGIMENTO: TRA FASCINO, AMORE E LIBERTA' "

Share

                                      

Vissute all’ombra delle grandi figure come Vittorio Emanuele II, Cavour, Garibaldi e Mazzini, le donne del Risorgimento sono state dimenticate dalla storia. Eppure il loro apporto si rivelò importante durante gli eventi che determinarono la formazione dello Stato Unitario. Di questo si è parlato nel corso della Videoconferenza “Le donne del Risorgimento: tra fascino, amore e libertà” organizzata dall’AMMI (Associazione Mogli Medici Italiani) di Catania. Relatore, lo studioso del Risorgimento italiano, M° Salvo Troina. Un lavoro rigorosamente storico per celebrare degnamente il 160.mo anniversario dell’Unità d’Italia, sviluppato attraverso immagini- video appositamente selezionate. Folta la partecipazione delle socie in collegamento da varie regioni d’Italia. Dopo i saluti del Presidente dell’ordine dei medici di Catania, prof. Ignazio La Mantia e delle rispettive responsabili nazionale e catanese dott.ssa Michela D’Arrigo e dott.ssa Antonella Di Maggio, l’oratore ha esordito accennando al panorama storico-politico in cui maturarono le grandi battaglie risorgimentali. “Le hanno chiamate eroine”- esordisce l’oratore- “ma una volta spenti i riflettori sull’epoca risorgimentale, le donne sono scomparse rapidamente dalla memoria collettiva. Aristocratiche, Borghesi o popolane, sfidando lo stereotipo ottocentesco che le voleva solo madri e donne, sono scese in campo perché tutte accomunate da un unico ideale di libertà”. Lo fecero vestendo panni rigorosamente femminili. Da nord a sud, passando per il centro Italia, alcune sono state tante particolarmente ricordate; tra queste: Cristina Trivulzio di Belgjoioso che, perseguitata dalla polizia austriaca, fu costretta a riparare a Parigi; La coraggiosa Rosalie Montmasson, moglie di Francesco Crispi e unica donna presente alla spedizione dei mille; l’affascinante Contessa Castiglione; Giuditta Bellerio Sidoli, compagna di Giuseppe Mazzini; Enrichetta De Lorenzo, rivoluzionaria e amante di Carlo Pisacane. E come non ricordare l’eroina Messinese Rosa Donato Rosso, meglio conosciuta con il soprannome di “l’artigliera del popolo”. A Catania ne avrebbe seguito le orme, un decennio dopo, “Peppa la Cannoniera” al secolo Giuseppina Bolognara”. Quest’ultima, ricordiamo, dopo avere sottratto ai Borboni un grosso cannone, lo ha poi puntato contro di loro. La carrellata comprende non soltanto coloro le quali si immolarono sul campo di battaglia, ma anche le Crocerossine che si occuparono dei feriti, Scrittrici che incitarono alla battaglia e donne del popolo che si occuparono della preparazione di coccarde tricolori, munizioni, innalzando perfino le barricate. Molte di loro affrontarono la prigione o dovettero impegnare i propri averi per “finanziare” le imprese rivoluzionarie. Un discorso a parte Merita Anita Garibaldi, moglie dell’eroe dei due mondi. Morì in circostanze misteriose mentre seguiva il marito in una delle sue abituali spedizioni belliche. Il relatore mostra in video una documentazione che attesterebbe ben altra verità. La sua morte non sarebbe stata accidentale; verosimilmente si trattò di un omicidio mai confermato. 

 

Nella foto, la locandina.

Pubblicato su La Sicilia del 6 Aprile 2021

 

Additional information