Moda Costume e Società
LE VARIANTI SICULE CONTRO IL VIRUS "ESTEROFILO"
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- Creato Lunedì, 17 Gennaio 2022 08:52
- Pubblicato Lunedì, 17 Gennaio 2022 08:52
- Scritto da Santo Privitera
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Tra anglicismi e abbreviazioni varie, la lingua italiana diventa sempre più un “colander”(colabrodo). Nel nostro Paese, la moda di usare termini stranieri in tutti i settori della vita pubblica, sta diventando sempre più “virale”. Altro che “Coronavirus” o “Coronavairus”, variante linguistica, quest’ultima, coniata dall’attuale ministro degli esteri on. Di Maio. Negli uffici: “Andiamo in smart working, abbiamo da calcolare ciò che resta del recovery fund…” E il dirigente raccomanda: “ Ragazzi, mantenete una certa distanza e usate la mascherina per evitare contaminazioni da droplet”. A scuola, il termine abbreviato “Dad” (didattica a distanza) è addirittura abusato. Tutto a beneficio della “spending review”. Per evitare il “Covid free runner, bisogna prendere tutte le precauzioni possibili. “Il Booster ha evitato ulteriori problemi alla popolazione”. Tutto in “osservanza dell’ultimo DCPM N…” “…A ca parrati comu vi fici vostra matri..chi ssu sti cosi…ma cu ì capisci!”. Negli strati popolari, l’uso dei termini stranieri risulta ancora problematico. Il tema è sensibile. Malgrado il “tambureggiare” dei media, le sacche di resistenza all’incalzare del nuovo linguaggio sono molto forti. E’, se vogliamo, una questione di identità; forse anche una forma di autodifesa culturale. Ma quanto è difficile parlare con una lingua che non è la nostra!“…Appoi stu coranavirus spizzàu ‘a fùmma!…fici cchiù dannu da bumma atomica! ” è il commento più comune che si ascolta tra gli attempati pensionati frequentatori abituali ‘da “Villa Varagghi“(Villa Pacini). E tra i danni collaterali, pare rientrare anche il fattore linguistico. Sembrano affermazioni bizzarre, fuori dal tempo, eppure è verità. Proteggere la nostra lingua sembra essere ormai diventato un tabù. Da qui le contrapposizioni che finiscono inevitabilmente per diventare terreno di scontro ideologico tra opposte correnti di pensiero. Tutto il mondo sembra essere davvero diventato un “Paese”. Così facendo, in poco tempo si arriverà a non capirci più nulla. Si sta assistendo a una forma di “imbastardimento” della lingua che sta già producendo i suoi effetti non solo nella letteratura orale, ma anche in quella scritta. Al netto dei termini scientifici utilizzati, scorrendo l’elenco delle parole con cui in questi due anni si è tentato di descrivere i vari aspetti dell’epidemia, l’uso massiccio di termini non italiani nel linguaggio pubblico è stato esagerato. Va aggiunto al nutrito numero di vocaboli già correntemente in uso. Tanto basta per provocare la reazione indignata perfino dall’autorevole “Accademia della Crusca”. ”Uno dei danni secondari del Coronavirus”-sostiene Claudio Marazzini presidente del massimo organo istituzionale italiano preposto al monitoraggio dei neologismi-“è proprio lo smodato uso di anglicismi che ne è stato fatto”. A questo punto, la variante al “virus esterofilistico” dilagante, potrebbe essere quella di cominciare a trasformare qualche termine inglese nel nostro dialetto. Così il Lock down diventerebbe “chiusura ‘ncasa” e il vaccino diventerebbe “ ‘U Contra”, proprio come la commedia in tre atti scritta dal poeta e commediografo Nino Martoglio nel 1918. Una “provocazione” niente affatto male. In generale, per quanto culturalmente interessante, questo fenomeno va sapientemente disciplinato per evitare che diventi irreversibilmente dannoso per la nostra lingua. Benchè la moda di adoperare parole straniere nel nostro Paese abbia origini abbastanza remote, lo sviluppo maggiore si è registrato nel dopoguerra. Una sorta di reazione alla purezza della lingua che fu alla base della dottrina fascista. I film provenienti da oltre oceano servirono poi da “innesco” al fenomeno. Gli influssi linguistici americani, generarono un modello comportamentale ben sintetizzato nel film ”Un americano a Roma” girato nel 1954 da uno strepitoso Alberto Sordi. Anche la musica ebbe il suo enorme ruolo. Il dilagare dei complessi stranieri e i generi musicali importati, unitamente agli artisti già famosi nei loro paesi d’origine, rafforzarono questo fenomeno. Quando negli anni ’70 nella nostra città dilagò il fenomeno delle Radio libere, ecco comparire il Nickname; ovvero il soprannome. “Dai microfoni di Radio Civitas and music band, vi parla il vostro Disc Jochey, Cicciu rock roll…” eravamo appena agli inizi.
