USANZE E RITI DEL CAPODANNO

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“Anno nuovo, vita nuova”. E’ quello che ci attendiamo dell’anno che sta per arrivare. Ci sono timide speranze che ci si possa avviare verso una graduale normalità, questo sì. Mutazioni permettendo, dipenderà molto dagli esiti vaccinali: sarà possibile sconfiggere con rapidità il virus oppure no? “Cchiù scuru ‘i menzannotti non po’ fari” affermano i più pessimisti; è uno stoico modo per consolarsi che dalle nostre parti trova sempre conferme. Ma c’è pure chi di necessità ne fa virtù. Ecco allora entrare in scena la cabala. Ognuno si consola a modo proprio. C’è chi prega, chi fa gli scongiuri e chi invece preferisce, al bar o dal tabaccaio, giocarsi i numeri al lotto. Abbandonati i tradizionali sogni, si va sul concreto. Il primato del “Lotto” spetta a Napoli, ma “Fatti ‘a nomina e vo’ cùrcati” si dice. E Catania, in fatto di giocate non scherza di certo.Non sappiamo se qualcuno abbia già azzeccato la combinazione giusta, ma i numeri sul “coronavirus” si continuano ancora a giocare. Al virus e’ stato attribuito ovviamente il numero 19. Per formare il terno secco su tutte le ruote, o meglio su una sola che potrebbe elargire una cospicua sommetta al fortunato, ne occorreranno altri due. Qui le variabili possono essere tante…allora “Strugghemucci ‘i nummira”. Sempre in tema di tradizioni, il Capodanno ha i suoi riti. I botti, quelli che sono legali perché non pericolosi, servono a scacciare tutte le negatività. Illuminano il cielo di colori variopinti che conferiscono all’evento un forte impatto di suggestività. Anche l’occhio vuole la sua parte. Ma è a tavola che “si gioca” il possibile destino dell’anno che sta per scoccare. Il “Cenone” ha la sua importanza; il menù e tutto ciò che fa da contorno deve essere scelto con cura. Secondo il grande Demopsicologo palermitano Giuseppe Pitrè: “Cu mangia a Capudannu maccarruni, tuttu l’annu sa fa arruzzuluni!” Non sappiamo cosa sia potuto accadere durante lo scorso San Silvestro, ma qualcosa forse non avrà funzionato. Nei vecchi sussidiari di scuola però una filastrocca ci insegnava: “Io sono il padre di dodici figli/ e tutti quanti sono mortali;/ vesto di rose, di fronde e di gigli/ non ce n’è uno all’altro uguale(…). E’ vero. Ma è altrettanto vero che ognuno lo vorrebbe plasmato a seconda dei propri desideri. In virtù di ciò, la superstizione tende sempre a superare anche la più palese razionalità. A dominare la notte di Capodanno è sempre il colore rosso. Rossa la tovaglia da tavolo, rosse le candele, rossa perfino la biancheria intima. Qualcuno adesso storcerà il muso, ma la tradizione pare provenga dalla Cina. Nel simbolismo orientale, infatti, il rosso è il colore della fortuna, della prosperità e della buona sorte. Niente male. I pensieri dovranno essere tutti positivi. Attenzione a quello che si fa, perché l’anno a venire potrebbe essere caratterizzato proprio dagli atti compiuti poco prima della mezzanotte. Vietato ai più piccoli il gioco delle carte, potrebbero acquisire questo brutto vizio. Mai piangere, per carità! Meglio il sorriso. Da qui l’allegria della comitiva che trova il suo momento più alto nello stappo dello spumante( o dello Champagne). Il “botto” più è forte e più fortunato sarà l’anno entrante. La fortuna è quasi sempre sinonimo di ricchezza economica; ecco perciò entrare in campo, anzi a tavola, il cotechino con contorno di lenticchie. Già dai tempi degli antichi romani era tradizione mangiare questo legume che ben appiattito simboleggiava la moneta d’oro. Mangiarle quanto più cotte possibile comporta…un aumento di volume. Dunque, chi più ne ha, più ne metta! Questa antica usanza contrasta con quella attuale che per meglio ingraziarsi la sorte, c’è chi preferisce intascarne delle belle “manciate” crude. La variante alle lenticchie sono i chicchi d’uva, ma è una usanza praticata più in Spagna che in Italia. Paese che vai, usanze che trovi. L’anno che verrà è sempre un rebus. Col morale sotto i tacchi conviene affidarsi alla omonima canzone di Lucio Dalla. Un testo utopistico capace però di infondere grande speranza. E allora in alto i calici per un “Cin-cin” liberatorio con tanto di sonoro “tin-tin”. Usanza anch’essa attribuita alla…Cina. Deriverebbe da due parole: Ch’ing Ch’ing, che nel suo significato più moderno vuol dire “Bacio”. E allora: “Prosit” che sia, cioè, “di giovamento”. Speriamo. Auguri.

 

Pubblicato su La Sicilia del 27.12.'20

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