Storia e tradizioni popolari

LE ANTICHE FIERE DEL BESTIAME IN SICILIA

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Molte città italiane oggi sono invase dai cinghiali. Pascolano tranquillamente nei cassonetti stracolmi di spazzatura. Tra le auto e in mezzo alla gente ormai diventata indifferente. Qualche scatto fotografico e un video da postare sui social per documentare ciò che sta diventando “Normale”. Intere famiglie di animali selvatici scendono dai vicini boschi, dalle campagne, dopo avere devastato ettari di terreno coltivati a vigneto o a ortaggi. I cuccioli al seguito dei genitori suscitano perfino un po' di tenerezza. Qualcuno gli offre incautamente del cibo. Il disappunto dei contadini costretti a fare la quotidiana conta dei danni, in questi casi diventa rabbia. Gli allevatori di maiali temono l’esplodere della “peste suina”; troppe sono le carcasse dei cinghiali morti rinvenuti nei campi di pascolo. A seguito della ferrea opposizione degli animalisti, risulta difficile abbatterli; la situazione resta così in fase di stallo. Siamo “nell’era del cinghiale”ironizza qualcuno. Davvero uno strano fenomeno quello dei suini selvatici che si riversano nei centri abitati. La grande quantità di spazzatura ammassata per strada, li attirerebbe. Non si esclude neanche la mancanza di alcune specie di “predatori” già in via di estinzione. Sembriamo essere tornati indietro nel tempo, quando per le strade dei piccoli centri rurali come nelle città, si svolgevano le “Fiere del bestiame”. Una questione esclusivamente commerciale. Allevatori, contadini, macellai ma anche privati cittadini si riversavano nei centri abitati per vendere o scambiare i propri animali ( asini, muli, cavalli, vacche, pecore capre e altro ancora). La contrattazione avveniva tramite “ ‘u sinzali“(mediatore). Il linguaggio convenzionale era “‘u baccagghiu “, tipico del commercio popolare. Il “tira e molla” poteva durare anche ore. “Avanti, ci rassi tri catti e non nni parramu chiù;…’a crapa è da so!”. Ad affare concluso, ammiccamenti e strette di mano. Poi al mediatore “gli facevano “abbagnari ‘a ucca”; ovvero gli elargivano una piccola somma di denaro quale compenso. Fino agli anni ’80 questa pratica era ben viva. Anche oggi in alcuni centri dell’entroterra isolano resiste. Gli accorgimenti sanitari non sono più quelli dell’Ottocento. A quell’epoca il “traffico cittadino”, anche se non esistevano le automobili, era ancora più intenso di oggi. Le stradine erano quasi tutte strette. Si andava a piedi o a cavallo. Cocchieri e carrettieri il “limite di velocità” lo rispettavano. Solo i conducenti degli omnibus a quattro cavalli a volte esageravano nella corsa. Lo facevano solo per la fretta di colmare i ritardi. Gli autisti di oggi fanno lo stesso. I tempi e orari scanditi dai cittadini erano diversi dai nostri. Sconosciuta era a quel tempo la parola “smog”. Paradossalmente, lo sterco fumante dei cavalli, con il suo odore penetrante risultava un potente “espettorante” per chi era affetto da patologie polmonari. L’unico problema era il disordine che regnava in ogni angolo di strada e della melma causata dalle urine stagnanti degli animali. Non era cosa da poco. Da qui le frequenti epidemie che esplodevano all’improvviso. La mente ci riporta a un curioso fatto storico accaduto a Catania nel primo ventennio dell’800. Per evitare che le greggi venissero fatte transitare per il centro storico, mil senato cittadino fu costretto ad intervenire. Troppi erano gli animali “vaganti”. Adducendo motivi igienici, emanò un severo bando con il quale dava il “via libera” all’abbattimento degli animali commestibili vaganti per la città. Pecore, buoi, mucche, maiali e galline soprattutto. I cacciatori si misero subito a lavoro. L’utilità del provvedimento consisteva nel fatto che la carne della “preda” abbattuta, doveva essere confiscata ed equamente distribuita: Una parte andava al cacciatore, l’altra rimaneva invece in possesso dell’amministrazione senatoriale. A beneficiarne, in questo caso, furono le famiglie in estrema povertà. Alla distribuzione contribuì la chiesa che conosceva benissimo lo stato di indigenza dei “Chistiani”. In poco tempo, pastori e commercianti si guardarono bene dal contravvenire alla disposizione. L’itinerario subì una drastica variazione. Le attività vennero tutte dirottate verso la campagna. Nelle strade ancora in gran parte a fondo naturale, restava solo lo sterco lasciato dai muli dei carrettieri e dai cavalli adibiti al pubblico trasporto. Alla pulizia del “fondo stradale” provvedevano i “Fumarara”, uomini dediti a raccogliere gli escrementi equini che poi rivendevano per fertilizzare gli orti esistenti in città. Questo mestiere scomparve con l’avvento dei mezzi motorizzati.

