Storia e tradizioni popolari

PRESEPI, "CONE" E NOVENE A DIFESA DEL NATALE

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Che Natale sarebbe senza i suoi tradizionali simboli? È giunta davvero l’ora di mettere in soffitta il Presepe, l’Abete addobbato di tutto punto e Babbo Natale che con la sua slitta carica di doni per la delizia dei bambini? Secondo certe correnti di pensiero, sì. Il globalismo ormai non si ferma più davanti a niente e a nessuno. Qualcuno asserisce che si tratti di una conquista per i diritti civili; secondo altri, il cambiamento culturale radicale è necessario per un nuovo modello di umanità. Dalle nostre parti, invece, fatte le dovute eccezioni, si tratta di puro “Manciamentu”; dove con questo termine si intende un molesto prurito da sedare. Per quanto la banale metafora tenda alla sdrammatizzazione, si tratta piuttosto di un problema serio, comparso agli inizi di questo secolo. In tempi non sospetti, già si parlava che molte cose “nel 2000” sarebbero state cambiate; le previsioni pare non fossero per niente azzardate. Accettare i cambiamenti, però, non vuol dire “terremotare” ciò che è profondamente radicato nelle comunità. Il fenomeno affonda le proprie radici nella religione, ma ha finito per interessare largamente anche la politica. Più che dalle Moschee, parte dall’ Unione Europea l’iniziativa del “rinnovamento”. La massima istituzione, pretende di dettare le regole su tutto: anche in materia religiosa. Ad essere coinvolte in primo luogo sono le scuole. Ricordiamo che nel 2006 in un istituto scolastico di Bolzano, è stato deciso di non far cantare ai bambini la canzoncina natalizia: “Tu scendi dalle stelle”. Si scatenò una polemica che scosse non poco l’opinione pubblica. Da allora i casi non si contano più. E’ stato messo in discussione perfino il Crocifisso appeso nelle aule. Quella che prima poteva sembrare solo una “guerra di religione”, oggi si sta estendendo a macchia d’olio in tutti i campi della società: dalla moda agli orientamenti sessuali; dal revisionismo storico, all’arte e alla lingua. Anche quest’anno, insieme alle luci di Natale, puntualmente si sono riaccese le polemiche. Complice una certa pubblicità spesso imbarazzante, che non si ferma davanti a nulla. Affronta le più disparate tematiche; anche quelle ritenute pedagogicamente “anti-educative”e “lesive” per la pubblica decenza. Anzi: “Chi più ha, più ne metta”. Nel tritacarne del politicamente corretto stavolta sono finite le immagini. Dalla furia iconoclasta del medioevo a ora, sono passati più di sette secoli. Parafrasando il concetto Vichiano dei “corsi e ricorsi storici”: “A volte ritornano”. Di fronte a fenomeni di certo tipo come il “Babbo natale in tutù” collocato in una pubblica piazza di Modena, allo stravolgimento del presepe o, ancora peggio, al ritratto barbuto della Madonna, opera di un attivista Lgbtq, si resta attoniti. I Commenti si sprecano. “Ma cchi ssu pazzi??!”, commenta Angelo Ursino, storica “macchietta” catanese che non può certamente essere ritenuta “bigotta”. Gli fa eco la signora Lucia: “Patri, Figghiu e Spiritu Santu; mi fazzu ‘a cruci cca manu manca!”. E questo è poco. Che il tentativo di cancellare i simboli della tradizione Natalizia trova però una forte reazione contraria, lo notiamo dai commenti espressi sui social. A fronte del tentativo di cancellare l’augurale “Buon Natale”, c’è chi invece lo ripete scrivendolo ossessivamente tutti i giorni a caratteri “cubitali”. In tutte le città dell’Isola, le luci quest’anno sembrano più sfavillanti; le iniziative a sostegno della “cultura natalizia” si sono addirittura moltiplicate . A Catania spicca il grande Presepe animato allestito dall’artigiano Elio Ambra. Uno Stanzone dove la natività, con una progettazione ampia e articolata, viene riprodotta nei suoi diversi paesaggi: da quello orientale a quello siciliano. Spiccano figure antiche ma anche moderne. In tema di presepi, tra le tante iniziative private, anche il “Presepe Vivente” di Trappeto( San Giovanni La punta). Un appuntamento tradizionale molto suggestivo, opera dei volenterosi parrocchiani della chiesa di San Rocco, che ritorna dopo due anni di assenza dovuta alla pandemia. Nel popoloso quartiere della Civita, non poteva mancare il tradizionale spettacolo della “Cona”. Nella chiesa di San Francesco di Paola, in prossimità della vigilia, verrà messa in scena “ ‘A Nuvena di ‘na vota”. Musiche, preghiere e filastrocche a cura del gruppo musico-teatrale de “I Colapisci”, con la collaborazione del gruppo parrocchiale guidato dall’attrice Melina Pappalardo.

