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CATANIA: 'A MARONNA 'RAZIA
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- Creato Sabato, 10 Luglio 2021 11:51
- Pubblicato Sabato, 10 Luglio 2021 11:51
- Scritto da Santo Privitera
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Il culto Mariano a Catania è particolarmente sentito. La Madonna è compatrona della nostra città e ne possiede simbolicamente le chiavi. Basta fare un rapido giro delle chiese e nei santuari del Centro storico per rendersene conto. Ancor più quando assistiamo alle solenni celebrazioni che si svolgono prevalentemente tra giugno e settembre nelle parrocchie consacrate mariane delle periferie. Dalla Madonna del Carmelo( ‘a Maronna ‘o Carmunu) alla Madonna “Bambina” a Ognina; dalla Madonna delle Grazie alla Madonna Santa Maria dell’aiuto (dove è possibile ammirare la fedele riproduzione della “Casa di Loreto” pregiata opera degli architetti Michele e Giuseppe Orlando), è tutto un trionfo di preghiere, folklore e tradizioni. “Ogni festa ‘avi ‘i so’ parrusciani” si dice; come a significare, nella sua accezione più ampia, che la stessa manifestazione religiosa può differenziarsi non soltanto tra una città e l’altra ma perfino tra quartieri vicini. Nei prossimi o giorni è in calendario la festa della Madonna delle Grazie. ‘A Maronna ‘Razia com’è meglio conosciuta a Catania, si celebra il prossimo 2 di luglio di ogni anno. Purtroppo anche quest’anno, a causa dell’emergenza Covid e delle misure restrittive messe in atto ai fini del contenimento del contagio, difficilmente potrà avere luogo la tradizionale processione esterna con il prezioso quadro della Madonna. Saranno però regolarmente celebrate le Sante Messe. Per i catanesi questo giorno è molto importante perché dedicato ‘a Marunnuzza miraculusa; tale infatti è considerata la Madonna delle Grazie. Tradizionalmente si entra nella Cappella per assistere alla celebrazione religiosa; non prima però di avere acceso un cero nell’apposito lucernario posto sul retro dell’edificio che ricade nell’area dell’antico “Foro romano”. “Oltre al fondamentale aspetto religioso”- si legge in uno scritto del compianto studioso patrio catanese Antonello Germanà Di Stefano- “c’è da considerare quello storico”. Il culto della Madonna delle Grazie, con le relative vicende della famosa “porta di mezzo”, è caro alla memoria collettiva popolare. Esso é legato a uno dei miracoli agatini più noti. Nell’agosto del 1232, secondo le narrazioni storiche, l’Imperatore Federico II di Svevia scese a Catania con l’intento di distruggerla e passare a fil di spada i suoi abitanti. Nessuna distinzione di sesso né di età. Tutti. Fu un momento molto triste. La città si era macchiata di disobbedienza e ribellione alla sua autorità. “Lo stupor Mundi”, così era conosciuto il regnante Svevo della casata degli Hoenstaufen, era culturalmente elevato sì, ma anche molto feroce. Guai a metterselo contro. Il segno della sua ferocia è ben evidenziato al Castello Ursino fatto costruire per suo volere. All’interno di una nicchia posta nella facciata d’ingresso, è ancora visibile un simbolo sculturoreo che raffigura l’aquila(Sveva)nell’atto di artigliare un agnello. Catania, espugnata, stava per essere messa a ferro e fuoco. Il popolo terrorizzato si rifugiò nella Cattedrale-fortezza. Il Monarca sembrò imitare così le crudeli gesta del padre Enrico VI. A questo punto, il miracolo. Un giurato, con un gesto tanto disperato quanto coraggioso, implorò pietà. Chiese che prima di procedere all’eccidio, venisse concesso al popolo di assistere all’ultima Messa. L’imperatore esaudì la richiesta ed entrò nel tempio per partecipare al sacro rito. Nello stesso tempo in cui si disponeva a recitare l’officio della Vergine, gli apparirono dal breviario aperto e a carattere di fuoco, le parole ammonitrici: “Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est”( non offendere la Patria di Agata perché vendicatrice delle offese). Il prodigio si ripetè per tre volte. Federico II, colpito e intimorito dal soprannaturale evento, decise di desistere dal suo triste proposito. Revocò la sentenza. Ma affinchè nessuno potesse accusarlo di essere venuto meno alla regale parola, stabilì che la pena capitale fosse commutata in atto penitenziale. In relazione alle usanze dell’epoca, dispose perciò di appendere due spade nell’architrave della porta di mezzo che si apriva tra le antiche mura medievali. Sotto di esse, in segno di pentimento e sottomissione, furono costretti a passare tutti i cittadini. Stando allo studioso Sciuto-Patti, l’attuale edicola della Madonna delle Grazie ubicata nell’omonima via, sarebbe stata edificata nello stesso luogo in cui l’evento ebbe il suo felice epilogo. Le vicende urbanistiche che la riguardano, hanno comportato alcuni sostanziali mutamenti nel tempo. Ricavata in un vicolo coperto da volta, resistette al tremendo terremoto del 1693. Durante la ricostruzione della città, l’edicola venne inglobata in un palazzo. Consacrato alla Madonna delle Grazie, il sacello fu abbellito da un prezioso dipinto su lavagna, opera del sacerdote-pittore Francesco Gramignani. Il cancello posto a protezione, risalirebbe al 1848.
Nella foto, il prezioso quadro del pittore Gramignani.
Pubblicato su La Sicilia del 2.07.'21
VITO MERCADANTE
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- Creato Lunedì, 03 Maggio 2021 01:08
- Pubblicato Lunedì, 03 Maggio 2021 01:08
- Scritto da Marco Scalabrino
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Il personaggio – dichiara Girolamo Li Causi, nello stralcio di una lettera del 1971 pubblicato a Palermo nel Febbraio 1988 sul numero ZERO del rinato PO’ T’Ù CUNTU – mi è vivissimo anche in questo momento a distanza di quasi sessant’anni: minuto, vestito di nero, la cravatta alla La Valière, colorito bruno, aria greve quasi di mestizia; lui già anziano e io giovanotto. Rimane in me forte l’impressione di una figura integerrima moralmente e politicamente, universalmente stimata, e quindi degna di essere rievocata e restituita alla storia”. “A 52 anni dalla morte – appunta Guglielmo Lo Curzio, sulla nota “Zio Vito” apparsa sulla medesima rivista – mi ritorna innanzi, vivo, sotto il cappelluccio a ciambella, sempre nero come il vestito; l’argentea zazzera romantica illumina il viso magro e bislungo, dove gli occhi neri, piccoli e senza requie, ma d’una dolcezza inesprimibile, scintillano d’intelligenza sotto la fronte spaziosa, sul naso piccolo e camuso, sulla bocca di una freschezza quasi giovanile”. “Severamente vestito di scuro – rievoca Pietro Tamburello, sul numero di Giugno 1988 del GIORNALE DI POESIA SICILIANA – la bella barba patriarcale, la bianca cravatta svolazzante sotto lo sguardo mite e accattivante. Buono e gentile lo era sempre: quando gli andavo incontro e mi accompagnavo a lui per qualche tratto lungo i viali di via Libertà, quando mi accoglieva nella sua casa di via Gioacchino Di Marzo, quando ascoltava sorridendo i miei spropositi e le mie ingenue poesiole di quel tempo. Tra le mie cose più care conservo uno foto (del 1933, riprodotta in calce all’articolo, n.d.r.) in cui, con Nino Orsini e altri amici, ci stringiamo intorno al suo sorriso nel giardino della sua casa”.
Vito Mercadante nacque a Prizzi (PA) il 13 Luglio 1873. A Prizzi ultimò le scuole elementari, ma fu Palermo la città dove frequentò le scuole secondarie e visse la frazione maggiore della sua vita. Interrotti gli studi di Ingegneria, ma avverte il nipote prof. Vito Mercadante “si dedicò anima e corpo agli studi veramente liberatori: quelli che avevano per oggetto la società, la politica, i problemi del lavoro”, trovò impiego presso le Ferrovie dello Stato.
Nel 1902 pubblicò Spera di suli, un volumetto in versi dedicato alla fidanzata che amò profondamente e che morì giovanissima di tubercolosi. Nel 1904 fu la volta di Castelluzzo, una selezione di 14 sonetti in lingua italiana composta in occasione della strage di contadini compiuta dalle forze dell’ordine in località Castelluzzo, in quel di Trapani. A seguito del terremoto del 1908 che rase al suolo Messina produsse L’omu e la terra, e nel 1910 videro la luce Focu di Muncibeddu, unanimemente giudicato il suo masterpiece, e Lu Sissanta, un lavoro da storiografo utile, rimarcò Gaetano Falzone, per apprendere il senso della vita di allora in Sicilia.