Nella foto, Un Logo dell'Accademia della Crusca
Pubblicato su La Sicilia del 16.01.2022
POLITICAMENTE "CORRETTO"
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- Creato Mercoledì, 08 Dicembre 2021 15:52
- Pubblicato Mercoledì, 08 Dicembre 2021 15:52
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“Munnu ha statu e munnu è”, in questo antico proverbio è racchiuso il segreto della vita che scorre. Ogni cosa è destinata a cambiare. Cosa sarebbe il mondo se tutto rimanesse uguale per sempre? Il tempo passa, le generazioni si avvicendano ma ciò che rimane come una impronta genetica sono gli usi e i costumi. Si tramandano da padre in figlio. Ogni popolo ha le proprie, per la loro conservazione si lotta e si resiste a ogni tentativo di assalto. Un tempo erano guerre e rivolte popolari a determinarne in parte i cambiamenti, oggi è il sistema delle comunicazioni che avendo accorciato tutte le distanze, ha causato cambiamenti molto più rapidi di quanto non avvenisse prima. Quello che sta accadendo oggi nel mondo occidentale con il cosiddetto “politicamente corretto” rientra nel tentativo di soppiantare le vecchie abitudini sostituendole con altre radicalmente diverse. Si cerca di imporre una nuova educazione; ammesso che si tratti davvero di vera educazione. Anche questa è una “guerra” scatenata contro chi non ci sta; i modelli proposti sono duri se non impossibili da digerire. Per certi versi assurdi perché tendono a sovvertire i più elementari principi della natura. Cadono antichi tabù per instaurarne altri. Si abbattono le statue degli uomini famosi che hanno fatto la storia; la separazione tra i sessi viene messa in discussione. Una rivoluzione fortunatamente combattuta solo a colpi di “opinioni”. Tanto che quello dell’opinionista televisivo è diventato un mestiere ben remunerato con tanto di fans al seguito dell’una e dell’altra parte. Una volta venivano impiegati solo per commentare i risultati di calcio; si diceva e si dice ancora che in Italia esistono almeno una cinquantina di milioni di commissari tecnici. Dalla politica alla letteratura, dalla medicina al giornalismo, ciascuno nel proprio campo professionale sciorina liberamente il proprio pensiero. E più parlano e più confondono le idee, generando il sospetto che il mondo stia correndo spedito verso quella torre di Babele di biblica memoria. Nel caso dei “virologi” l’uomo della strada si domanda: “Ma ‘a cu’ ‘a cririri??!!”. “Signuri mei, non c’è chiù munnu!….’a unni semu arrivati!…Masculi ca si vestunu ‘i fimmina; paroli ca s’ann’a misurari; …non si nni po' chiù: ….di stu passu, cu’ sapi unni jemu ‘a finìri!!!” è il commento degli opinionisti nostrani. Sugli autobus, alla pescheria come alla fiera di piazza Carlo Alberto, non si parla d’altro. Attempati signori e non solo, dicono la loro. Lo fanno anche davanti ai microfoni, quando il giornalista di turno li intervistano. Alcuni cercano di ostentare un lessico un po' più forbito; altri si lasciano andare liberamente alle battute ironiche che in poche parole esprimono concetti tutti da interpretare. “Vax, no-vax, terrapiattisti, complottisti e cumpagnia bella, …non si nni capìu cchiù!…tutti contro tutti. Ci su Malifrùsculi priparati” osserva qualcuno. Dove per “Malifrusculi” si intende quei diavoli invisibili dal fascino perverso e irresistibile che, secondo le antiche credenze, andrebbero in giro istigando gli uomini e le donne al peccato e alla lussuria. Da qui l’usanza il 2 di febbraio giorno dedicato alla purificazione, di tenere aperte le abitazioni per farli uscire qualora ce ne fosse qualcuno a seminare discordie in famiglia. Ma tra un parlottare e l’altro, c’è chi sostiene ca “su tunnàssunu l’antichi, scappàssunu di cùssa macari versu ‘o ‘nfennu” pur di sfuggire a un mondo che non riconoscerebbero più. I tempi antichi hanno il sapore della nostalgia. Sono ancora in molti a rimpiangerli. Meno male. Tra i temi più sensibili, c’è la scomparsa dei vecchi mestieri. Il progresso li ha fatti sparire quasi tutti. Sono stati sostituiti da altre attività meno faticose ma anche più redditizie. Soprattutto il campo artigianale è stato particolarmente