Storia e tradizioni popolari
PROVERBI PER SETTE GIORNI(40)
- Details
- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Thursday, 30 September 2021 17:28
- Published on Thursday, 30 September 2021 17:28
- Written by Santo Privitera
- Hits: 163
-A LU CANTARI L'ACEDDU, A LU PARRARI LU CIRIVEDDU(Ognuno con la propria caratteristica: l'uccello canta; l'uomo usa o "deve usare" il cervello.);
-QUANNU TUTTI COSI VANNU 'A PARU, L'OMU METTI LI PINNI(Quando tutto va bene, l'uomo ringalluzzisce);
-QUANNU VIDI CCHIù CANI SUPRA N'OSSU, è MEGGHIU FARASILLA ARRASSU(Quando vedi tante persone lottare tutte per la stessa cosa, meglio restarne lontane);
-SAPI CCHIU' DI LU MEDICU SAPUTU, LU MALATU CA E' PATUTU(L'ammalato che soffre, conosce meglio del medico la propria malattia);
-SI DùNI LA TO' ROBBA SENZA PIGNU, MUSTRI AVIRI POCU GNEGNU( Se concedi la tua roba senza nulla in cambio, dimostri poca intelligenza);
-TESTA FIRUTA SI MERICA E SANA, CORI FIRUTU NUN SANA MAI(Le ferite della testa si sanano, quelle inferte al cuore non si guariscono mai);
-TANNU L'AMICU LU CANUSCIRAI, QUANNU LU PERDI E NUN LU VIDI CCHIUI(Il vero amico lo conoscerai quando lo perdi e non potrai mai più incontrarlo).
IL MISTERO DELLA MORTE DI NINO MARTOGLIO
- Details
- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Tuesday, 14 September 2021 07:56
- Published on Tuesday, 14 September 2021 07:56
- Written by Santo Privitera
- Hits: 196
Il 15 settembre del 1921 moriva Nino Martoglio, poeta, giornalista, commediografo e regista. Era nato a Belpasso nel 1870. Moriva in circostanze strane, per certi versi misteriose; cadendo nella tromba dell’ascensore di un padiglione dell’ospedale Vittorio Emanuele. Era andato a trovare il figlio ricoverato al reparto pediatrico del nosocomio catanese. A un secolo di distanza, non essendo stato effettuato sul corpo alcun esame autoptico, i dubbi restano. Fu una caduta accidentale, oppure si trattò di un assassinio camuffato da incidente? Il corpo, ritrovato due giorni dopo, presentava ferite compatibili con il trauma seguito alla caduta. E’ quanto sarebbe stato accertato dopo una frettolosa quanto sommaria ispezione cadaverica. Tutte le proposte di riesumazione fin qui effettuate, anche quelle recenti, sono tutte cadute nel dimenticatoio. E’ come se si avesse paura di scoprire chissà che cosa. Un enigma destinato a rimanere tale, anche se i presupposti per sospettare un omicidio ci sono tutti. A partire dalle ferite riscontrate sulla testa. A detta di autorevoli medici legali che ebbero modo di esaminare il materiale conservato e repertato a suo tempo, le lesioni potrebbero essere state causate da corpi contundenti. Si trattò dunque di un agguato organizzato ai suoi danni all’interno di quell’ospedale? Sul luogo del sinistro, c’erano le necessarie segnalazioni di “pericolo”, tant’è che nessun provvedimento fu preso dagli inquirenti nei confronti del responsabile dei lavori. Martoglio fu un giornalista che oggi potremmo definire d’assalto. Un cronista colto e intrapendente. Occhi vispi, baffoni alla “tirabaci”, barba folta e pizzetto appuntito; la sua era la figura del perfetto “moschettiere”. Prima di salpare verso le rotte letterarie che lo avrebbero condotto molto lontano, da capitano di lungo corso aveva realmente solcato gli oceani. Nella terraferma, ben altre avventure però lo attendevano. Visse in pieno il periodo Defeliciano. Nel suo giornale “Il d’Artagnan” (1889-1904) nato come “ serio-umoristico-illustrato”, se da un lato l’attività letterarie e culturale fu predominante, dall’altra riservò ampio spazio alla cronaca socio-politica e di costume. Da anti-clericale