“Questa fioritura di scritti – osserva il prof. Vito Mercadante – non dipende da un momento soggettivamente felice del Mercadante, bensì dalle tensioni di anni particolarmente critici che richiedevano risposte perentorie dai suoi protagonisti”. Nel 1911, il Nostro, che intanto a Palermo – informa il prof. Mercadante – andava rappresentando “il punto di riferimento di quanti trovarono impossibile uscire con dignità dalla situazione in cui erano immersi sia col liberalismo di Giolitti che
s’appoggiava alla mafia sia coi socialisti che trescavano coi governativi”, elaborò l’opuscolo propagandistico La ferrovia ai ferrovieri. Totalmente coinvolto nel sindacalismo rivoluzionario di matrice soreliana, inteso “come filosofia, come scienza politica, come prassi, come estetica … come lotta di classe … come strumento atto a mettere in moto quel mondo contadino considerato l’unica forza sociale sana della Sicilia”, egli stesso si candidava – prosegue il prof. Mercadante “come un modello di uomo nuovo in Sicilia: lottatore e artista, intellettuale e capace nello stesso tempo di scendere con l’amore e con la poesia entro i precordi del suo popolo per conoscerne le più intime istanze, operatore politico e rispecchiatore, con l’arte, del movimento storico che andava realizzando”.
Terminata la prima guerra mondiale, a Palermo “promosse le affittanze dei feudi, istituì una cooperativa edilizia per i ferrovieri, la PANORMUS, combatté aspramente il fascismo” e nel Gennaio del 1920, con Francesco Guarratana, capeggiò i ferrovieri scesi in lotta contro la politica antioperaia del governo. In coerenza con le sue idee di giustizia sociale e di libertà, rifiutò la carica di sottosegretario all’Agricoltura propostagli – al ministro Rossoni, che andò a casa sua, fece trovare una stanza piena di garofani rossi e di ferrovieri licenziati dal Fascio –, atteggiamento che gli costò il licenziamento da impiegato delle Ferrovie. Fra il Dicembre 1926 e il Gennaio 1927 pubblicò sulla rivista SICILIA la commedia dialettale in tre atti Mastru Mircuriu, ritenuta da Antonio Verzera un “piccolo capolavoro del teatro dialettale siciliano”, che tuttavia gli venne proibito inscenare. Sorvegliato dalla polizia, costretto a vivere con una misera pensione, morì a Palermo il 28 Novembre 1936.
2. TESTIMONIANZE CRITICHE
Antonio Verzera, il quale per primo se ne occupò in maniera organica e nel 1965 portò alle stampe il volume Un poeta di Sicilia: Vito Mercadante, colloca, ancorché con qualche riserva, il poeta nel secondo romanticismo. Collocazione non accreditata dal prof. Vito Mercadante, studioso delle opere dell’omonimo zio, il quale sostiene che l’opera d’arte non vada estrapolata “dal contesto storico e geografico in cui si realizza”, e che non si rende un buon servizio al poeta salvandone schegge “in seno ad un genere minore quale è la poesia dialettale”, laddove invece la sua è una poesia “di respiro europeo … alimentata da una grande cultura e una forte avventura storica, pervenuta … in Sicilia senza il tramite italiano”.
Ciò detto, a riprova della qualità della sua vita e per quanto più da presso ci attiene della sua poesia, gli oltre settant’anni trascorsi dalla dipartita non ne hanno affatto comportato l’oblio. Viceversa molteplici e qualificate si sono succedute negli anni le attestazioni:
Ignazio Buttitta, in Una lettera a Pietro Tamburello pubblicata a Palermo in ARIU DI SICILIA nel 1954: “Non ho paura di affermare che il merito di avere aperto la strada alla poesia siciliana spetti al Di Giovanni, a Mercadante, a Platania e a tutti gli altri della loro epoca”; Salvatore Di Pietro, sul numero 2 di LA FIERA DIALETTALE edito a Roma nell’Ottobre 1970: “In quest’ultimo dopoguerra a Catania e a Palermo si è avuta una splendida fioritura di poeti … eredi del patrimonio lirico proveniente da Vito Mercadante, schietto innovatore, e da Vanni Pucci, commediografo e poeta geniale”; il citato numero ZERO del PO’ T’Ù CUNTU, nell’articolo non firmato in prima pagina, dà notizia del Convegno (poi tenutosi nei giorni 18 e 19 Marzo presso la sede della Fondazione Culturale “Chiazzese”) sul tema Vito Mercadante: l’uomo, il poeta. Relatori
Salvatore Di Marco, Rita Verdirame, Antonino Verzera, Salvatore Camilleri, Nicola Mineo e Giuseppe Carlo Marino; Salvatore Di Marco, nel pezzo UNA OCCASIONE MANCATA stampato nel numero di Settembre 1988 del GIORNALE DI POESIA SICILIANA: “L’8 Agosto 1952 rivedeva la luce in Palermo il noto periodico di poesia dialettale siciliana PO’ T’Ù CUNTU dopo ben diciotto anni di assenza. Intanto erano scomparsi i prestigiosi collaboratori dell’anteguerra che al PO’ T’Ù CUNTU avevano dato lustro: poeti e scrittori come Luigi Natoli, Alessio Di Giovanni, Vincenzo De Simone, Vito Mercadante, Vanni Pucci. Sicché si ha l’impressione malinconica, rileggendo oggi i vecchi fascicoli del 1952, che la direzione del PO’ T’Ù CUNTU non si fosse resa ben conto delle laceranti trasformazioni che, rispetto agli anni Trenta, erano intervenute nel tessuto sociale dell’isola a modificare anche il quadro complessivo delle vocazioni letterarie. E ciò pure nell’ambito della poesia siciliana”;
e inoltre: Rino Giacone, che nel numero di Maggio 1990 del medesimo periodico, ragguaglia che Vito Mercadante, nel lontano 1933, aveva prefato Diliziu di picciuttanza, la prima silloge di Turiddu Bella; Pietro Mazzamuto, che al Convegno su Nino Orsini tenutosi a Palermo il 30 Novembre 1995 frammette: “Vito Mercadante vivifica certe reminiscenze meliane esaltando, attraverso una vera e propria tavolozza, i tratti somatici della sua donna”; Adelaide Spallino, che nel 17.mo dei venti volumi del PROGETTO L.I.R.E.S. promosso dal M.I.U.R. della Sicilia nel 2006 propone la biografia e un nutrito (e prezioso, data la problematicità di reperimento) campione dei testi di Vito Mercadante; Salvatore Vaiana, che con equilibrata sintesi ne riferisce nella sua monografia Vito Mercadante e le sue radici nel mondo contadino prizzese; il gruppo musicale Agricantus, che ne ha musicato Ritornu di notti, incluso nella colonna sonora del film Placido Rizzotto di Pasquale Scimeca del 2000.
Ma già in vita, ad onor del vero, parecchi furono i contatti, i riconoscimenti, il plauso. Scorriamone una rapida carrellata.
Nel 1922, assieme con Saru Platania, Alessio Di Giovanni, Francesco Trassari, Alessio Valore, Nino Pappalardo, Vanni Pucci, Vito Mercadante venne inserito da Luigi Natoli nella antologia intitolata Musa siciliana, Editore R. Caddeo, Milano, antologia che Salvatore Di Marco definì “una vera e propria opera classica nella storia della poesia dialettale siciliana a cavallo tra fine Ottocento e i primi due decenni del Novecento”; unitamente a S. Platania, A. Di Giovanni, F. Trassari, A. Valore, N. Pappalardo, V. Pucci, Giuseppe Foti, Francesco Guglielmino, Nino Martoglio ed altri, nella antologia curata da Amedeo Tosti, editore Carabba di Lanciano, nel 1923; e con S. Platania poi, A. Di Giovanni, N. Martoglio, F. Trassari, F. Guglielmino, fu annoverato da Enrico Di Marzo in La nuova scuola poetica dialettale siciliana, Palermo 1924; negli anni Venti e Trenta conobbe Ignazio Buttitta e la rivista LA TRAZZERA, fondata da Giuseppe Ganci Battaglia nel 1927 e da questi diretta insieme a Buttitta, pubblicò un numero dedicato al Mercadante che venne sequestrato dalla Questura; Giuseppe Pipitone Federico lo incluse, con A. Di Giovanni, G. Foti, V. Pucci, F. Trassari, nella fulgida schiera dei poeti dialettali della Sicilia a lui contemporanea.
La copia di Focu di Muncibeddu in mio possesso (graziosamente pervenutami dalla Biblioteca Comunale di Prizzi tramite l’intercessione della cara amica e poetessa Margherita Rimi e l’una e l’altra mi corre pertanto l’obbligo di ringraziare sentitamente per l’inestimabile omaggio) è la riedizione del 1991, Sigma Edizioni Palermo, voluta dal Comune di Prizzi. La copertina in brossura è custodita da una sopracopertina di
maestosa suggestione: l’immagine sconvolgente della lava rossa che, come un fiume incandescente, scorre sinuosa a valle, ammirata da quattro persone in nero, di spalle, di cui una donna con gonna e scialle.
Registrata la lieve discrepanza tra Focu di Moncibeddu, come impresso nel frontespizio e subito all’interno del volume, Focu di Muncibeddu, come più diffusamente utilizzato, e talora Focu di Mungibeddu, il libro, 200 pagine circa e 90 testi in Dialetto con “pura e semplice traduzione, più fedele possibile, nella lingua italiana” a fronte eseguita dal prof. Vito Mercadante, si apre con la riproduzione in bianco e nero di una foto di Vito Mercadante, per la descrizione della figura del quale siamo ricorsi in apertura di questo elaborato ad alcuni validi sussidi.