interessato. Fino ai primi anni di questo secolo, ancora c’era chi faceva il pane in casa. Questo lavoro veniva prevalentemente svolto dalle donne. Anziane signore che si alzavano alle prime luci dell’alba per “scanare” nella “maidda”( impastato io di legno) il paneimpasta da cui fare uscire “forme”(vasteddi e cucciddati) particolarmente gustose. Consumate calde con olio e pepe nero, una vera delizia. Di vecchi artigiani ne sono rimasti pochi; si va per la totale estinzione. Gli attuali parrucchieri erano i barbieri di una volta. Loro erano tuttofare. Esperti nelle arti mediche, cavavano i denti e applicavano le “sagnette”( sanguisughe) nelle braccia di chi soffriva di ipertensione.Erano anche musicisti. Gli scalpellini che modellavano le Basole da impiantare nelle strade sono completamente estinti. Così come i “banniaturi”(banditori). L’ultimo è stato avvistato negli anni ’60, tra le viuzze del quartiere San Berillo. “Vanniava” con la caratteristica voce stridula ma potente per reclamizzare la merce degli ultimi esercenti rimasti in zona.
Nella foto: alla maniera dei Talebani, in Occidente si tende ad abbattere le statue degli uomini illustri.
Pubblicato su La Sicilia del 5 Dicembre 2021
ASTERISCHI CON TANTI E INTERROGATIVI
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- Creato Mercoledì, 01 Dicembre 2021 13:14
- Pubblicato Mercoledì, 01 Dicembre 2021 13:14
- Scritto da Santo Privitera
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Non bastavano gli esterofilismi nella lingua italiana, né le abbreviazioni acronimi delle parole, adesso entrano nel campo linguistico pure gli asterischi di genere. E’ di questi giorni la notizia secondo la quale una scuola piemontese ha deciso di utilizzare per tutte le comunicazioni( collettive o individuali, esterne o interne, dalle circolari agli eventi) l’asterisco alla fine delle parole al posto del maschile o femminile. Una decisione che, in linea con quanto dettato dal cosiddetto “politicamente corretto”, ha gettato non poco scompiglio nel modo dell’istruzione. Alla base ci sarebbe la volontà da parte dei suoi sostenitori, di contrastare una certa tendenza linguistica discriminatoria atta ad avvantaggiare il sesso maschile. E dire che la scuola in questione, il liceo classico Cavour di Torino, è nota per avere annoverato tra i suoi allievi numerosi personaggi illustri: dall’economista e secondo presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi, ai poeti Guido Gozzano e Cesare Pavese. Una questione di non poco conto se si considera che quello della lingua, è stato sempre considerato in Italia un argomento di grande rilevanza storico-sociale. “Ogni testa è ‘ntribunali”, è vero. I sostenitori sono convinti di risolvere in questo modo tutto ciò che attiene ai conflitti mai sopiti tra generi diversi. Stavolta però si è davvero esagerato. Molti sostengono addirittura che si stia sfiorando il ridicolo. Le questioni tecniche sembrano aver ceduto a quelle ideologiche. Questo non è per niente rassicurante. Un “ingresso” a gamba tesa, quello degli asterischi di genere, che suscita tanti interrogativi. Se si voleva aggiungere altra confusione alla già complicata vita dell’istituzione scolastica, ecco fatto. La levata di scudi della gran parte di istituti scolastici piemontesi e non solo, è stata immediata: “Giù le mani dalla Lingua italiana!”. “Chissà cosa avrebbe dichiarato Dante Alighieri se fosse stato in vita”, è questo il commento di chi non ci sta a fare orecchi da mercante di fronte all’ennesimo tentativo “di lana caprina”. La lingua italiana gode di alto gradimento nel mondo, perfino più di quella francese. Con tanti problemi che ci sono da risolvere nel Paese, simili iniziative lasciano il tempo che trovano. Nell’anno delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della scomparsa dell’illustre fiorentino, viene spontaneo pensare che quella dell’asterisco di genere sia solo una “trovata” provocatoria se non addirittura pubblicitaria. Ripercorrendo dall’origine le tappe della formazione della lingua italiana, è nota innanzitutto la sua derivazione dal latino. Ma allo stesso tempo non si può non fare