non risparmiò critiche e invettive contro la chiesa. La satira prese di mira anche personaggi politici importanti. La mafia( o maffia), a quei tempi, soprattutto nella Sicilia orientale, era considerata un semplice fenomeno associazionistico finalizzato agli atti delinquenziali. Il gruppo di sonetti intitolati “ ‘o scuru ‘o scuru” che aprono il suo capolavoro poetico “Centona”( confusione), vanno intesi in questa direzione. Martoglio adoperava la penna senza alcuna paura. Era un temerario. Da abile spadaccino affrontò diversi duelli, costringendo alla resa anche gli avversari più temibili. Nei vari campi in cui si cimentò, dalla poesia al teatro; dal giornalismo alla regìa cinematografica, ebbe molti ammiratori ma anche tanti nemici. Dopo la chiusura del “ d’Artagnan, la sua definitiva partenza per Roma(dove riposano le sue spoglie) ebbe tutta l’aria di un forzato e precipitoso abbandono della sua città. All’origine della decisione, forse non solo motivi di lavoro. La sua produzione è vastissima. Catania era stata la culla letteraria e ispiratrice di tutti i suoi capolavori popolari. Quando poteva, ci tornava. A lui si deve in gran parte la nascita del teatro siciliano. Sulle orme del poeta dialettale Giuseppe Borrello, meglio conosciuto come “Puddu Burreddu”( Catania 1820-1894), trovò nel quartiere della “Civita” l’humus ideale, il cuore pulsante di una città profondamente “teatrale”. Martoglio ne studiò il carattere, il linguaggio, le abitudini degli abitanti. I suoi personaggi incarnano quella sagace ironia che sconfina nel grottesco. Le donne ebbero un ruolo fondamentale; madri e mogli fedeli, ma fortemente battagliere. Riuscì a resuscitare gli angoli più suggestivi e pittoreschi di questo quartiere, donandogli un’anima; trasformando il dramma della miseria in un colorito modo di vivere la quotidianità. Molto della Civita di allora, è rimasto. In occasione della visita a Catania del poeta romanesco Cesare Pascarella, autore de “La scoperta de l’America”, Martoglio lo accolse con un sonetto intitolato “Tu ed io”: “Tu scupristi l’America/ supira li vileri,/ iù scuprii la Civita/ e ci arrivai apperi”.
Nella foto, Nino Martoglio
Pubblicato su La Sicilia del 12.09.'21
lLE STATUE ACEFALE DEI BORBONI A CATANIA
- Details
- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Thursday, 09 September 2021 18:30
- Published on Thursday, 09 September 2021 18:30
- Written by Santo Privitera
- Hits: 232
Catania pare non avere mai avuto un buon rapporto con le statue degli uomini illustri. I mezzi busti presenti nell’omonimo viale della Villa Bellini, non sempre rendono “onore al merito”. Collocate all’interno di un luogo scarsamente custodito, sono sempre stati oggetto di atti vandalici e di incuria. Anche oggi purtroppo è così. Nasi rotti, scritte ingiuriose ed escrementi dei volatili li hanno resi irriconoscibili. Non è affatto edificante. Mentre nelle maggiori piazze di altre città spiccano monumentali figure del luogo, dalle nostre parti altre celebrità sono in “bella evidenza”: La statua al Re Umberto I ( ‘U Re a cavaddu) e quella a Giuseppe Garibaldi ( ‘a statula panzuta) in primis. In compenso abbiamo i monumenti dedicati a G.Benedetto Dusmet e Vincenzo Bellini. Ai personaggi di rilievo, furono preferiti colonne, obelischi, cippi commemorativi, putti, ninfe e soprattutto, fontane. Tante fontane; alcune delle quali lasciate per lungo tempo all’asciutto. La celeberrima fontana do’ “sculapasta” (detta anche della jella), collocata a piazza Stesicoro prima del monumento a Bellini, venne addirittura smontata pezzo per pezzo perché invisa a tutti. A ciascuna di esse è stato