Affronteremo tra poco taluni degli aspetti connessi alla realizzazione pratica della poesia di Vito Mercadante, alla sua techne e perciò, dilatando, al Siciliano nella sua globalità; in atto proviamo a scorgere, nelle pagine di coloro che della sua opera si sono nel tempo occupati, le ragioni della sua predilezione dialettale.
Filippo Salvatore Oliveri, nel saggio titolato Vito Mercadante, un poeta attuale, dichiara: “Il poeta, consapevole del suo mondo e della sua sicilianità, perviene “ad una concezione dinamica della storia degli uomini”, per descrivere il fondo della sua gente coi suoi segreti e con le sue credenze. Il suo dialetto è originale perché rivendica una certa libertà, anche se confusa e contraddittoria. Egli configura attraverso un semplice e minuzioso procedimento di sintesi, gli umori della terra natia, l’ironia e gli scherzi del suo pensiero, del suo canto e della sua esperienza. Vito Mercadante accetta il dialetto pur sapendo di operare una scelta difficile e di rischiare una specie di emarginazione intellettuale: ma è già sicuro che quella strada sia la sola in grado di spiegare la voce più intima della sua anima. Una testimonianza che non è solo filologica-linguistica, ma lessicale-antropologica”; il prof. Vito Mercadante, nello studio di introduzione all’opera dell’omonimo zio, asserisce: “(Altro) punto d’incontro fra il Poeta e Sorel fu l’amore sconfinato per il popolo, che si traduceva per la Sicilia, oltre che nella salvaguardia dei valori contadini, nella conseguente esaltazione di una letteratura popolare con situazioni e personaggi reali e popolari, come popolare doveva essere la lingua usata da essi e la concezione della vita”; e Francesco Pignato commenta: “La sua interpretazione è originata da una visione filosofico-politica alta, quella del suo maestro George Sorel, secondo cui la forza rivoluzionaria per la trasformazione in meglio della società è data dal popolo trascinato dalla fede in un uomo compenetrato negli interessi e negli ideali delle masse proletarie. Anche l’arte, come forma alta della comunicazione, doveva avere come oggetto-soggetto il popolo e come mezzo espressivo la sua lingua, cioè il dialetto”.
E sfogliamo, in questo progressivo tragitto di avvicinamento, un paio di autorevoli giudizi nello specifico di Focu di Muncibeddu.
Filippo Salvatore Oliveri, nel saggio appena evocato, pubblicato sul GIORNALE DI POESIA SICILIANA nel numero di Dicembre 1991 corredato da una bella caricatura del Nostro, insiste: “Con amore e intelligenza, Vito Mercadante seppe narrare la sua vita con senso critico, valutando anche la sua personalità e il suo modo di essere religioso. Ma è il suo disporsi agli altri che acquista dimensione e valore poetico, il suo indugiare sul miracolo della natura che rinnova e rende libero il verso e il linguaggio della lirica dialettale. Focu di Muncibeddu è il capolavoro di Mercadante, dove l’amore e la morte si ricompongono senza spezzare i fili della macchina-memoria, del nostro tempo
attanagliato dai motivi contingenti della vita quotidiana. Mercadante è sempre tra la folla, calato nel suo popolo, ne esplora l’anima, ne interpreta i sentimenti”.
Il nipote prof. Vito Mercadante, in prefazione all’edizione in esame, assevera: “Ci troviamo di fronte ad un’opera di grande livello artistico, non solo nel solco della poesia dialettale siciliana, ma anche nel percorso di quella nazionale di questo secolo. La prima affermazione che penso si debba fare nei confronti del Poeta è quella di una sua piena intelligenza della situazione in cui si trovò a vivere; la seconda è quella di avere tradotto quella intelligenza in un conseguente impegno di vita e nella costruzione di un personaggio che fosse pari alla necessità della soluzione di questa drammatica situazione”. Situazione in cui tra gli anni 1893 e 1913: “il numero dei feudi aumenta e quello dei proprietari diminuisce, lo sfruttamento del proletariato agricolo si accentua da parte dei gabelloti. E fu proprio in questo clima che Vito Mercadante, attento lettore delle correnti di pensiero europeo, trasformò il gruppo giovanile del partito socialista in uno schieramento politico attestato sulla linea rivoluzionaria di George Sorel. In Focu di Mungibeddu non un fatto storico attrae l’attenzione del poeta, quanto invece la vita intera di un paese ricamata attraverso una vicenda d’amore. Il Mercadante seppe rappresentare questo mondo contadino, che era le sue radici, il suo essere più profondo: egli, infatti, andava descrivendo tutti i casi fra cronaca e storia che accadono a Prizzi in quegli anni di forte tensione sociale e politica”.
3. FOCU DI MUNCIBEDDU: STRUTTURE, SCELTE, ESITI FORMALI
Ampiamente delineato il panorama storico-sociale-ideale, in cui è nata, maturata e sedimentata, addentriamoci, per gradi, nelle strutture, nelle scelte, negli esiti formali della poesia di Vito Mercadante, muovendo dai molteplici spunti che Focu di Muncibeddu ci offre e dalla opinione di Salvatore Camilleri: “Non c’è versante espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita. La poesia nasce sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla”.
Il primo e l’ultimo testo del florilegio, due sonetti, hanno per (o in luogo del) titolo un ?, sì, giusto un punto interrogativo, il cui verso conclusivo si ripete identico: Cu’ sa qual è la magghia di la fini! Entrambi i carmi reiterano l’elegiaco canto d’amore alla amata scomparsa e l’impegno di votare a lei, all’imperituro ricordo di lei, la sua giovinezza, il suo cuore, la sua vita: sta giuvintù la dugnu a la me zita … ci dugnu lu me cori e la me vita … catina senza rosi e tutta spini … cu’ sa qual è la magghia di la fini!
SPERA DI SULI, un corpus di ventotto teneri e dolenti sonetti cui s’è fatto cenno in precedenza apprezzato da Girolamo Ragusa Moleti, fu poi inglobato in Focu di Muncibeddu. Il nome di Ragusa Moleti ci richiama immediatamente quello di uno fra i più grandi poeti siciliani del Novecento: Alessio Di Giovanni. Vito Mercadante e Alessio Di Giovanni si conobbero. Se ne ha conferma dalla “CORRISPONDENZA 1903-1928 SILVIO CUCINOTTA – ALESSIO DI GIOVANNI”, Edizioni Centro Studi Giulio Pastore Agrigento 2006, avvincente tomo dovuto a Rosalba Anzalone, Ispettore Regionale per la Sicilia del M.I.U.R., e allo storico e giornalista Franco Biviano. Nella Lettera XVII del 16 Novembre 1904, Cucinotta comunica al Di Giovanni: “Ieri l’altro ho ricevuto Spera di suli di Vito Mercadante. Ho riletto l’articolo di Ragusa e ho gustato i sonetti. Gliene scriverò. Abita teco? Ringraziamelo fraternamente”. E, nella Lettera XX del 22 Marzo 1905: “Salutami caramente l’amico Vito Mercadante”.
Ma tuffiamoci, alfine, nel vivo di Focu di Muncibeddu.
L’aggettivo dimostrativo: stu forti amuri, sti dui fileri, stu cori, sta vucca, st’oduri, sta calura … viene non di rado piegato, per esigenze di metro, nella formulazione propria del pronome: chisti occhi, chist’arma, chista via, chist’ura, chisti mei lamenti, chista luntananza, chista frevi, chisti mischini … con una imbarazzante promiscuità, chist’urmi – stu scunfortu, nello stesso rigo di LA SITI, alla pagina 89.
Una irresolutezza vieppiù marcata investe la riproduzione ortografica della seconda persona singolare del tempo presente del verbo essiri, resa, non rispettando un criterio uniforme di trascrizione in tre disuguali modalità: si’, sì e si; per cui avviene, come nel componimento … A ‘NAUTRU ANNU … alla pagina 126, che, nel verso iniziale e in quello finale, la medesima voce si venga designata tanto per il verbo quanto per la particella pronominale, e in due versi uno appresso all’altro, il terzo e il quarto, la voce sì, accentata, venga adoperata sia nel valore del verbo che in quella di affermazione, e che lungo le pagine dalla 25 alla 36 di SPERA DI SULI si rinvengano, nel ruolo del verbo, tutte e tre le voci: si, si’, sì. Si può ben obiettare che dai distinti ambiti logico-sintattici si evince puntualmente l’ufficio di ciascuna voce; ma se un attimo ci attardiamo a soppesare che, con la pronuncia dell’identico suono “si”, si assolvono in Siciliano più accezioni: la seconda persona singolare del tempo presente del verbo essiri, l’avverbio affermativo, la congiunzione, il pronome personale, la settima nota della scala musicale, un modello ortografico che avesse tenuto in maggiore conto tali distinzioni e una sorvegliata coerenza all’interno di ciascheduna voce sarebbero stati preferibili.