 

Pubblicato su La Sicilia del 5.09.2022

LA TRISTE VICENDA DI CUNCETTU CADDOZZU

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La guerra in Ucraina, gli aumenti indiscriminati di tutti i prodotti, l’inflazione galoppante, la siccità e…chi più ne ha più ne metta; in Italia non si parla d’altro. La recrudescenza del coronavirus con sue aggressive varianti, per quanto in evidente aumento, è passata in secondo piano. Il rischio della “chiusura” sembra ormai lontano; resta però la temuta opzione di tornare a indossare “per decreto” la mascherina all’aperto. Il senso dell’umorismo sembra soccombere di fronte a tutto quello che ci sta capitando attorno. La benzina ha superato il prezzo del vino. Chi lo doveva dire? A Catania, la spazzatura si accumula invadendo perfino le carreggiate stradali. Vedi Napoli e poi muori?..no! “Vedi Catania come si è ridotta!…” Ma guarda cosa ti va a capitare proprio nell’anno in cui nel capoluogo etneo si registra un vero e proprio boom di presenze turistiche! A finire immortalati nelle foto e nei filmini, oltre ai monumenti di grande pregio che ricordano la storia catanese, saranno i cumuli di immondizia presenti nel Centro storico. Nelle periferie è peggio. Ironizza qualcuno suoi social: “ Se non fosse per la puzza, tutti quei sacchetti stracciati e variopinti che si notano negli angoli delle strade, potrebbero stuzzicare la fantasia degli artisti”. I temi, ovviamente, sono quelli riguardanti la pulizia e il decoro che in una moderna città europea non dovrebbero mancare. Ma sì, ridiamoci sopra. “Il riso fa buon sangue”, per questo la liscìa catanese, cosa che non capita in molte altre le città dell’isola, è direttamente proporzionale ai disagi patiti. Fosse stato vivo la buon’anima di “Pippo pernacchia”, proprio in questo periodo avrebbe dato vita ai suoi migliori “concerti”. I luoghi non gli sarebbero certamente mancati. Neanche i motivi. Oggi si dice: tutti “sperti” siamo. L’istruzione, la televisione e i social, con la loro capillare azione hanno “aperto gli occhi” anche al più ostinato dei retrò. Non si può dire che vi siano più in giro personaggi che un tempo venivano considerati “ ‘Ntòntiri”, ovvero creduloni. Giufà, il vero capostipite degli “sprovveduti” è veramente morto per sempre. La sua tomba si trova nel libro delle fiabe che non esiste più. Il personaggio siciliano amato dai bambini ma anche dagli adulti, sembra essere stato totalmente rimosso dalla memoria collettiva. Eppure sulla sua figura esiste una copiosissima letteratura che a quanto pare non attrae più. Giufà ha lasciato il posto a una tipologia linguistica diversa, più esplicita; forse anche più offensiva. “Sciocco” “ammucca lapuni”, “ammucca passuluni”, “tabbobbu” “Tofulu”, è quello che si sente maggiormente dire all’indirizzo del malcapitato di turno. Nella versione catanese, Tofulu è un personaggio che sembra vivere un mondo parallelo a quello reale. Comprende le cose al contrario. Non si discosta molto da Giufà.” Rispetto a quest’ultimo, però, è più sedentario, meno operoso, perciò destinato a combinare meno guai. Nella versione catanese, Tofulu diventa “Turulifu” che nella variante più moderna diventa a sua volta “Miciu ‘da linia”. Quest’ultimo rappresenta la misura esatta della “Menzaquosetta”, ovvero di una persona maldestra e perfino pericolosa. La menzaquosetta, è capace di qualsiasi “impresa”. Una figura destinata a portarla sempre a “sbianchimento”. Insomma, il nulla totale. Siamo ben lontani dalla tipologia antropologica di “Sciasciana” memoria. In questa casistica non rientrano i cosiddetti “Buonaccioni”, personaggi invece perfettamente calati nella realtà. Spesso risultano incompresi perché il loro modo di agire è quasi sempre fuori le righe. E’ il caso di citare uno di questi, vissuto a Gravina di Catania negli anni ’50. Lo chiamavano “Cuncettu caddozzu”. (Caddozzu= salsicciotto). Faccione rubicondo e corporatura “tracagnotta”. Aveva braccia e gambe simili a salsicciotti. Da qui il nomignolo(caddozzu=salsicciotto). Un personaggio da libro cuore. Era il trastullo di tutti i ragazzi del paese. A lui si ricorreva solo quando serviva la sua forza erculea. Gli facevano fare la “Cazzicaledda”, il “gioco del cavaddu”. Durante la festa di San Giuseppe, era imbattibile nel il “gioco della pentolaccia”. L’uomo viveva con la madre in condizione di indigenza assoluta. Quando la donna morì, si trovò nelle condizioni di non potere affrontare le spese per il funerale. Fu allora che Cuncettu caddozzu stupì. Caricata sulle proprie spalle la bara contenenti le spoglie della povera defunta, si avviò verso il cimitero. Lungo tutto il tragitto, lo seguì solo un mesto e silenzioso drappello di piccoli fedeli amici. “ La vigghiau sulu cu li stiddi”-scriverà in seguito il poeta gravinese Mario Ferrara(tra i partecipanti alla triste processione)-“ ‘nzemi a mazzi di ciuri di carta/pi dari culuri a lu jancu linzolu”(…). (Cuncettu caddozzu).