Nelle foto di Maria Zafferano, il gruppo musico teatrale de "I Colapisci" nello spettacolo della "Novena di Natale". Le immagini si riferiscono a quella svolta a Catania, nella chiesa N.S. Di Lourdes, lo scorso 12 dicembre del 2021.

Pubblicato su La sicilia del 12.12.'21

IL MOLO DI CATANIA E LA CONTESA CON ACIREALE

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Quando si dice: “Parènti serpenti!” Un detto che sembra valere per tutti i casi della vita. Se i rapporti con gli estranei a volte possono rivelarsi complicati, peggio potrebbe andare quando vi sono parenti di mezzo. La prova dei fatti si ha nel momento in cui subentrano motivi di interesse. “Cu parènti e cu vicini, non ci accattari e mancu vinniri”; ecco un altro proverbio che rafforza quello precedente. Malgrado il cosiddetto “politicamente corretto” oggi tenda a sminuirli, i proverbi restano sempre intramontabili perle di saggezza. L’uomo della strada ce lo ricorda sempre: “Ognuno si tira ‘u so’ filagnu”( ognuno tira acqua al proprio mulino). Come dargli torto? E’ la storia ad insegnarcelo. E quella che stiamo per raccontare non è che una delle tante. Ora come allora, le rivalità tra città della stessa regione si manifestano attraverso il comportamento delle tifoserie calcistiche opposte. La Sicilia non fa eccezione. Motivi che sembrano affondare le proprie radici nell’humus dell’appartenenza territoriale. Catania da città marittima dedita al commercio, ha sempre avuto l’esigenza di dotarsi di uno spazio attrezzato per l’attracco delle navi. Le contrarietà sono state tante e varie; un po' per colpa dell’uomo, un po' per le calamità naturali. Il porto Ulisse distrutto dalla colata lavica del 1381, anticamente si trovava nell’odierna zona del Rotolo. Si chiamò così perché, racconta una leggenda, vi avrebbe attraccato la nave del mitico eroe greco. Il porto Saraceno, invece, si trovava proprio a ridosso delle mura cittadine. Era “ a spina di riesca” e fungeva da approdo per piccole imbarcazioni e per scambi commerciali di vario tipo. Con il trascorrere del tempo, re Alfonzo V d’Aragona, ne fece costruire uno molto più moderno e attrezzato. Era il 1438. Purtroppo le violente mareggiate che flagellarono il Golfo di Catania, fecero terra bruciata. Ciò che faticosamente era stato costruito fino a quel momento, veniva spazzato via con cadenza periodica. Si era sempre punto e a capo. Il sec. XVII, quello della copiosa colata lavica e del terremoto distruttivo, cominciò “bene”. Nel 1601 una violenta mareggiata cancellò ogni traccia del molo principale, lasciando solo un cumulo di pietre. Si dovette attendere l’arrivo dei Borboni, perché si ricominciasse a riparlare di strutture portuali. Con il real decreto emanato da re Ferdinando I, si dette corpo alla redazione di un nuovo progetto. Era il 1785 quando l’incarico venne assegnato all’ingegnere idraulico di origine maltese, Zahra Buda. Visto che i catanesi lo reclamavano da tempo, il porto sarebbe stato costruito tutto a spese loro. Il monarca lo disse apertamente. Anzi, per dirla alla catanese, fu “Santa Chiara ‘i napuli”. Il progettista, espertissimo nella sua professione, ideò un sistema di grossi parallelepipedi in cemento (frangiflutti), in grado di arginare il più possibile la potenza delle mareggiate. Una novità. L’approvazione tardava a venire. Cosa era successo??!! A mettersi di traverso furono i vicini Acesi. I “cugini” proposero a loro volta, la costruzione di un porto a Capo Mulini anziché a Catania. A seguito di ciò, i tempi di realizzazione si allungarono di molto. “A Capo Mulini-sostenne il Decurionato di Acireale-esisteva già un porto naturale dotato di una vista eccezionale con i faraglioni a fare da suggestivo sfondo. E poi, ricordano malignamente, Acireale fu quella cittadina che durante i moti antiborbonici del 1837 sviluppatisi nella città etnea, si schierò a favore del del regime.” Catania dal canto suo non rimase indietro. Scesero in campo vari esponenti della cultura di allora. Il filosofo Vincenzo Paternò-Tedeschi, scrisse perfino un memoriale sul molo di Catania. Sostenne tra l’altro: “I porti vanno costruiti dove c’è maggiore traffico e prosperità economica e commerciale”. Requisiti che Catania possedeva. Si attivarono le rispettive “diplomazie”. Nel tentativo di placare gli animi, affiorò l’idea di costruire il porto a ognina, zona più vicina alla cittadina acese. Ma l’ipotesi venne scartata. La relazione di Zahra Buda, duratura nel tempo e ben articolata, spiegava con lucidità i motivi sociali, economici e logistici molto favorevoli che di fatto indirizzavano la scelta verso Catania. Pesò molto sull’esito finale questo scritto. Gli acesi non ne fecero un dramma; anzi quasi subito arrivò la riappacificazione con il capoluogo. “ ‘U sangu su si mastica, non s’agghiutti”(tra consanguinei, l’odio non può durare in eterno). Tra ulteriori ritardi, ampliamenti e riparazioni, passerà un altro secolo prima che il porto di Catania si potesse definire tale.