Sostanzialmente omogenea, viceversa, la modulazione degli articoli nella loro stesura intera lu, la, li e, l’utilizzazione, diversamente dall’Italiano, della preposizione semplice più l’articolo: di la cantunera, cu la rota, ntra li tazzi, a lu scurari, supra lu jitu …
Misurato poi il raddoppiamento della consonante iniziale delle parole, che si rinviene negli avverbi: il comparativo cchiù, e quello di luogo cca e ccà, accentato questo o meno, e invero in pochi altri vocaboli: mmiatiddu, mmalidittu, mmillittera ...
Il segno J, uno dei segni peculiari del Siciliano, è perlopiù adottato quando ha derivazione dalle consonanti d o g, nelle coniugazioni del verbo jiri, ovvero in quei casi in cui la tradizione è consolidata: jettitu, haju, jiriminni, fujutu, raji, jinestra, jiu, jissi, jardina, dijuna, jemu, jinnaru, jugu … Esso si caratterizza perché assume nel contesto linguistico tre suoni differenti ed esattamente: suona i quando segue una parola non accentata (ad esempio, quattru jorna) e quando ha posizione intervocalica (ad esempio, vaju, maju); suona gghi quando segue una parola accentata o un monosillabo o dopo ogni (ad esempio, tri jorna, ogni jornu); suona gn quando segue in, un o San (ad esempio, un jornu, san Jachinu). Se fosse, come talora sostenuto, una vocale il segno J dovrebbe ubbidire alla regola di tutte le vocali, a quella cioè di fondersi col suono della vocale dell’articolo che lo precede, dando luogo all’apostrofo. “Così come noi scriviamo l’amuri (lu amuri) dovremmo pure scrivere l’jornu, l’jiditu … cosa che – suffraga Salvatore Camilleri – nessuno si sogna di fare appunto perché, essendo il segno J una consonante non vi è elisione, e quindi non è possibile l’apostrofo, il quale si verifica all’incontro di due vocali e mai di una vocale e di una consonante”.
Unitamente alla J, il segno DD caratterizza l’alfabeto siciliano. La DD, da non confondere con la doppia d che è un segno diverso, derivante dal tardo-latino (capillus, caballus, etc.) talmente fuso nella pronuncia da essere considerato un segno a sé stante e non il raddoppiamento di due d, rappresenta il suono più caratteristico della lingua siciliana. “Infatti la suddivisione sillabica di addivintari, ad esempio, è ad-di-vin-ta-ri,
mentre quella di cavaddu – precisa Salvatore Camilleri – è ca-va-ddu”. Da rilevare inoltre che il suono di d è dentale, mentre quello di DD è cacuminale. Non sono mancati nel tempo i tentativi, non fortunati, di sostituire il segno DD con DDH o DDR, e con i puntini in cima o alla base di DD. In questo frangente l’opzione di Vito Mercadante è netta: cardiddi, stiddi, casteddu, sudda, picciridda, capiddi, peddi, gaddu, spaddi, fudda, curaddu …
Altro tema che coinvolge gli autori in dialetto siciliano è quello del plurale dei nomi. Vito Mercadante, lo si ricava dalla lettura, fa largo uso del plurale in “a” dei sostantivi maschili il cui singolare finisce in i o in u: trava, pitruna, stivaluna, chiova, vadduna, vasuna, culura, suspira, zappuna, sudura, fossa, filara, crastuna, migghiara, trona, pinnulara. Della questione si è occupato Salvatore Camilleri: dapprima nella sua ORTOGRAFIA SICILIANA, Edizione ENAL ARTE E FOLKLORE DI SICILIA Catania 1976, e di recente, con rinnovato scrupolo, nella GRAMMATICA SICILIANA, Edizione BOEMI Catania 2002: “Di regola il plurale di tutti i nomi, sia maschili che femminili, termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti, ciuri. Un certo numero di nomi maschili, terminanti al singolare in “u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano in coppia o al plurale: jita, vrazza, labbra, corna, ossa, vudedda, coccia, gigghia, mura, cuddara, pagghiara, linzola, dinocchia, cucchiara”. E insiste: “Molto più numerosi sono i plurali in “a” dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni”. Se ne elencano, tra oltre un centinaio rubricati in due pagine, i più comuni: aciddara, birrittara, bummulara, campanara, carvunara, ciurara, dammusara, furnara, ghirlannara, jardinara, lampiunara, libbrara, marinara, massara, mulinara, nguantara, nutara, pastara, pisciara, putiara, ricuttara, ruluggiara, siggiara, stagnatara, tabbaccara, uvara, vaccara, viscuttara, zammatara.
4. FOCU DI MUNCIBEDDU: NOTE DI SINTASSI, DI METRO & DI LESSICO
Parrebbe già abbastanza e nondimeno abbiamo colto, nell’ordito lirico di Vito Mercadante, e vi giriamo altri intriganti stimoli.
Cu’ mori mori, terra terra, ranti ranti, a la sira sira, ora ora, a li cimi cimi. “Il raddoppiamento o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) – evidenzia Luigi Sorrento nelle NUOVE NOTE DI SINTASSI SICILIANA – o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu) comporta di fatto due tipi di superlativo: ora ora è più forte di ora e significa “nel momento, nell’istante in cui si parla”, nudu nudu è “tutto nudo, assolutamente nudo”. I casi di ripetizione di sostantivo (casi casi, strati strati) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano. Strati strati indica un’idea generale d’estensione nello spazio, un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di “estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome relativo seguita dal verbo raddoppiato. Cui veni veni intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente”.
La perifrastica costituisce una aggiuntiva peculiarità della lingua siciliana legata al Latino. Nel Siciliano la perifrastica non è passiva come nel Latino e viene resa mutando l’ausiliare Essere in Avere. Difatti il Latino mihi est faciendum in Italiano si rende con la perifrasi io debbo fare, o altre consimili, mentre il Siciliano lo rende con aju a fari. E
vediamo Vito Mercadante: havi a carmari, s’hannu ad aiutari, l’havi a mangiari, t’haju a dari, m’haju a stari, t’haju a purtari …
Ulteriore distintiva facies della lingua siciliana è costituita dal fenomeno che viene a instaurarsi con le vocali e e o tutte le volte che perdono l’accento tonico, in quanto cambiano rispettivamente in i e u (cosiddette vocali mobili). Esempi: veru - virità, pena - piniari, silenziu - silinziusu. E saggiamo Vito Mercadante: jelu - jilata, vecchiu - vicchiaia, foddi - fuddia, volu - vulari, sonnu - sunnari, notti - nuttata, jochi - jucari, sciroccu - sciruccata …
Centrata, quanto all’aggettivo possessivo, la sottolineatura ortografica fra to e so al singolare e toi e soi al plurale, come tra me’ soru, me’ pinseri, me’ gammi plurali e me matri, me vuci, to matri, me chiantu singolari, che i due numeri distingue.
Qua e là disseminati, fanno capolino variegati, funzionali vezzeggiativi e diminutivi: farfalledda, occhiuzzi, armuzza, vuccuzza, dintuzzi, arbicedda, canzunedda, finistredda, casuzza, picciutteddi, cammisedda, manuzzi, stratuzza, eccetera.
Proseguendo nell’analisi, appurata una relativa egemonia dei sonetti, ci imbattiamo in ottave siciliane, con rima ABABABAB (con evidente refuso al sesto verso dell’ottava SUSPIRU! a pagina 73, “che canta sempre le tue bellezze”, riportato tale e quale sia in Siciliano che in Italiano), strambotti, con rima ABABCCDD, … A ‘NAUTRU ANNU … alla pagina 126, e poi sestine e quartine.
Assai spesso regna l’endecasillabo, che Ungaretti definì “la combinazione elegante delle nostre parole”, ma all’occorrenza suppliscono bene l’ottonario, che efficacemente si presta al ritmo cantilenate della filastrocca, ad esempio in … ROTA RUTEDDA …, LU ROLOGIU e NOVEMBRI alle pagine 77, 78 e 137, il settenario, sempre sdrucciolo al primo verso come in SULI a pagina 74: mennuli, passari, arrussicanu, risuscita, chiovinu, sentinu, vurcanica, l’omini, abbrazzamuni!; e, alle pagine 93 e 94, il quinario, il primo e il terzo sempre sdruccioli: spasimu – grannissimu, terribili – nuvuli, t’infurii – niuru, nuvuli – arridinu, inutili – lacrimi, battinu – ridinu, volanu – cantanu, ridinu – l’anima, tenniri – spasimu, spasimu – grannissimu, come nelle quartine di COMU LU MARI, in cui la medesima quartina apre e chiude. E persino, alle pagine 102 e seguenti, 107, 168 e seguenti: LU PANI, PASSA L’AUTOMOBILI, LU TILARU, terzine dantesche di endecasillabi, e quartine di ottonari a rima alternata, come in L’ACCETTA alla pagina 123, quantunque assai sovente si verifichi che il metro sia irregolare addirittura all’interno dello stesso elaborato, come nell’appena menzionato LU PANI in cui l’endecasillabo cede per quattro strofe il passo all’ottonario per ritornare subito dopo e chiudere.