 

Pubblicato su La Sicilia del 03.07.'22

 

BENEDIZIONE QUATTORDICESIMA CANDELORA AGATINA

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Festa grande alla Civita. Per tutta la serata si è respirata aria agatina. Nella chiesa di San Francesco Di Paola, con una messa solenne presieduta dall’arcivescovo Mons.Luigi Renna, è stato benedetto il “Cereo devoti di S.Agata”. Si tratta della quattordicesima candelora che dal prossimo 17 Agosto potrà così partecipare a pieno titolo alle tradizionali processioni agatine. Il nuovo cereo è imponente. In stile barocco siciliano, ha quattro ordini recanti scene del martirio e altre immagini sacre poggianti su una ricca base sorretta da quattro cherubini. La pregiata opera del maestro Giovanni Sessa, si slancia per un’altezza di circa 5 metri. Alla sommità, un serto floreale coronato da ex-voto. Il peso di oltre 700kg necessita la presenza di otto robusti portatori. Già lo scorso febbraio aveva fatto il suo esordio, ma solo tra le antiche mura della chiesa presso cui è custodita. Quella volta ci si è dovuti accontentare solo di esporla all’ammirazione dei fedeli. La benedizione, oltre che dalla chiesa, questa volta arrivata anche dal comitato agatino presente alla cerimonia; con la presidentessa Mariella Gennarino che ha fatto da madrina. Un riconoscimento al  lavoro svolto dai promotori, con in testa il presidente Emanuele Calì e del suo vice Agostino Zanti, ma anche per il popoloso quartiere della Civita dove, secondo la storia, la Vergine e Martire Agata avrebbe avuto i natali. La parrocchia dedicata a San Francesco di Paola protettore dei marinai, grazie all’opera certosina del parroco don Giuseppe Scrivano coadiuvato da un gruppo di validi collaboratori, da qualche anno a questa parte è diventata punto di riferimento essenziale per il quartiere. Proprio quello che ci voleva in questo borgo marinaro dove ancora si annidano grosse sacche di povertà. Dal teatro allo scoutismo, dal doposcuola all’attività pastorale, è tutto un fiorire di iniziative dove i giovani hanno un loro ampio spazio. Nel corso della cerimonia religiosa svolta alla presenza delle autorità civili e militari, dell’autorità portuale, dei club services, dei cavalieri di Malta e animata dalla corale polifonica “San Giorgio” diretta dal M°Giovanni Raddino, l’arcivescovo ha avuto parole di elogio. “La nuova candelora”-ha detto tra l’altro nella omelia-“contiene dei simboli significativi; deve perciò essere posta al centro di tutti i buoni propositi”. Il nuovo cereo, seguito dalla banda musicale, dagli sbandieratori di Motta Sant’Anastasia e dai numerosissimi fedeli che sin dalle prime ore del pomeriggio affollavano il piazzale della chiesa, è stato fatto sfilare lungo le principali vie del quartiere fino a piazza dei martiri. Nel palchetto allestito sotto la Statua che ricorda il celebre miracolo agatino del 1743, alla consegna di premi e attestati di riconoscimento, ha fatto seguito uno spettacolo musicale. I fuochi pirotecnici inizialmente previsti, non hanno avuto luogo per la mancanza delle necessarie autorizzazioni.