sempre attribuito dal popolo un pecco (Nomignolo). Più che toponimo di riferimento, esso è espressione di uno stato d’animo. L’ultimo, in ordine di tempo, è toccato alla moderna fontana del Tondo Gioeni. E’ conosciuta come “ ‘A funtana ‘de lavandini”o “dell’acquasantiera”. “Anche l’occhio vuole la sua parte”. Un discorso diverso meritano le statue acefale dei Borboni. Ci sono voluti secoli prima che i catanesi si rendessero conto del loro prezioso valore storico e artistico. Sono le pregiate opere di Antonio Calì(Catania 1788-Napoli 1866) detto il Canova Catanese perché del grande scultore neoclassico fu allievo e seguace. Quasi tutte le sue opere scolpite a Catania servirono per celebrare i sovrani Borbonici. Per tale motivo, dopo l’Unità d’Italia, l’artista fu oggetto di angherie di ogni tipo. Per realizzare il monumento oggi conosciuto come “l’acqua ’o linzolu”, gli venne preferito lo scultore Tito Angelini suo acerrimo rivale. Lasciò amareggiato la città per stabilirsi a Napoli. “ ‘I statuli senza testa” sono tra i monumenti più fotografati dai turisti. Un misto di curiosità e ammirazione. Quella di Francesco I(nella foto) si trova in V. Dusmet, mentre quelle di Ferdinando I e Ferdinando II all’interno di Villa Pacini. Sono alte tre metri. Quella di Francesco II non venne mai realizzata. Si disse perché nel frattempo la dinastia Borbonica volgeva al tramonto. Altre opere del Calì, a Catania è possibile ammirarle nella chiesa S.Agata la Vetere, nell’atrio del Municipio e al Castello Ursino. Quando nel 1964 le statue vennero ritrovate abbandonate nei depositi comunali del Monastero dei Benedettini, l’allora assessore comunale alla P.I. Alfio Giuffrida ne dispose la collocazione presso la zona della marina. Ai sovrani Borbonici doveva essere riconosciuto in qualche modo il merito di aver permesso, grazie alla elargizione di un cospicuo finanziamento, il completamento del porto di Catania. Facile immaginare le lotte e le resistenze che il solerte assessore dovette affrontare prima di imporre la propria volontà. Ricordiamo che due di questi monumenti vennero una prima volta decapitati a furor di popolo durante i moti del 1848-49. Erano allocati rispettivamente a piazza Università (Francesco I) e piazza Stesicoro( Ferdinando II). “Le teste”-ci informa lo storico e scrittore Saverio Fiducia-“furono rifatte e rimesse al loro posto da Carlo Calì cugino germano di Antonio”. Gli oppositori del regime, sovente sfogarono la loro rabbia su quelle statue. Particolare curioso: Durante il “restauro” , per non lasciare vuoti i piedistalli vennero allestiti due monumenti similari in gesso. Dovettero essere rimossi frettolosamente perché un violento nubifragio nel frattempo li “sciolse”. La terza, invece, quella di Ferdinando I, è stata realizzata solo nel 1853. Venne collocata nei pressi di S.Francesco. Durante i moti del 1860, le tre statue vennero nuovamente decapitate. Stavolta definitivamente. I busti fatti rotolare per via Etnea, resistettero. Le teste, colpite a martellate, non vennero mai più ritrovate. Credendo di rinvenirle abbandonate in qualche altro deposito comunale, le cercarono per lungo tempo. Un funzionario del comune ironizzò: “Quando la testa si perde, non è facile ritrovarla”. Alcuni anni fa, un gruppo di artisti provò a ricostruirle. Vennero attaccate “posticce” sul busto marmoreo. Un gesto dal sapore goliardico più che un serio tentativo di restituirgli un volto e…una testa. Decisamente più graditi sono stati i versi di un poeta catanese che si domandò: “Li Borboni ‘a la marina senza testa mischineddi/ cià scipparu e non si sapi/… fòru brutti ‘o puru beddi?!