Il tutto è servito da un lessico di una bellezza e di una dovizia assolutamente straordinarie: attriviti, furbetti, jacobbu, gufo, pitittu, appetito, gebbia, vasca, minnalaria, corbelleria, lavuri, frumento, gulera, collana, lonara, allodola, jutteni, sedile, gaddudinnia, tacchino, giummu, fiocco, bunaca, giacca, cavurrinu, (da Cavour) sigaro, masculiata, sparo dei mortaretti, retica, strana, lannaru, oleandro, gangularu, mento, jinia, nitrisce, mattula, bambagia, frazzata, coperta, gaja, siepe, vertuli, bisacce, vardedda, sella, lasagnaturi, mattarello, tabbisca, focaccia, picchiusa, lucerna, marvizzu, tordo, lippu, muschio, sanzeru, robusto, scanzirri, lumache, si stragulia, si trasportano i covoni, spiccaddossu, lavanda, acquazzina, rugiada, ristucci, stoppie, tabbutu, cassa da morto, centona, confusione, termine nobilitato per l’eternità da Nino Martoglio, tannura, focolare, jimmu, gobba, catarrattu, botola, cantaranu, armadio, mariteddu, scaldino, pitiddi, coriandoli, nivaloru, pavoncella, cunculinu, braciere di creta, animmulu, arcolaio, scappularu, mantello, puddara, stella polare, marzamareddu, turbine. Questi e molti altri lemmi, antichi di secoli quando non di
millenni, minima fetta dell’immenso patrimonio di etimologia greca, latina, araba, eccetera, sono sempre meno correnti tra i Siciliani e, ahimè, “ogni palora persa – ci ammonisce Pietro Tamburello – nanticchia di Sicilia si ni va.”
5. FOCU DI MUNCIBEDDU: LA SOCIETÀ, LE FOME RETORICHE, NUZZA
Vito Mercadante si rivolge spesso a Nuzza, la sua amata, e svariati sono i componimenti imperniati sul loro amore, la loro vicenda, il loro calvario; a rivelare che lei è ognora presente, viva per lui. Ma, esorta Rafael Alberti, “in questo momento terribile del mondo, il poeta è obbligato a essere la coscienza del suo popolo”, e noi abbiamo appreso dalle antecedenti testimonianze che altri temi, sociali, di costume, di cronaca, sono contemplati nella crestomazia del Nostro.
Il PRIMU DI MAJU, la primaverile festosa giornata dei lavoratori – l’eccidio di Portella delle Ginestre e quel tragico 1947 sono lontani dall’essere macchinati – nella quale tutti gli anni rinasce la spiranza biniditta chi nun mori; circostanza propizia per interrogarsi e scuotere la propria e l’altrui coscienza: Chi forsi è liggi di natura? / Unn’è ca è scrittu ca li megghiu spicchi / l’havi a mangiari chiddu chi ‘un lavura?;
L’ELEZIONI, allora come oggi, un parallelo di sconcertante attualità: Nun mi canusci nuddu, tuttu l’annu / sugnu un viddanu, un tintu scarpunazzu; / ora su’ tutti cca chi vennu e vannu, / cu’ mi tira la manu, e cu’ lu vrazzu; /sinu ‘ncampagna mi vennu a circari, / nun c’è né vu’ né zzu’, ma Vitu caru; / su’ tutti cirimonii, e lu parlari / diventa meli ed era feli amaru. E, tra le righe di queste tredici quartine di endecasillabi, egli ha modo di imbastire e noi scoviamo un profilo della classe politico-amministrativa del tempo: lu sinnacu è un birbanti, e l’assessura … ci sunnu cosi chi ‘un si ponnu diri, oltre che una sorta di un suo autoritratto caratteriale, inclusivo della veemente reazione fisica e dialettica nei confronti di chi gli proji la scheda e cincu liri: Ci sbattivu la porta ‘ntra lu mussu, / gridannu: Lu zzù Vitu nun si vinni, / ca è tuttu un pezzu ed un culuri, russu. E il suo pensiero e il suo essere trovano integrazione, ed emergono chiari, nel testo LU CORI, alle pagine 144 e seguenti: Iu pensu ca lu munnu è tali e quali / ca tali e quali su’ l’omini granni … ca semu sempri picciriddi, iu sentu / di la prima ura sinu ca si mori; / ’ntra chista vita, ch’è un ciusciu di ventu, / si pensa picca e cumanna lu cori. / Pi mia, sugnu accussì, nun finciu nenti, / portu lu cori supra di la manu; / amu cu tutti li mei sentimenti, / odiu comu lu turcu un cristianu. / Sugnu accussì! Si viu un picciriddu, / la facci zarca, ‘mmenzu di lu fangu, / chi trema, mentri chiovi, pri lu friddu, / sentu lu cori miu chi jetta sangu. / Ma lu suprusu, la supirchiaria, / lu tradimentu, fittu ’ncori resta, / ca nun lu soffru, pri la vita mia! / Mortu ammazzatu, ma ‘un calu la testa! / Tintu ddu foddi chi mi fici un tortu, / ca la so detta cu lu sangu è scritta. … Ma si ‘mmenzu a la furia di li trona, / ‘na vuci dispirata chiama aiutu, / curru, mi vegna tinta o vegna bona;
il triste fenomeno della emigrazione, si vedano L’AMERICA e AMARIZZI, in quelle notti, come tante altre all’epoca, di lacrimi e di peni … di tragedi e di dulura … in cui erano li megghiu a l’America custritti giacché, si erge il poeta a portavoce della miseria, delle privazioni, delle soverchierie patite dalla sua generazione, né casa, né crapuzzi mi lassaru … / li sbirri, lu guvernu e li parrini / macari lu tabbutu mi nigaru … e malgrado egli ripeta a se stesso pirchì mi nni haju a jiri / si sugnu bonu a qualunqui travagghiu, in certi jurnati, in cui lo sconforto lo sopravanza, puru a mia, puru a mia … pinsannu a l’amici già luntani / ed a li cosi mii chi vannu sutta / cu tanti malannati e tanti tassi, / la fuddia di l’America mi tira;
e, per affinità quanto alla concomitanza e alla drammaticità, l’insofferenza nei riguardi della ferma militare, da prestare per trenta misi … ‘nca chi sunnu un jornu?! che,
unita alla emigrazione, spoglia e smembra le famiglie; è il caso di lu zzu Giuseppi e la gnura Carmela: l’autri figghi a l’America, ora pigghia, / veni lu re si tira puru a chistu!
Ma, si potrebbe a questo punto obiettare, la Sicilia, il suo paese, il Muncibeddu?
Beh, ovviamente, rientrano nel novero degli argomenti sviluppati, per cui cogliamo al volo la sollecitazione. La Sicilia, Sicilia mia, è terra ‘ncantata … terra di tantu amuri e scunsulata ... quantunque solcata da li dulura senza fini / di la to razza forti e ginirusa; il Muncibeddu è chiaramente l’Etna: migghia e migghia sta luntanu / ma lu stissu n’amminazza ... iu lu viu di la finestra … lu pinnacchiu notti e jornu / signa sempri unni è lu ventu, / cu disigni sempri novi … Muncibeddu, duni e levi / cu ‘na liggi sempri nova; … oggi: ciuri e vinu e canti; / e dumani: luttu e chianti! Una curiosità: il termine Mungibeddu assomma in sé la radice latina di mons (monte) e quella araba di gebel (bello). Il vulcano era ritenuto da credenze popolari il padre di tutti i monti e di tutti i vulcani: stannu avanti a stu patruni / l’autri munti addinucchiuni.
Quanto a Prizzi, dove Vito Mercadante lasciò matri e parenti quando partì spirdutu … a la strania alla ricerca di la me via … è immersa nel silenziu … cu li canala carrichi di jelu. Notiamo che la neve, nivi, e poi nivi, e sempri nivi, imbianca larghi scampoli della silloge. Ciò non appaia strano. La Sicilia è, sì, l’isola del sole, della luce, del mare, ma è altresì terra di altopiani, di estese catene montuose che si elevano a quote significative: le Madonie, i Nebrodi, i Peloritani, nonché del più alto vulcano attivo d’Europa. E Prizzi, uno dei dieci comuni più alti dell’Isola, si situa a circa 1.000 metri sul livello del mare, campa ddassusu, e pertanto non è affatto peregrino che nei mesi invernali le temperature siano assai rigide, la neve avvolga uniformemente i tipici edifici medievali, il dedalo di viuzze e di vicoli, le scalinate: È la notti di Natali, / tutta nivi è la muntagna, ed elegga Prizzi, il suo paese, il paese da cui mai sentimentalmente si staccò, a biancu prisepiu chi dormi.
Vito Mercadante in effetti, benché catapultato giovanissimo in città, per gli studi e più tardi per il lavoro, è isolano dell’interno, è saldissimo, nei suoi interiori mondi, alla propria sfera d’origine, è anima delle assolate aree rurali dell’entroterra, non disgiungibile quasi dalle zolle dei suoi campi, è uomo fra gli uomini della sua Sicilia contadina.
Confesso: non risulta agevole dire basta, mettere punto. Ogni successiva lettura di questo appassionante Focu di Muncibeddu palesa nuove pregevolezze, illumina inattese prerogative formali, liriche ed emotive, spalanca ulteriori orizzonti. E ciò perché Vito Mercadante è nella Storia, vive cioè pienamente la propria realtà in modo consapevole, la sua concezione della Poesia è la sua stessa condizione, la sua realtà, il suo dramma.