Nella foto, una veduta del Porto di Catania

Pubblicato su La Sicilia del 14.11.'21

CATANIA: STORIA DEL SACRARIO DEI CADUTI DI GUERRA

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Il 4 novembre 1921, con una solenne cerimonia che commosse il Paese, sull’Altare della Patria di Roma venne collocata la salma del Milite Ignoto. Erano presenti il Re e tutte le autorità dell’epoca. E’ stato ricordato durante le celebrazioni per il centenario, organizzate nella città capitolina. La cerimonia di questi giorni è stata sobria; anche un tantino defilata a causa della pandemia ancora in corso. Il Milite Ignoto rappresenta il simbolo di tutti coloro che sacrificarono la loro vita per la Patria e che la morte rese irriconoscibili. Impossibile dare una identità a quei mucchi di ossa senza piastrino. Alla signora Maria Maddalena Blasizza, madre di un caduto il cui corpo non venne mai riconosciuto, toccò scegliere il corpo di un soldato tra undici altre salme di caduti non identificabili nelle diverse aree del fronte. Il convoglio con a bordo il simbolico feretro, partì da Aquilea( Friuli Venezia Giulia) l’1 novembre di quell’anno; avrebbe attraversato silenziosamente tutte le stazioni prima di giungere a Portonaccio, una piccola stazione ferroviaria romana. Lungo il percorso, furono vietati i discorsi. “In compenso-registrarono le cronache-dai campanili vicini e lontani dei paesini attraversati dal convoglio, si levava il suono delle campane a gloria. Dai casolari sparsi qua e là, sventolava alto il Tricolore”. L’eco della vittoria era ancora vicino e l’amor patrio in quel preciso momento era alle stelle. In quasi tutte le città si pensò di creare un luogo “della memoria” dove tumulare i soldati caduti in guerra. Alla fine del primo conflitto mondiale erano stati eretti i Sacrari monumentali sparsi sui campi di battaglia: Redipuglia, Caporetto, Monte Grappa e Monte Pasubio i più famosi. A Catania, anche se combattuta a distanza, la guerra causò oltre 2.300 morti, alcune migliaia di feriti e altrettanti dispersi. Un tributo di sangue che portò nelle famiglie, lutti e disagi. Le salme dei caduti, grazie all’interessamento dell’associazione provinciale “Famiglie dei caduti di guerra”,in un primo momento vennero ospitate dalle diverse confraternite esistenti al cimitero. Si deve al Cavaliere di Vittorio Veneto Vito Pavone, medaglia d’argento al V.M. e decorato sul campo, se per la prima volta si cominciò a parlare concretamente di un Sacrario di guerra in città. Era l’ottobre del 1924. Il luogo prescelto fu la “Cripta degli Abati”, posta sotto l’altare centrale del Monumentale Tempio di San Nicolò l’Arena. La soluzione, gradita anche dall’allora rettore Rev. Alfio la Rosa, a causa della ristrettezza dei locali non venne giudicata idonea. Fu avanzata la proposta di tumulare le salme lungo le pareti degli altari delle navate laterali. Questa soluzione non ottenne il nullaosta delle autorità ecclesiastiche che anzi si opposero energicamente. Si pensò allora di erigere il Sacrario a Nord della sagrestia, in modo da essere distinto dalla chiesa ma unito ad essa. L’idea fu dell’architetto triestino Alessandro Vucetich. Superate diverse difficoltà tecniche e e burocratiche, il comitato esecutivo presieduto da Pavone e composto da alte personalità del mondo militare, ecclesiastico e del Comune, raccolse la somma necessaria per avviare il restauro della chiesa e realizzare il Sacrario. Vennero collocate 33 lapidi marmorei lungo i pilastroni della chiesa e impiantato nel lucernario in cima alla cupola, un faro tricolore donato dall’ing. Francesco Fusco direttore della Società Elettrica catanese. Il 4 novembre del 1926, tra sventolio di bandiere, salve di artiglieria e l’intonazione dell’ “Inno di Mameli” prima ancora della “leggenda del Piave”, nella Cripta furono traslate per la prima volta le salme di 96 eroi della Grande Guerra. I feretri dei caduti catanesi, benedetti dall’Arcivescovo Francia Nava, vennero disposti a croce lungo l’altare centrale prima di essere tumulati. L’opera completata venne consegnata alla città alla presenza del Re, nel maggio del 1930. Con l’occasione, tornò a risuonare il grande organo di donato del Piano, fresco di restauro. Il vestibolo fu affrescato dal pittore Alessandro Abate. L’artista catanese fu tra coloro che più si prodigarono per la realizzazione del Mausoleo. L’altare di marmo sormontato da croce e angeli, invece è opera dello scultore Salvatore Juvara. Negli anni ’50, l’architetto Biagio Miccichè realizzò una seconda cripta, abbellita dagli artisti Duilio e Lucio Gambellotti( padre e figlio), con una vetrata a mosaico riproducente il Cristo risorto. Fu destinata ad accogliere i resti dei militari caduti nella campagna d’Africa del 1935 e nella seconda Guerra mondiale. Dall’agosto del 1972, inoltre, riposano nel Sacrario le 900 salme di soldati italiani senza nome che si sono sacrificati durante la battaglia del Simeto, svoltasi nel luglio del ’43. Nel corso del tempo, a seguito di incuria e cattiva manutenzione della struttura, sono stati effettuati numerosi interventi di restauro. Ma questa è un’altra storia.