Nella Foto, la benedizione del nuovo cereo.

Carretto e carrettieri

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 Si trovano nei bazar, in bella mostra nei bar e perfino in qualche salotto nobiliare; parliamo dei carrettini siciliani in miniatura. Assieme al ficodindia, al pupo e alla trinacria, è simbolo della sicilianità. Per i turisti che visitano l’Isola, è forse il souvenir più apprezzato. I carretti, quelli veri, possiamo invece ammirarli esposti in qualche museo o durante le sfilate che di si svolgono nelle stagioni più calde. Non c’è immagine pubblicitaria dell’Isola dove il carretto siciliano non compaia seguito dalla canzone “Ciuri ciuri”. La sua presenza non va considerata solo in chiave folcloristica, ma come pura espressione culturale. Infatti assomma a sé il carattere di tutto un popolo. Rappresenta al tempo stesso, gioia, accoglienza e operosità dei siciliani. A completare il “quadretto”vi sono i suonatori che con i loro tipici costumi, gli strumenti a corda, a fiato e a percussione, lasciano una scia di sano buon umore. Vista da vicino, la sfilata dei carretti siciliani è sempre spettacolare; un evento assolutamente da non perdere. Quello del carrettiere è un mestiere antico quanto il mondo. Un un mestiere duro, faticoso, paziente e silenzioso, che l’uomo condivideva solo con il suo animale da soma. Il carrettiere trasportava di tutto. Quando “scattiava ‘a zotta”(frusta), “ ‘a cravaccatura”( l’equino) capiva che doveva partire. Gli escrementi dell’animale venivano poi utilizzati negli orti come fertilizzante. Il cosiddetto “stallatico” è un ottimo concime ancora oggi in uso. Un tempo veniva raccolto per strada dal “fumararo” che lo ammonticchiava prima di rivenderlo. Romantico, scanzonato e un po’ poeta, questo era nell’immaginario collettivo il volto del carrettiere. Qualche volta sapeva anche essere violento. Verga, nella sua Cavalleria rusticana, lo raffigurò al naturale. I lunghi viaggi sotto le intemperie, lo costringevano a periodi di rassegnata solitudine. Così il canto e la poesia diventavano i migliori compagni di viaggio. Componeva versi senza saperlo. Nulla di scritto lasciarono i carrettieri, perché erano quasi tutti analfabeti. I pochi frammenti che si conservano, sono tutti per “sentito dire”. Nei primi del ‘Novecento, alla Barriera, un noto carrettiere meglio conosciuto con il nomignolo di “Munniali”, recitava strada facendo le sue “chilometriche” composizioni dai temi bizzarri. I ragazzi lo incitavano per ascoltarle dalla sua viva voce. “Zzu Pippinu,…chi ffá, puisii nenti oggi!?….. E lui: “Stu sciccareddu di lu sangu puru/forti mi fa parrari e sempri chiaru/di tutti li ‘mprisi so sugnu sicuru,/ pettu di ferru e carina d’azzaru”(…). Scrittori, poeti e musicisti rimasero affascinati dalla figura quasi mitologica del carrettiere. Da qui la nascita di tutta una vasta letteratura in parte sconosciuta. Lo zoccolare ritmico del cavallo, era “musicale”. “Ah Tira, mureddu miu, tira e camina/ eh, ca l’ura è tarda e a casa è luntana./Eh ccu lu sgrusciu di li roti e la catina/ ti cantu ‘na canzuna paisana”(…)(Tira mureddu miu). Sono i versi di un’antico brano appartenente al repertorio tradizionale siciliano. La prima descrizione del carretto siciliano risale al 1833, compare nel resoconto di un viaggio fatto in Sicilia dal francese J.B. Gonsalve de Nervo. A incuriosirlo, furono soprattuto i colori, le sponde istoriate e tutti quegli elementi decorativi che lo impreziosivano. Di solito le scene erano d’argomento religioso, leggendario oppure cavalleresco. La pittura del carro, assolve diverse funzioni: protettiva del legno, ma anche magico-religiosa per allontanare ogni possibile negatività. Il pittore Santantonese Domenico Di Mauro ( Minicu)scomparso nel 2016 alla veneranda età di 103 anni, fu uno dei più illustri artisti in questo campo. Per creare un’opera artigianale così complessa, occorre impegno e abilità. Tre sono le figure professionali che collaborano: Il carradore, colui che assembla le parti lignee; il fabbro( ‘u firraru) il quale realizza boccole e meccanismo per la funzionalità delle ruote. Per ultimo, l’intagliatore che oltre alla scultura cura le pitture. Prezioso è il carretto, ma anche la bardatura del cavallo. Finimenti e cinghie ornate di specchietti, sonagli, piastrine, fiocchetti multicolori, pennacchi, galloni, frange e cianciane. Oggi sono pochi i cultori del carretto siciliano, ma nelle zone dell’acese e nei paesini alle falde dell’Etna, la tradizione è ancora viva. Viene tramandata da padre in figlio. Proprio in questi giorni è in corso a Trecastagni la “Festa ‘de Tri Santi”( Alfio, Cirino e Filadelfo). Questo evento, oltre alla profonda devozione dei fedeli verso i tre santi martiri, offre uno spettacolo folkloristico di grande effetto.