Desideriamo innegabilmente che le osservazioni dei lettori integrino le nostre, la materia del resto non manca, e tuttavia non possiamo prescindere dal trasferirvi altre ragguardevoli notazioni.
Una asserzione del prof. Vito Mercadante ci offre il destro per la prima: “Vito Mercadante intese una poesia dialettale che fosse tale non per essere meno di quella italiana, ma più”. Non un azzardo, bensì un progetto serio di vita, un canone entro cui calare la propria Weltanschauung, un’impresa ambiziosa nella quale riuscire. E la poesia, non annunciamo alcunché di sorprendente, pulsa di liricità. Liricità che, pure nel realismo della “penna”, non è estranea a Vito Mercadante: e lu jacobbu chianci la nuttata, o mezzannotti chi nun voi finiri, ‘ntra la gebbia s’abbuddanu du’ cigni, mori lu suli e cu lu suli moru, cu’ lu sapi chi c’è sutta la nivi?, sti dui fileri di petri diamanti / mi li vinneru li fati a la fera, si juncinu lu
i nivi ‘ntra lu chianu, appena appena appari disignata, ‘ncelu lu suli e cca la so biddizza?!, mi pari senza funnu la me stanza / cu l’occhi persi supra la cannila, cu lu tempu caminamu / comu pagghia supra ciumi …
E poniamo alla ribalta certune delle forme retoriche schierate da Vito Mercadante: la sillessi, dal greco syn (insieme) e lepsis (presa), che consiste nella costruzione a senso, senza concordanza grammaticale, in base alla quale cioè la concordanza tra il soggetto e il predicato non segue per quanto concerne il genere e il numero: C’è jurnati, c’è ciuri russi, nun c’è picciotti / né vicchiareddi, e Quantu ziti novi c’è, laddove, registriamo, viene speso l’avverbio invariabile quantu: quantu ciuri, quantu chiaghi, quantu campani, quantu voti; la metatesi, dal greco metathesis, che consiste nella trasposizione di lettere all’interno di una parola: cufulara per focolari, palori per parole, pruvuli per polvere, proji per porge, mi vriognu per mi vergogno; grapiri per aprire; firnicia per frenesia, crapuzza per capretta; l’interrogazione retorica, che consiste nel rivolgere una domanda non per avere una risposta ma per esprimere enfaticamente un’affermazione o una negazione: chi ci pozzu fari / si sempri pensu a vui, matina e sira?, Pozzu dormiri ancora, armuzza mia, / quannu t’affacci avanti di la porta?, Chi forsi è liggi di natura?; l’onomatopea, dal greco ònoma, nome, e poiein, fare, mediante la quale si tenta di riprodurre per imitazione un’impressione sonora naturale: lu cardiddu fa cicì, pissi pissi adaciddu mi chiama; senti senti lu rologiu: / ticchi-tacchi ticchi-tacchi, tuppi tuppi, lu griddu: “… ziiiru … ziiiru”, patafù patafù; la litote, che consiste nell’esprimere un concetto negando il suo opposto: lu ricortu nun fu tintu; diffusa ugualmente l’apocope, già rilevata a proposito dell’aggettivo possessivo, che consiste nella caduta della vocale o della sillaba finale di una parola: cu’, du’ e su’, to ma’;
e sottolineiamo talune locuzioni: l’ancileddu ci calò, sono stramazzati dal sonno, paganu l’ampallatura, restano sbalorditi, quintadecima, luna piena, la taliu di mira e mira, la guardo fissandole gli occhi.
Ma in Focu di Muncibeddu ce ne sono di cose sparpagliate! Ed è bello e gratificante reperire quelle “cose” e restituirle alla fruizione e all’apprezzamento critico universali; sì che da un canto esse vadano a comporre la globalità delle tessere del mosaico e possano contribuire alla valutazione adeguata dell’opera e d’altro canto quelle esperienze, quella cultura, quel mondo non vadano definitivamente perduti.
Sediamoci a tavola con Vito Mercadante: in prevalenza legumi, verdure, formaggi e frutta; esigui la carne e il pesce: minestra, fasoli, linticchi, lasagni, finocchi, sarsa, favi e gidi (bietola), piparoli, ricotta, ogghiu novu cu lu pani, ariganu, pipaloru, sarduzza salata, cascavaddu, un gadduzzu, cutugna, ficudinnia, granati, zorbi, pira, cirasi, il tutto condito magari da na buttigghia di marsala;
cerchiamo un lavoro con lui: zappatura, surfarara, viddanu, raisi, puntuneri, camperi, mitituri, putaturi, carbunaru, filannara, lavannara, picuraru, firrara, jurnatara, scarpara, vitrara, o alla vinnigna, al tilaru, al trappitu (frantoio);
e di condividere di costoro la “eloquente” condizione: iu chi travagghiu, m’ammazzu, chi sudu / si nun restu dijunu, sugnu nudu perché, mentre lu cchiù tocca a lu patruni, a loro non rimane quasi nenti,
i casi di infortunio letale sul lavoro: la machina abbuccò supra a Turiddu … / un lampu di ddi fauci … na vuci … / di la morti calò lu vrazzu friddu!,
o le “semplici” ma fatali malattie: la malaria ad esempio, per la quale nun c’è chininu / di lu guvernu che tenga, la tirzana e li tumura,
e persino le calamità, naturali o meno: scappò lu focu a Carcaci stasira … lu celu russu pi la grann chiaria … nun c’era contrafocu chi abbastava … lu ventu chi cu furia lu cacciava … Dunni scappò? … Fu cumminazioni o … cumminata?
Rare per contro, e circoscritte “al tempo in cui l’amore regnava”, le occasioni gioiose: la tradizionale festa religiosa della Madonna di Tagghiavia, al cui altare offrire al suono dell’organo torci quantu una culonna, le sagre paesane con la ‘ntinna, l’albero della cuccagna, ‘nsapunatu … cu li premi … e … un pignatu cu li sordi, e la fera, con li baracchi, / la cubbaita e li nuciddi … li trummetti e li pupiddi che culmina con l’irrinunciabile jocu di focu,
e, oggi più che mai a rischio, la Natura, la fauna e la flora, i colori, gli odori che egli percepiva attorno a sé: li cannilicchi-picuraru, lucciole, lu mulu, li farfalli, li serracani, grilli verdi, lu sceccu, li giurani, lu petturussu, cunigghi, vurpi, ciaraveddi, ciavuru di menta, ddisa, ampelosdesma, cerzi, pedi di ficu, olivi, chiuppi, vigni, mennuli ciuruti, li funci boni e chiddi vilinusi, aranci, gersumini, rosi, paparini, li stiddi riccamavanu un arazzu, tramunti purpurini addamascati, notti di stiddi cu luni d’argentu, mistiriusi vuci di lu ventu, l’occhiu russu di la luna …
Si potrebbe infine allestire una mappa tra le città, siciliane e non, toccate in questo “viaggio”: Prizzi, naturalmente, Murriali, Lercara (Friddi), Palazzu (Adriano), Castrunovu, Chiusa (Sclafani), Palermu, Bivona, Ribera, Mezzujusu, Busacchinu (Bisacquino), Napoli, Firenzi, Milanu, Venezia, Roma, Caltabillotta, Cuschina (S. Stefano Quisquina), e Cunigghiuni (Corleone).
Appressandoci alla conclusione, non possiamo, ancorché brevemente, non accennare alla persona, Nuzza mia, Nuzza di cira, e all’avvenimento che hanno segnato la vita di Vito Mercadante, sebbene nun dicu nenti, ’un mi lamentu, / pirchì a lu munnu la facci chi arridi / comu fussi cuntentu ci prisentu. La china, “ventotto sono i sonetti del poema “La china”, proprio il numero degli anni che aveva la sua fidanzata, quando morì, e per cui il Mercadante vestì di nero tutta la vita”, è vilenu amaru, è la malattia, tussi chi lu pettu t’ha strazzatu, è la morte di Nuzza. L’invocazione all’amata: Lassalu lu tilaru. La voglia di andare a lavorare che viene meno: nun haju testa stamatina … nun pozzu lavurari. Il responso medico e la presa di coscienza: Nuzza è malata, / malata di una ‘nfami malatia … di ddu malannu chi ‘un si po curari. L’incredulità: Malata? … possibili ca Nuzza havi a muriri! … possibili … ca la so giuvintù mi po spiriri? Lo scoramento: iu sugnu pazzu e sugnu comu un mortu; / nun haju cchiù né paci né risettu. La preghiera alla Madonna di Tagliavia: dissi lu credu e poi ‘na avemmaria. La rabbia e la disperazione: siddu mori tu m’haiu annegari … siddu mori tu m’haiu affucari … pri mia lu munnu sanu po siccari … pri mia lu munnu sanu po abbruciari …
Alessio Di Giovanni, Ignazio Buttitta, Luigi Pirandello, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sciascia, Vito Mercadante ... È dunque per loro che Massimo Onofri reputa “la tradizione letteraria siciliana la più alta del Novecento”?