 

Nella foto, una parte del Sacrario dei caduti di guerra

Pubblicato su La sicilia del 7.11.'21

LA COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI A CATANIA, TRADIZIONI E RIMPIANTI

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Il culto dei morti, da sempre ha affascinato e tormentato l’umanità. Non è semplice curiosità ma esigenza di attribuire alla morte, un senso. Tante le ipotesi, ma nessuna certezza. “Quannu finisci l’ogghiu da’ lampa, non c’è nenti chi fari”; questa è una frase ricorrente dalle nostre parti. Storia di ordinario mistero destinato a essere risolto solo quando sarà il momento. Meglio così, altrimenti perderemmo il piacere della ricerca. Da un lato la ragione, dall’altro la Fede. Al di sopra di tutto c’è il rispetto e la solidarietà alla memoria del defunto. Un fiore, una preghiera, un lumino, come segno di vicinanza e riconoscenza verso chi ci ha preceduto. Forse anche un “aiuto” per chi crede nel potere salvifico della preghiera. Poi ci sono le tradizioni che variano nei diversi luoghi. Paese che vai, usanze che trovi”. In Sicilia, “ I cosi de’ motti” erano chiamati i regali che i genitori facevano trovare in un angolo della casa ai propri bambini la notte tra l’1 e il 2 novembre. Si comperavano nei mercatini di giocattoli appositamente allestiti “ Ppe motti”. Famoso a Catania era quello che si svolgeva a Piazza Mazzini. Questo pittoresco angolo della città, proprio per tale motivo venne ribattezzato dagli antichi catanesi “ ‘A chiazza ‘i mottu”. Si trovava di tutto. Dalla pistola di latta con “ ‘i Fumminanti”, alla bicicletta; dai bambolotti di plastica ai carrettini di legno; dal cavalluccio a dondolo alla fisarmonica giocattolo. Di fronte alla gioia dei bambini che avevano visto esaudito il proprio desiderio, la mamma commossa rispondeva: “Chissu tu lassànu ‘i motti; su fai ‘u brau, l’annu prossimu ti lassunu làutru…” Trascorsa la ricorrenza, per tutto l’anno si aspettava quella successiva. Il significato di questa antica usanza isolana ormai purtroppo scomparsa, era assai nobile; rafforzava il legame tra i vivi e i morti, allontanava dai bambini la paura verso i defunti. Niente a che vedere con l’attuale festa di Halloween, rito popolare di tipo pagano, importato dall’America. Le sue origini sono chiaramente celtiche. Rito che invece di celebrare l’aspetto spirituale, esalta quello macabro. Al rispettoso silenzio verso i defunti, oggi si preferisce la baldoria sfrenata che evoca pratiche pagane credute morte e sepolte. Sulla ricorrenza dei defunti, ricordiamo che esiste una “infinita” letteratura che spazia in lungo