Pubblicato su La Sicilia del 22.08.’21
SANT'EUPLIO
- Details
- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Wednesday, 18 August 2021 11:00
- Published on Wednesday, 18 August 2021 11:00
- Written by Santo Privitera
- Hits: 158
Il 12 agosto del 304, cinquantatre anni dopo sant’Agata, cade a Catania un altro glorioso Martire: sant’Euplio. Vittima della feroce persecuzione ordinata dall’imperatore Diocleziano. Assieme ad Agata, egli fu oggetto di culto a Catania già in epoca costantiniana. Nel corso dei secoli gli vennero intitolate chiese e cattedrali in varie città italiane. La basilica cattedrale di Catania, nel giorno che ricorda il suo martirio, ha riproposto i soliti appuntamenti annuali: In mattinata, alle ore 9.00, il seicentesco reliquiario con il braccio di sant’Euplio verrà condotto nel sito della vecchia chiesa a lui dedicata in piazza Borsa per la benedizione della città; seguirà in cattedrale alle ore 10.00 la santa messa. Nel pomeriggio, alle 17.30 la solenne celebrazione eucaristica presieduta dal cerimoniere arcivescovile can.Pasquale Munzone. Parteciperanno i diaconi dell’arcidiocesi. Anche nella omonima parrocchia di piazza Montessori, il 1717° del martirio verrà solennemente ricordato. Alle ore 8.00, durante le lodi mattutine, venerazione di una reliquia del Santo; alle ore 19.00 una s.messa verrà celebrata dal parroco don Fausto Grimaldi. Sarà anche l’occasione per ricordare Don Michele Cogliani, rettore del centro studi eupliani, scomparso pochi giorni fa a Trevico(AV). Proprio nella parrocchia, oggi santuario Madonna della Libera e Sant’Euplio del suggestivo borgo Irpino dove sono in corso i solenni festeggiamenti, riposano le spoglie del Santo Diacono catanese. Don Cogliani-ricordiamo- sull’asse Trevico-Catania, negli ultimi cinquant’anni ha contribuito assieme ai compianti storici e giornalisti catanesi Don Rosario Mazza, Benigno De Marco, Agostino Valente, Mario Fonte, Nino Urzi e Antonio Blandini, alla diffusione e al rilancio del culto Eupliano. Anche a Francavilla di Sicilia, nel Messinese, sant’Euplio (sant’Opulu) è festeggiato come Patrono del paese. Sulla biografia di sant’Euplio le fonti non sono concordi tra loro; a partire dal nome. “Euplio” è il nome popolare con cui è più conosciuto, mentre quello grecizzato di “Euplo” sarebbe in realtà quello autentico. La figura di questo Martire che la tradizione indica di età adolescenziale, nella storia del cristianesimo è fra le più significative. La sua professione di fede andò oltre. Fu attivo ed efficace soprattutto nella diffusione dei Vangeli. Incurante della persecuzione scatenata dall’imperatore Diocleziano, forse la più cruenta che la storia ricordi, continuò imperterrito nella sua opera di cristianità. ” Io sono cristiano”-andava ripetendo- “e voglio morire così”. “Un gesto provocatorio” lo definì la studiosa Maria Stelladoro” in una sua pubblicazione del 2006. Il 29 aprile del 304, sarebbe stato fatto imprigionare dall’allora “Corrector” romano Calvisiano. Sottoposto a cruente torture si rifiutò di abiurare, come gli era stato intimato, alla sua fede cristiana. Con l’occasione, gli sarebbe stata perfino massacrata a colpi di pietra la mano destra nella quale teneva le sacre scritture. Particolare,questo, che trovò riscontro nell’ultima ricognizione canonica sui resti del Santo, effettuata alla fine dello scorso secolo dal prof. Francesco Mallegni dell’università di Pisa. “A proposito”-puntualizza il docente toscano- “gli esami al carbonio 14 eseguiti sul corpo di Euplio”, collimano esattamente con quanto riportato dalle fonti primarie”. Il giovane diacono fu processato e giustiziato il 12 agosto del 304. Subì un duplice drammatico processo che lo vide lottare senza paura con il suo accusatore. Venne decapitato nel “foro” (pubblica piazza), odierna via pozzo Mulino.
09.08.2021
Nella foto, un'antica iconografia del Santo
Pubblicato su La Sicilia del 12.08.2021
GIOCHI FANCIULLESCHI DI UNA VOLTA
- Details
- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Saturday, 07 August 2021 18:41
- Published on Saturday, 07 August 2021 18:41
- Written by Santo Privitera
- Hits: 244