MARIA FAVUZZA: Tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita.
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- Categoria: Letteratura
- Creato Domenica, 18 Aprile 2021 18:14
- Pubblicato Domenica, 18 Aprile 2021 18:14
- Scritto da Marco Scalabrino
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Maria Favuzza nacque a Salemi (TP) il 24 dicembre 1902 e morì il 14 febbraio 1981.
Il tempo nondimeno, gli oltre trenta anni trascorsi dalla sua scomparsa, non ne hanno affievolito l’affettuoso ricordo in quanti l’hanno conosciuta e amata, né ne hanno sbiadito la levatura di poeta.
Rosanna Sanfilippo, nel suo intervento Gli scrittori di Salemi, nelle circostanze del convegno Poesia, narrativa, saggistica in provincia di Trapani organizzato dall’I.S.S.P.E., Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, presieduto da Dino Grammatico, convegno svoltosi a Erice (TP) il 10 giugno 2001, la omaggiava in questi termini: “La sua è una poesia semplice e immediata. Sentimenti e figure di vita paesana e familiare vengono raccontati rendendo partecipe il lettore di ogni più piccolo gesto rituale”.
Ma già nel 1976, a riconoscimento della validità del suo dettato, Gioacchino Aldo Ruggieri l’aveva inclusa nella raccolta di poesia dialettale inedita o poco nota dell’Ottocento e Novecento da lui curata e titolata Amore di Sicilia, assieme con nomi all’epoca quotati quali: Emanuele Angileri, Liborio Dia, i Fratelli Giangrasso, Mariano Lamartina e altri. E nel medesimo anno 1976 aveva visto la luce a Palermo la sua silloge Poesie, dalla prefazione della quale traiamo: “I suoi versi esprimono la rievocazione nostalgica di un mondo che ha cambiato volto, dove non c’è più posto per gli ingenui incanti che una volta consolavano le esistenze semplici e affaticate”.
Impiegata presso l’Ufficio Registro di Salemi, Maria Favuzza seppe dotarsi dei mezzi linguistici e culturali atti ad esprimere in un buon italiano la propria Weltanschauung. Ebbene, perché il dialetto? La risposta credo sia semplicemente perché “quell’arcobaleno di ricordi, variegato di tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita”, quelle poesie, nate col deliberato proposito di fissare esperienze e sensazioni, sono state concepite giusto così, sono state scritte in siciliano perché il suo sentire era siciliano, i suoi pensieri nascevano in siciliano, il suo animo era convintamente siciliano. E pertanto la sua predilezione del dialetto è da stimare una opzione pienamente responsabile.
Muddicheddi, la sua opera più apprezzabile sia per la quantità che per la qualità dei contributi e dei temi, della quale per stralci discorreremo, pubblicata nel 1985, risulta essere un libro postumo. Un omaggio, vedremo, doveroso quanto meritato. Il titolo, di primo acchito, parrebbe discendere dall’omonimo brevissimo testo a pagina 75, nell’accezione di briciole, piccolissime dosi di checchessia; ma esso, invero, ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera di grazia minuta che regola l’antologia nella sua globalità. Sostenuto dalla famiglia dell’autrice, la quale ne ha evidentemente voluto rispettare la volontà: “Non strappate il mio mondo fatto di carta. Ogni parola, purificata nel silenzio, allontana ogni colpa, diventa fiore azzurro bagnato di cielo”, Muddicheddi, con prefazione di Calogero Conforto, è stato stampato, a cura del Circolo di Cultura Buoni Amici di Salemi, dalla Cored Edizioni di Mazara del Vallo.
Il libro si apre con il componimento A Salemi, nove quartine di endecasillabi con rime alternate abab. Un idilliaco messaggio d’amore e di appartenenza alla sua città: muntagnedda duci / c’hai l’aria frisca... chi porta… ciavuru d’erva, menta, alufareddi... [e] lu celu assunnateddu lu talia. Un testo manifestamente tenero, in ciò assecondato da un copioso ricorso a diminutivi e a vezzeggiativi, peraltro largamente diffusi in tutta la sua produzione. E con questa connotazione di intimità, di benevolenza, di riservatezza dalle quali scaturiscono, i versi ci vengono offerti dall’autrice, ancorché l’ortografia, con qualche particolarità di cui tra poco diremo, esibisce sostanziali accuratezza e coerenza; fattori questi che consentono loro di aggirare le insidiose secche del vernacolo.
Il tema, benché con un taglio più squisitamente storico, è ripreso nel testo dal titolo Lu me paisi: Scunfittu e assicutatu lu Burbuni, / la prima dittatura pruclamata / di Garibaldi assemi a li Picciotti, / Salemi, frac e tuba, l’ha firmata.
L’argomento tuttavia non è, per Maria Favuzza, di quelli che si esauriscono sbrigativamente; ed ecco un terzo componimento, Cena di San Giuseppi, viene indirizzato a Salemi, lu caru me paisi, colto stavolta all’insegna del fervore religioso, della devozione spirituale che si combina alla larga adesione popolare. E Maria Favuzza allestisce una minuziosa e baluginante descrizione della Cena di San Giuseppe, celebrazione che si svolge nel giorno della festa del santo il 19 marzo e che lei rende dinamica, icastica ai nostri occhi, ben oltre qualsivoglia depliant turistico: cena di fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata.
I testi immediatamente successivi a quello d’apertura investono subito il nucleo dei motivi che più hanno fatto vibrare le sue corde: gli affetti e il focolare domestico, la “roba”, il lavoro e tutto quanto a questi mondi collegato.
Naca, cucchiaru, piattera, luma, campana… e poi tazzi, bucala, cicari, bicchiera, ‘nciratina… gli oggetti della vita familiare, la “misura” della ordinaria esistenza.
Realtà dura, Setti rispiri dintra na casuzza / si spartinu lu lettu / e lu panuzzu, che è sì povertà ma anche dignità, che sa coniugare la drastica pratica quotidiana con un atteggiamento di fiducia nel futuro, nella quale la natura, con il suo variegato campionario di flora e di agenti naturali: nuvole, vento, cielo…, domina e il sole, astro che vi primeggia, nel suo vessillo di luce, di calore, di vita rischiara, riscalda, rincuora. Habitat che mi fa sovvenire un altro autore a me caro, Francesco Leone da Castellammare del Golfo (TP), nei metri del quale, come in Maria Favuzza, si ravvisano, in tutta la loro spietata crudezza, i tratti eloquenti di un sofferto vissuto, specie negli anni tra le due guerre, marchiato da “miseria, disoccupazione, emigrazione”; tempi angariusi quando, annota Francesco Leone, il pranzo consisteva di un peri di brocculu e pampini, taddi e civu di lu trunzu p’aumintari la dota. E, malgrado la vita era na giostra chi stenta a girari, dintra la casa, ridinu li cosi, annea la pasta e nta lu vugghiu abballa, c’è ciavuru di sarsa e finucchieddu.
Lo sguardo di Maria Favuzza avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri, per quelli che verranno dopo, per coloro che a quel contesto storico, sociale, culturale non sono appartenuti o sono appartenuti solo di striscio, e non avranno perciò modo di conoscerlo, di viverlo tranne che ripercorrendolo nel verbo immortale del poeta (“può morire Giove – Carducci docet – ma l’inno del poeta resta”).
E, dicevamo poc’anzi, il lavoro, in un’epoca in cui le macchine erano un miraggio e l’uomo svolgeva le proprie occupazioni, che connaturate alla oggettività rurale del territorio e del tempo erano principalmente quelle dei campi, con il solo ausilio degli animali; uno per tutti lu sciccareddu di la senia, remissivo, pasinziusu, cu l’occhi binnati, che un giro dopo l’altro sciogghi na canzuna a lu silenziu di la sira.
In tale clima, lirico quanto realistico, nostalgico quanto attento alla ineluttabilità del mondo in travolgente evoluzione, concreto quanto orientato alle istanze dello spirito, si innesta il recupero di un lessico svigorito o di imminente declino: iffula (matassa), caiuna (dirupi), pilusci (pellicce), chiumazza (materassi), ragnola (grandine), balacu (violacciocca), sciavateddri (mufuletti), sagnaturi (mattarello), ammartucata (debilitata), mirriuni (fazzoletto annodato alla nuca), trubeli (tovaglia da tavola).
Ci sono delle immagini ricorrenti nella poesia di Maria Favuzza: lu patri [chi] torna versu sira, lu cani [chi] abbaia, la pasta stisa a li canni, a comprova che questi frangenti attenevano a quel vivere, al vivere suo e a quello dei suoi coevi. La figura sociale del padre, peraltro, è ben assidua nella sua produzione al pari della figura della madre. Quanto a questa, la quale tinia d’occhiu lu porcu, li addrini, / lu furmentu, il fare la calza con gli aghi, busi [chi] chiacchiarianu… agghiuttinu cuttuni e fanno crescere la quasetta, non ne allevia la pena allorquando, come spesso avveniva e tuttora avviene alle nostre latitudini, lei vede il proprio figlio andare via, emigrare in
cerca di fortuna. Quel cammino della speranza piuttosto, quella “fuga” in terra straniera, quell’andare senza turnari chiù, è da lei percepito col dolore di chi sente lacerare la propria persona e diviene lamentu longu, senza na palora, chiantu / chi si sicca nta la manu.