Nella foto, il carretto siciliano,

Pubblicato su La Sicilia dell'8.05.'2022

ANTICHI TOPONIMI CATANESI

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Un’altra città era la Catania di una volta. E non soltanto perché nei secoli si è estesa in tutte le direzioni, ma per la sua “duttilità” urbanistica. Dal Camastra al Vaccarini; Dall’Ittar al Gentile Cusa; dal Fichera al Lanzerotti, Catania potè vantare i migliori architetti presenti sulla piazza. Non è un caso se la città di Adelaide, in Australia, sia stata costruita ricalcando proprio il suo modello. “Melior de cinere surgo”(risorgo sempre migliore dalle mie ceneri) è un motto latino linguisticamente ormai comune ai catanesi. Perfino “abusato” se consideriamo che è stato riesumato con le ultime vicende legate al calcio Catania. Calamità naturali a parte, la mano dell’uomo, nel bene o nel male, ha avuto la sua dose di responsabilità. “Ma Catania era chista, na vota?” È la domanda ricorrente che ogni buon cittadino si pone allorquando scopre qualcosa di nuovo che prima non conosceva. Il raffronto tra le varie epoche emerge dalle curiosità toponomastiche. Impossibile citarle tutte ma ne ricordiamo appena qualcuna. Quasi tutto il Centro storico era un “Pianoro” che dalla “Platea magna” o “piano di Sant’Agata” attuale piazza Duomo, si estendeva, passando per il “piano degli Studi”, fino alla “Porta di Aci”. La strada di collegamento era la “via della Luminaria” poi “Stesicorea” prima di diventare “via Etnea”. “Dritta come un dardo da piazza Duomo al Tondo”- scriveva negli anni ‘30 lo sceneggiatore Leo Mezzadri-“lungo le pendici sale una delle più belle strade al mondo”. Rivangando tra le vecchie denominazioni scomparse delle strade cittadine, incontriamo “ ‘U chianu ‘I Sanfilippu( piazza Mazzini); ‘U chianu ‘i Nicosia( San Berillo); “ ‘U chianu ‘de minzogni”( piazza Palestro); “Piazza dei cereali”( San Francesco all’Immacolata); “Vico delle fosse”( v. Sant’Euplio); “ ‘U chianu ‘i malati” (piazza Bovio); “ ‘U chianu ‘i l’ovvi”(piazza Sciuti); “Via fossa dell’arancio”( via M.R.Imbriani); “Piazza del Campanaro( piazza San Placido); “Via degli Archi”( v.Antonino Longo); “Piazza dei Solichianeddi”(piazza San Francesco di Paola); “Chianu ‘i Novaluci”( piazza Teatro Massimo). Di quest’ultima contrada ricordiamo una famosa poesia dI Nino Martoglio scritta per una ragazza della quale si era invaghito. Di lei si conosce solo il cognome: Fragalà. “Sutta lu Ponti, attàgghiu Novaluci/a manu ‘ritta, quasi a’ cantunera…/ ci sta ‘na picciuttedda custurera,/ figghia di l’arma mia, chi cosa duci!