Come spiegare alle nuove generazioni i giochi fanciulleschi di una volta? Impossibile. Da dove incominciare? Sono migliaia e tutti con la loro fascinosa storia. Hanno fatto parte di un mondo infantile che non lasciò a nessuno il tempo di annoiarsi. Formativi perché genuini. ” A palla avvelenata”; “miffa”, “nascondino”( ammuccia ammuccia); “sciancateddu”, “a pammata”, “ i ciappeddi”, “‘a petra pigghiula”, “ ‘i pruspira”, fanno parte ormai di quel “museo” della memoria che alberga in ciascuno di noi. “Caricabotti viri ca vegnuuuu!!!”; “ Se riconosci uno di questi giochi, hai vissuto un’infanzia felice”. Questo detto circola sui social di oggi. ‘A casa, nelle scuole, negli oratori o nelle strade, ci si divertiva senza pensare ad altro. Erano giochi semplici e non generavano alcuna dipendenza. Stimolavano la creatività attraverso la fantasia. Per praticarli, dovevi prima “progettarli. Trovare la materia prima, non era un problema. Spesso il gioco dovevi inventartelo, e allora lo sentivi intimamente tuo. Se piaceva, diventava….”virale”( questo termine allora veniva usato solo nel reparto di infettivologia dei nosocomi). Nelle scuole, erano i maestri ad inventarli. Il maestro, unico dispensatore di didattica saggezza, al termine della lezione ricorreva ai giochi. Lo faceva per distrarre gli alunni ancora provati dalle fatiche mentali sostenute durante le lezioni. A Catania, negli anni ’60 dello scorso secolo, andava di moda il gioco dei “sacchi pieni” e “sacchi vuoti”. Un gioco dai movimenti ginnici che univa l’utile al dilettevole. Si praticava restando ciascuno al proprio posto. Bisognava rimanere all’impiedi o abbassarsi sulle ginocchia assecondando un preciso comando. Chi sbagliava, veniva segnato alla lavagna. I soldatini di plastica era come se possedessero un’anima. Con loro si giocava; I bambini gli prestavano la voce. Sui tavoli della cucina o nella stanza da pranzo, venivano allestiti i campi di battaglia. Era tutto un simulare di botti e cannonate. Dentro la scatola del “Vel”, detersivo in polvere per uso casalingo, c’era sempre un soldatino, una nave da guerra o un carro armato in miniatura. I bambini incitavano le loro mamme a comprarlo. Speravano nella sorpresa. La felicità era tutta delle bambine quando, “abbuddata” la mano nella scatola col detersivo, “pescavano” una bambolina. Contrariamente a quel che accade oggi, i giochi di un tempo non costavano quasi nulla; si utilizzavano infatti oggetti comuni facilmente reperibili. La formula ricorrente era: “Comu jegghè, basta ca jucamu!” Da soli o in compagnia.. Così pietre, legni, tappi di bottiglie, noccioline, elastici, stoffe ed altro, venivano riciclati. Per il “carriolo a pallini” occorreva una tavolaccia, due pezzi di legno e tre cuscinetti a sfera. Per ottenere questi ultimi, bisognava andare da un meccanico il quale non sempre li regalava. I ragazzi più intraprendenti, andavano a “caccia” muniti di Fionda. Per la sua costruzione veniva utilizzato un ramo forcuto pazientemente modellato sul fuoco. Due elastici ricavati dalle camere d’aria delle biciclette venivano legati alle sue estremità. Al centro, un pezzetto di pelle ritagliato da vecchie scarpe fungeva da “piattaforma di lancio”. L’arco e le relative frecce invece venivano costruiti adoperando le stecche di un ombrello dismesso. Alle estremità si legava lo spago e l’arma era già bella e pronta. Come faretra, la manica di una vecchia giacca cucita alla sua estremità. La “ciarbottana?”…non è una brutta parola. E’ quello che noi tutti conoscevamo come “ ‘u cattocciu”. Un tubo di plastica che soffiato con forza, sparava. Poteva essere caricato con i minicucca( bacca di bagolaro) o con cartocci di carta. Quando all’estremità di questi ultimi veniva applicata una “spimmula”( spillo), il gioco diventava pericoloso. Le due mollette applicate, non era per reggerlo meglio ma per farlo i sembrare…un mitra. Il carbone o la pietra calcare venivano utilizzati per tracciare segnali sul selciato; segnali utili per creare un percorso da seguire. ‘U “sciancateddu” era tra questi. Prediletto dalle ragazze; i ragazzi se ne appropriavano per mostrare la propria abilità nel salterello. Mantenere la separazione tra i due sessi però era importante per l’occhio sociale. Una cosa erano i giochi maschili, altro quelli femminili. Guai a sovrapporli. Preoccupava un bambino scoperto a giocare con le bambole. Stupiva se una bambina giocava a fare il Cow Boy con la pistola: “Scavaddataaa!” le avrebbero gridato. “Mazinga” e gli altri robot “volanti” di marca giapponese, segnarono una svolta. Niente più filastrocche o cose del genere; solo musiche martellanti e luci psichedeliche. Piombarono in tv con la stessa potenza con la quale si lottavano tra loro in un mondo intergalattico sconosciuto. Questi mostri intercambiabili si affermarono congedando definitivamente i vecchi soldatini. Niente più cannoni né fucili. Nei giochi fanciulleschi di quel periodo, le supposte diventarono “missili” da lanciare contro il "nemico".
Nella foto, il girotondo dei bambini
Pubblicato su La Sicilia del 12.07.'21