riferimento alla scuola poetica siciliana di Federico II Svevia. Lo stesso Dante affermò per primo che fu la lingua siciliana ad influenzare fortemente quella toscana. Dal momento che lo “stupor mundi” aveva attirato all’interno della propria corte le migliori intelligenze letterarie dell’epoca, facile che ciò accadesse. L’avvicendarsi delle varie dominazioni, dalla Sicilia crocevia di popoli al centro del mediterraneo, è servita al resto del Paese come arricchimento linguistico e culturale. A distanza di secoli, nel corso dei quali l’evoluzione linguistica è andata di pari passo con quella sociale, chi lo avrebbe mai detto che a scuotere le nostre certezze linguistiche doveva essere nientemeno che il “sesso”. “Macari ddocu?!!…Avrebbe obiettato l’uomo della strada. Sesso in senso grammaticale, ovvio. Alberto Manzi, il celebre maestro che con la sua fortunata trasmissione televisiva “non è mai troppo tardi” andata in onda negli anni ’60 si era prodigato per alfabetizzare gli italiani, si starebbe rivoltando nella tomba. Da tempo si cerca di dare una definizione univoca di “linguaggio giovanile”, così come si cerca di comprenderne le dinamiche nell’ottica dei nuovi strumenti di comunicazione di massa sempre più sofisticati. Meglio continuare a trattare queste tematiche piuttosto che complicarsi la vita su false questioni. A proposito di asterischi, un interrogativo: come fare a conciliare la scrittura con la fonetica? i commenti dei catanesi qui non si sono fatti attendere. Concreti come sempre. “Vih che bella,… ora macari chista….Chi veni a diri ca ppi scriviri fimmina o masculu c’haja mettiri ‘u puntino vicinu?…. E quannu haja ‘a parrari?….haja sminnittiari i paroli??!! Risposta: “Pap* non dir* sti cos*; su tu dic* to’figghi* ci po’ calar* ‘a past*!”
Pubblicato su La Sicilia del 20.11.'21
CARMELO FURNARI
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- Creato Domenica, 07 Novembre 2021 13:53
- Pubblicato Domenica, 07 Novembre 2021 13:53
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Purtroppo la notte del 3 novembre ci ha lasciati il poeta e critico letterario catanese Carmelo Furnari( nella foto). Perdiamo un carissimo amico e cultore della poesia(Nella foto, mentre da raffinato lettore di cose dialettali, recita una lirica). Attento e scrupoloso, allestì le biografie di tantissimi poeti dialettali altrimenti votati all’oblio.Con lui se ne va la memoria storica della poesia siciliana e catanese in particolare, colui che visse in prima persona 60 anni di intensa attività culturale etnea. Addolorato, porgo alla famiglia le mie più sentite condoglianze personali e di tutti gli amici del Centro culturale V. Paternò-Tedeschi che seguirono con estremo interesse le sue dotte conferenze ivi svolte. I funerali, mi informano, previsti per venerdì p.v. ore 16.00 a Catania, Chiesa San Pietro e Paolo, di via Siena.R.I.P.
Questo pomeriggio abbiamo dato l'ultimo saluto al poeta Carmelo Furnari, deceduto lo scorso mercoledì. Una cerimonia semplice, ma molto partecipata proprio come avrebbe voluto lui. Con lui se n'è andato un gentiluomo di vecchio stampo; un archivio vivente, un amico che non faceva mai mancare il suo supporto ogni qualvolta lo si interpellava. Con lui era un continuo scambio di informazioni utili ai fini della maggiore conoscenza della letteratuta dialettale siciliana e catanese in particolare. Egli dall'alto della sua esperienza sessantennale trascorsa tra i centri culturali del periodo, conosceva uomini e cose. I suoi aneddoti erano il frutto di tanta frequentazione letteraria. Aveva conosciuto il fior fiore dei poeti, quelli più celebrati; ma non per questo trascurava quelli di minore importanza: anzi di molti di loro ne tracciò perfino la biografia. Per lui non esistevano i poeti di serie A o di serie B, esistevano semplicemente i POETI. Da Carmelo che adesso non c'è più fisicamente, non sentiremo più declamare le poesie degli altri ma saremo noi a declamare le sue. La sua figura resterà nei nostri cuori e nei nostri ricordi. Ha solo saltato la barricata. Continuerà a essere dei nostri. Rimarrà con noi a parlare di poesia come faceva sempre.