(…)( ‘A custurera). Il ponte al quale il poeta Belpassese si riferiva, esisteva davvero. Visto il notevole dislivello, serviva per l’attraversamento tra piazza Teatro Massimo e v. Lincoln ( via Di Sangiuliano). Una città sempre viva che “ ammuttuni o ‘a ruzzuluni”, ha saputo cambiare pelle cercando di stare al passo con i tempi come meglio ha potuto. Oggi il completo recupero del monastero benedettino è un stupenda realtà. E la sua chiesa? Quella che una volta veniva considerata “la chiesa della caserma” oggi sta per diventare un luogo museale di tutto rispetto. Manca ancora un vero progetto in proposito, ma la via sembra ormai tracciata. Essa è tra le più grandi dell’Isola, testimone silente di un glorioso passato in chiaro-scuro. Lo stesso possiamo dire per l’ex convento di San Placido, ribattezzato “Palazzo della cultura” aperto a tutte quelle realtà che esaltano l’arte in tutte le sue forme. C’è tanto ancora da fare. Gli antichi palazzi restaurati che vengono restituiti al pubblico, rappresentano una grande conquista per una città che aspira a diventare una metropoli moderna. Giorni fa la notizia del finanziamento di un progetto che prevede il restauro dell’ex convento di Sant’Agata alla Badia, in via S.M.del Rosario. Un tempo, tutta quella zona, da est a ovest faceva parte del “piano dei Trixscini(Barbieri). Siamo nel cuore della città. Diventerà un Polo socio-turistico. Ci voleva. La struttura veniva da anni utilizzata impropriamente. Negli anni ’50 fu sede del Corriere di Sicilia prima che de La Sicilia e dell’Espresso Sera. In questo pionieristico giornale si sono formate le migliori eccellenze professionali dell’epoca. Particolari ricordi sono stati raccolti in un libro pubblicato agli inizi di questo secolo dal compianto giornalista e scrittore Aldo Motta. Già, via S.M. Del Rosario. Così in uno dei suoi numerosi articoli redatti dal nostro Enzo Trantino: “ Scrivendo senza pretese in aereo o in attesa di sentenze ho reso un servizio alla mia vita prima che al giornale: mi sono rivisitato incontrando uomini non fantasmi. Ed ho provato l’intensa emozione di sentirmi di nuovo abitante di quella leggendaria via della mia giovinezza”(..). (Quelli di v. S.M. del Rosario).

 

Nella foto, Vico delle Fosse( oggi v.Sant'Euplio)

Articolo pubblicato su la sicilia dell'1.05.2021

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