e in largo tra storia, leggenda, esoterismo e fiaba. “Il libro dei morti”, nota rappresentazione geroglifica egiziana, è la prima prova di scrittura che testimonia la continua ricerca dell’ “oltre” da parte dell’uomo. A scuola ci hanno insegnato a studiare “I Sepolcri” di Ugo Foscolo, capolavoro assoluto della letteratura italiana; così come l’antologia di “Spoon River” di Edgar Lee Masters lo è per quella americana. La grande intuizione dello scrittore statunitense fu quella di raccogliere gli epitaffi, facendoli raccontare in prima persona dai defunti. E poi c’è “ ‘a Livella” di Antonio De Curtis(Totò); capolavoro in chiave sociologica che investe il problema dell’uguaglianza sociale. Sotto il profilo letterario, possiamo considerare i cimiteri dei libri aperti. “L’eredità dell’eternità Dio l’ha lasciata a noi” è la scritta di autore anonimo che campeggia appena entrati al cimitero monumentale di Catania. Il popolo gli imposto il toponimo “ ‘I Tri Canceddi” perché l’ingresso principale è chiuso da tre grossi cancelli in ferro battuto. E tra le centinaia di migliaia di epitaffi posti nelle rispettive tombe, ci sono pure quelli della famiglia Formisano. Il poeta Giovanni, considerato che il padre Davide da operaio edile lavorò all’opera di livellamento di piazza duomo, dettò l’epitaffio scolpito su pietra lavica: “Sutta sti petri dormi Formisanu/ ca ccu ‘na biffa e lu so sensu finu,/ senza ‘ncigneri lividdò lu Chianu!” La biffa, in dialetto siciliano è la versione artigianale della livella. Ma Giovanni Formisano, celebre autore della romanza Siciliana “E Vui durmiti ancora”, raffinato cantore della quotidianità, volle scrivere ancora in vita il proprio: “Spostu ‘a lu ventu e a lu risinu,/ ‘na quattru ligna di ‘na rozza manu,/ dormi lu sunnu so senza matinu/lu pueta Giuvanni Formisanu.” Rimanendo sull’argomento, anche Giovanni Verga scrisse una novella sul tema dei defunti: “La festa dei morti”. Un lavoro che coniuga leggenda, esoterismo e antiche usanze sepolcrali. E’ ambientato nelle catacombe che un tempo erano situate sotto l’austera chiesetta detta del “Salvatorello”. Questo luogo di culto, scomparso subito dopo l’Unità d’Italia per consentire l’allargamento del porto, si trovava affacciato su una rupe a picco sul mare. La sua posizione aerea tra cielo, terra e mare, non poteva non stuzzicare la fantasia del massimo esponente della letteratura verista italiana.

 

Nella foto, l'antica chiesa del Salvatorello a Catania;  com'era prima di essere abbattuta per ampliare porto. 

Pubblicato su La Sicilia dell'1.11.'21

 

MONTE SAN PAOLILLO ( 'A LICATìA)