GIACOMO DI BARTOLO
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- Creato Martedì, 14 Settembre 2021 07:39
- Pubblicato Martedì, 14 Settembre 2021 07:39
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“E cu parra Bartulu? Un’espressione che abbiamo sentito pronunziare chissà quante volte anche se il vero significato si sconosce. Si usa quando qualcuno, a fronte di un invito o di una richiesta ricevuta, fa finta di non capire. Per dirla alla catanese: “Quannu ‘ri dd’aricchia non ci senti e fa lo gnorri”. Eppure il personaggio che lo ha ispirato, Giacomo Di Bartolo( Catania 1797-1863), non era uomo di poco conto; anzi era “ ‘Ntisu”, ovvero molto conosciuto e rispettato a Catania. Era un uomo capace di farsi ascoltare e ubbidire. Una figura leggendaria rimasta purtroppo nota più per questo celebre aforisma che per i reali benefici politici apportati alla città. Basti pensare ai servigi prestati ai suoi concittadini durante il terribile colera scoppiato nel 1837. Ebbe le idee chiare e fu per tutti esempio di rettitudine e onestà. “Chi lotta per una giusta causa”-diceva- “deve potere manifestare per affermare le proprie ragioni”. Il Di Bartolo fu tanto amante delle libertà quanto spietato nemico di ogni disordine. Propose perfino la pena di morte per gli agitatori sociali e gli anarchici dediti a fomentare rivolte senza una vera e propria ragione, senza un preciso nobile obiettivo. Il suo grande amore per la Patria, il fascino che esercitò sulla folla, furono doti straordinarie. Il detto che conosciamo, avrebbe potuto avere tutt’altro significato; sarà stato “ribaltato” forse per quello spirito di contraddizione “patrimonio” genetico dei catanesi. Giacomo Di Bartolo fu patriota prima, e amministratore pubblico dopo. Nel periodo dell’Unità d’Italia ricoprì il ruolo di responsabile dell’annona. Questa carica equivale all’odierno assessorato alle attività produttive. Si distinse per la sua abilità oratoria, riuscendo a mettere d’accordo anche i più acerrimi contendenti. Ebbe un ruolo importante nella storia risorgimentale di Catania. Perfino l’austero principe Carlo Filangieri di Sartriano, generale borbonico che nel 1849 comandò le truppe responsabili degli orrendi massacri compiuti per la riconquista della città, ebbe per lui parole di elogio. All’arrivo di Garibaldi in Sicilia, nel 1860, mentre i Borboni battevano in ritirata, il generale Clary in persona affidò al Di Bartolo le sorti della città. A parlarne furono i cronisti di allora: Antonino Cristadoro( cronista ante-litteram) in primis. Successivamente si occuparono di lui storici, giornalisti e studiosi del calibro di Vincenzo Finocchiaro Speciale, Saverio Fiducia, Guglielmo Policastro, Francesco Granata e Domenico Magrì. Ciascuno di loro riferì testimonianze apprese dalla viva voce di quanti lo conobbero personalmente. La sua virtù più importante fu la speciale capacità di tenere a freno i rivoltosi nei momenti di maggiore tensione. Lui, grande e grosso com’era, occhi fiammanti e una folta barba che gli copriva quasi totalmente il volto, incuteva paura. Con il suo temperamento sanguigno, arringava la folla ottenendo d’imperio l’immediata obbedienza. Non era uomo di studi ma si era formato “sulla strada”. Di idee liberali, mise al centro della propria vita la sua grande passione per la politica. Soldato al comando di Ferdinando I di Borbone, fu nel 1820 assegnato all’arma della Cavalleria. A Le sue avventure militari furono rocambolesche; rischiò più volte la fucilazione. Combattè in Francia, Spagna, Inghilterra e nell’America del nord. Diventò molto ricco grazie al cospicuo lascito di una nobildonna. Rientrato a Catania, donò a Sant’Agata una preziosissima perla scaturita proprio dall’eredita ricevuta. Alla sua morte, a Catania fu lutto cittadino. A Ricordarlo, la commedia “Bartulu”, Tre atti di Saverio Fiducia; una via del centro storico catanese; un dipinto del pittore Giuseppe Gandolfo(museo civico del Castello Ursino)e un busto marmoreo al viale degli uomini illustri della villa Bellini, pregiata opera dello scultore Francesco Licata, morto all’età di trentotto anni mentre restaurava la statua della dea Cerere(‘A Tapallira do’ buggu!).
Nella foto, Giacomo Di Bartolo
Pubblicato su La Sicilia del 5.9.'21