Ma il suo è un caleidoscopio riccamente mutevole: una affascinante, femminile, riedizione mitologica della Sicilia, in base alla quale essa ha avuto origine da uno scialle che la luna avia supra li spaddi e che un ventu vagabbunnu… c’un sciusciu fece cadere sul mari cristallinu dispiegandolo a forma di tri pizzi arriccamati; lu trangulu, da tranguliari nella nozione di scuotere con forza, scrollare, traballare, il tipico movimento che accompagna, all’armonia delle cianciani e delle canzuni, il passo del carretto, trufeu anticu, tirato dal cavallo impennacchiato e condotto dal carritteri cu la zotta ‘manu; la malinconica percezione, non esente da una vena di rimpianto, di un mondo agreste che non è più: lu trappitu, la mola, l’aratu, li vamperi, la rasula, lu tripporu… li casi di lu feu petra su petra / caderu a pezzi, ‘mmezzu la campagna, e di esso, chi di biancu vistia amuri e cori, sulu lu riordu tampasia.
Quanto detto parrebbe a sufficienza promuovere la poesia di Maria Favuzza, ma… “È la forma – sostiene Attila József – che fa l’arte, benché il carattere artistico essa lo riceva dal significato, dal contenuto”.
E allora sfogliamo insieme alcune delle formulazioni della sua poesia: l’immagine graffiante di la terra [chi] vugghi / di caluri e ciàvuru; l’illustrazione dei giochi innocenti dell’infanzia, fatti di poco, quando non addirittura di nulla e, cosa più di ogni altra, condotti all’aria aperta: na nuvula... cuntenta chi na petra… po dari tanta gioia ad un nuccenti… na stidda… caduta di lu celu… fatta di lanna lustra di pignata; il quadro immaginifico per cui, partendo da spunti esili che le virtù del poeta elevano a dignità d’arte, nta na stratuzza funna e silinziusa, il sole scende ammirato a giocare con un gruppo di ragazzi.
Un componimento, Nta na stratuzza, di grande perizia, da leggere con dedizione, con coinvolgimento, con riguardo alle scansioni, al fine di ammirarne la tensione lirica, la meraviglia della invenzione e della icona. Un entusiasta elogio a uno tra i testi migliori della crestomazia al quale nella sua interezza vi rimandiamo e di cui, solo a mo’ di assaggio, si riporta una quartina: Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia.
E per arrotondare questa rapida rassegna: lu pani [chi] ogni simana ‘n casa si facia. Una festa di gioia e di bontà da seguire passo passo, in cui, nelle circostanze delle festività: Natali, Pasqua, Carnalivari che nel corso dell’anno si susseguono, si imbandiva lu tavuleri con ficusicchi, sfinci, cucciddati, tagghiarini, stufatu… e leggendo e vedendo, e calandoci senza resistenza in quell’ologramma, ne seguiamo e apprendiamo il procedimento di preparazione, ne percepiamo la fragranza, ci sale l’acquolina in bocca, sentiamo e cantiamo, stando a ridosso del forno, la supplica che accompagna il culto con l’invocazione dei santi Antonu, Zita, Sidoru, Antuninu, Ati e Nicola. Ma il rito è propizio per manifestare agli altri, alla “vicina incinta”, alla cummari c’avia figghi, attorno al pane, ai cuddrureddra, sciavateddri, miliddri… quei sentimenti di solidarietà, amicizia, calore umano che contrassegnavano la fetta più sana delle nostre comunità; Curcatu lu silenziu supra un ciuri / svigghiava na nuttata di suspiri, / svigghiava na nuttata di duluri / e larmi, persi mmezzu a tanti spini; lu sicchiu pinnìa / supra lu puzzu… stancu di li scinnuti e l’acchianati. Seducente il fotogramma lu sicchiu… stancu di li scinnuti e l’acchianati, come se fosse il secchio – ve lo figurate! – a dovere autonomamente procedere su e giù per il pozzo e non già il volere dell’uomo ad obbligarlo a forza a quell’andirivieni, non fosse viceversa l’uomo a provare quella spossatezza che, magari a causa delle condizioni di canicola estiva, tale attività determina.
E arriviamo, zoomando tra le pagine sia di Muddicheddi che di Poesie, agli esiti più allettanti e a qualche peculiarità.
Lu celu / cadutu nta na zotta chi spicchia. Sorprendente affinità con la soluzione alla quale pervenne Nino Orsini (del quale si è discorso): Na zotta d’acqua… [è] sbalancu di celu a li me’ pedi. Indice esplicito che taluni artisti, nel loro individuale iter di ricerca – non mi risulta difatti,
dalla mia frequentazione letteraria di Nino Orsini, che quest’ultimo e Maria Favuzza si conoscessero o conoscessero i rispettivi materiali – approdano, per maturazione artistica non dissociata dall’umore dei tempi, a risultati innegabilmente simili.
Pinzeri virdi, scruscinu l’anni e comu chiummu pìsanu. Pinzeri virdi, parafrasando una memorabile frase, è “un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per la poesia dialettale siciliana”. Una, tra virgolette, rivoluzione legata sì alla fase della realizzazione, della scrittura, della traduzione del concetto in superficie vergata, ma che è compiuta già prima, e più, nel medesimo istante del concepimento dell’inconsueto accostamento tra pinzeri e virdi, nella specialità del timbro, nella suggestione, nella rigenerata energia che dalla aggregazione tra pinzeri + virdi si statuisce. Locuzioni autenticamente siciliane, efficaci ideazioni, sublimazione del frasario usuale investono la concreta esecuzione del suo dettato: na casa / ntilarata di lacrimi e di risa; lu ventu arruzzulìa la megghiu vita / dintra ‘na lanna vecchia ammattucata; scinnia la luna cu scarpi di sita; trova lu ventu mazzi di risati; la primavera dormi tra li ciuri.
La luna a la finestra di lu celu / spampina leggi veli di palluri. Molti incipit di Maria Favuzza sono incisivi sotto il profilo dell’estro, del richiamo fonico ed emotivo, della enunciazione innovativa della cifra poetica. C’è una felice combinazione, che di certo non poteva essere casuale, un mix avvincente che nel trapanese ne fanno per l’epoca un raro archetipo di autore incline a destreggiarsi fra la solidità della tradizione, fatta di rime, prevalente uso dell’endecasillabo, valori che pescano (bene) nel solco e nella saggezza della poesia popolare, e lo spirito, l’attitudine a innestare in quel solco le piantine, le cui forme, colori, odori nuovi, daranno frutti nuovi. La suddivisione, ovviamente, non è così netta e le due anime convivono fianco a fianco nella stessa cartella, si ammiccano a distanza nella stessa selezione, coesistono scambievolmente tollerandosi: in sintesi, tradizione e formalizzazioni liriche avanzate che si frappongono.
Tempu di Natali. Questo componimento a pagina 55 di Muddicheddi è altresì compreso, in una stesura diversa, nel più lungo e articolato componimento racchiuso nel volume Poesie dal titolo Li ficusicchi, del quale è la sezione conclusiva; come ne fosse un estratto, spicchio pregevole tanto da emanciparsi e da spiccare il volo in solitaria.
Il titolo, Rapi la finistredda, che apre la raccolta Poesie, del 1976, Maria Favuzza perciò in vita, ci induce a una aggiuntiva riflessione riguardo alla dd, che costituisce uno fra i suoni caratteristici del dialetto siciliano (si veda, in tema, un precedente capitolo di questo volume). Il segno, registriamo, è reso sia con dd: finistredda, stiddi, capiddi, eccetera, che con ddr: aneddri, picciriddra, vaneddra, cuteddru, sintomo che una scelta non venne fatta.
La poesia di Maria Favuzza trapela della identità dell’autrice: semplice, radicata nel proprio territorio, dignitosa, e il linguaggio, ancorché guarnito dalla creatività, dal talento, dal “mestiere” di cui il poeta è detentore, distilla pulsioni, vicende, inquietudini del suo tempo e della sua gente. Nell’avanzare del progresso tecnologico, aggeggi moderni… chi fannu li sirvizza, che ci trova impreparati, ci destabilizza, ci crea ansia per il futuro, la casa nun mi pari chiù la stissa… a bidiri li mura cu fili e buttuna, in contrapposizione a una condizione sociale vieppiù imperante di solitudine e prostrazione, eu sempri a lu scuru ammartucata, Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio.
Si avverte una grazia tutta femminile nel dettato, un garbo remoto, di quando in quando una vena crepuscolare, vita passeggera, / gemma chi di biddizza si cumpiaci, / rosa chi ciurisci / e ridi allera … tu sicca mori … e ti sperdi lu ventu / c’un suspiru, lu tempu pilligrinu / fa di lu ventu un chiantu, l’urtimu cappottu / chiusu cu lu buttuni di la cruci, un tocco ognora rispettoso della “materia” che lei va a trattare, maneggiare, strutturare, perché, lei presagisce, essa è materia fragile, preziosa, materia che il tempo renderà unica, irripetibile.
Nella foto, la locandina di una recente Videoconferenza