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La Licatia è quella Timpa che si affaccia al confine tra i quartieri cittadini di Barriera e Canalicchio. Il suo vero toponimo in realtà è “Monte San Paolillo”. Geograficamente separa Catania dai paesini limitrofi. Un costolone che partendo da Nizzeti( Tremestieri Etneo), da est a ovest attraversa i comuni di Sant’Agata li Battiati e Gravina di Catania per finire nella zone di via Santa Sofia. La sua imponenza-si diceva anticamente- era tale da influenzare profondamente il clima a nord della città. Da quelle alture, Catania sembra cogliersi a piene mani. Il panorama che appare è spettacolare. Purtroppo è stato devastato dai numerosi insediamenti urbani avvenuti nel tempo; insediamenti che hanno “spezzettato” in più parti un territorio omogeneo ricco di una possente e rigogliosa flora mediterranea. Lo scempio naturalistico che è stato fatto, è ancora più doloroso se consideriamo la rarità di alcune specie di piante e animali oggi in massima parte estinte. Il quartiere “San Paolo”, a Gravina di Catania, tra gli anni ’60 e ’80 dello scorso secolo, venne interamente costruito su questo suggestivo sito sovrastante il primo tratto della Catania-Etna inaugurato nel 1835 del sovrintendente Borbonico Manganelli in persona. L’avvenimento è oggi testimoniato dalla presenza dei due Obelischi fatti costruire appositamente per evidenziare l’inizio di questa strada. I due monumenti, compresa la coeva “Bbiviratura” nata per preparare i cavalli alla lunga salita verso i paesini etnei, oggi si presentano in condizioni pietose. Come tutte le cose di questo mondo, più passa il tempo e peggio sarà. Nessuno dei tre comuni a cui appartengono: Catania, Gravina e Sant’Agata li Battiati, ha intrapreso mai iniziative per il loro restauro. La zona Nord, grazie alla sua posizione considerata “strategica”, in passato è stata teatro di scontri bellici che possiamo definire “Epici”. A partire dalla disperata resistenza opposta dai patrioti catanesi durante la rivolta anti-borbonica del 1849. Arroccati nella ormai scomparsa “Casina Bonelli”(in territorio di Sant’Agata li Battiati), resistettero eroicamente agli assalti delle potenti truppe comandate dal generale borbonico Filangieri di Sartriano. Inflisse loro notevoli perdite prima di capitolare. Anche durante la seconda guerra mondiale. Barriera-Canalicchio costituì l’ultimo baluardo dei nazi-fascisti prima di battere in ritirata verso Messina. Anche in questo caso, le truppe inglesi vennero messe a dura prova. Tornando indietro nel tempo, il vero capolavoro in quest’area lo realizzarono nel XVII sec. I benedettini. “ I monaci Cassinesi”- sosteneva il compianto storico catanese e profondo conoscitore del fenomeno benedettino etneo Antonello Garmanà Di Stefano- “le studiavano tutte pur di stare bene loro e arrecare qualche beneficio alla città”. Potevano permetterselo visto che tra le proprie fila annoveravano il fior fiore della “eccellenza professionale” siciliana. Architetti, ingegneri, medici, botanici, appartenevano in massima parte ai cosiddetti rami cadetti delle famiglie nobiliari, coloro cioè destinati a indossare il saio monacale. Possedevano perciò una disponibilità finanziaria notevolissima, frutto di lasciti ereditari messi a disposizione della loro comunità monastica. I risultati sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti. Chiese, monasteri e monumentali strutture che hanno lasciato il segno. Così fu per l’acquedotto della Licatia, i cui resti sono ancora visibili nella parte alta dell’omonima arteria stradale. In quella amena contrada, l’Abate Mauro Caprara, nel 1649 aveva fatto costruire un piccolo monastero destinato alla residenza estiva per gli anziani confrati. Il sottostante fiume Lòngane e la forte pendenza, consigliarono di costruire un acquedotto che, oltre servire i possedimenti benedettini nel centro città, soddisfacesse le esigenze di una parte della popolazione catanese. Un’opera ingegnosa simile a quella romana situata a Santa Maria di Licodia, capace di resistere ai terremoti ma non alla mano dell’uomo. La legge del 1866 che determinò l’esproprio del beni della chiesa su tutto il territorio della novella patria, consegnò questi beni allo Stato che a sua volta li rivendette in gran parte ai privati. Così la residenza benedettina della Licatìa venne acquistata dalla facoltosa famiglia Papale che la restaurò adattandola a “Castello”. Aggiunse i due torrioni e l’aquila che sembra volere dominare la sottostante Timpa. Le acque del fiume sotterraneo che affiora in alcune parti, in passato hanno ispirato progetti mai realizzati. Il primo, molto suggestivo, nei primi anni ’90 dello scorso secolo prevedeva la sistemazione dell’area e la riemersione del fiume ai fini di renderlo navigabile. Il secondo, consisteva nella captazione delle acque per scopi irrigui. Destinatario il Parco Gioeni.

 

Nella foto, un angolo della Timpa della Licatìa

Pubblicato su La Sicilia del 17.10.'21

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