MARIA FAVUZZA: Tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita.

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Maria Favuzza nacque a Salemi (TP) il 24 dicembre 1902 e morì il 14 febbraio 1981. 

Il tempo nondimeno, gli oltre trenta anni trascorsi dalla sua scomparsa, non ne hanno affievolito l’affettuoso ricordo in quanti l’hanno conosciuta e amata, né ne hanno sbiadito la levatura di poeta. 

Rosanna Sanfilippo, nel suo intervento Gli scrittori di Salemi, nelle circostanze del convegno Poesia, narrativa, saggistica in provincia di Trapani organizzato dall’I.S.S.P.E., Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici, presieduto da Dino Grammatico, convegno svoltosi a Erice (TP) il 10 giugno 2001, la omaggiava in questi termini: “La sua è una poesia semplice e immediata. Sentimenti e figure di vita paesana e familiare vengono raccontati rendendo partecipe il lettore di ogni più piccolo gesto rituale”. 

Ma già nel 1976, a riconoscimento della validità del suo dettato, Gioacchino Aldo Ruggieri l’aveva inclusa nella raccolta di poesia dialettale inedita o poco nota dell’Ottocento e Novecento da lui curata e titolata Amore di Sicilia, assieme con nomi all’epoca quotati quali: Emanuele Angileri, Liborio Dia, i Fratelli Giangrasso, Mariano Lamartina e altri. E nel medesimo anno 1976 aveva visto la luce a Palermo la sua silloge Poesie, dalla prefazione della quale traiamo: “I suoi versi esprimono la rievocazione nostalgica di un mondo che ha cambiato volto, dove non c’è più posto per gli ingenui incanti che una volta consolavano le esistenze semplici e affaticate”. 

Impiegata presso l’Ufficio Registro di Salemi, Maria Favuzza seppe dotarsi dei mezzi linguistici e culturali atti ad esprimere in un buon italiano la propria Weltanschauung. Ebbene, perché il dialetto? La risposta credo sia semplicemente perché “quell’arcobaleno di ricordi, variegato di tinte chiare e scure sul lungo spazio di una vita”, quelle poesie, nate col deliberato proposito di fissare esperienze e sensazioni, sono state concepite giusto così, sono state scritte in siciliano perché il suo sentire era siciliano, i suoi pensieri nascevano in siciliano, il suo animo era convintamente siciliano. E pertanto la sua predilezione del dialetto è da stimare una opzione pienamente responsabile. 

Muddicheddi, la sua opera più apprezzabile sia per la quantità che per la qualità dei contributi e dei temi, della quale per stralci discorreremo, pubblicata nel 1985, risulta essere un libro postumo. Un omaggio, vedremo, doveroso quanto meritato. Il titolo, di primo acchito, parrebbe discendere dall’omonimo brevissimo testo a pagina 75, nell’accezione di briciole, piccolissime dosi di checchessia; ma esso, invero, ritengo abbia inteso delineare l’atmosfera di grazia minuta che regola l’antologia nella sua globalità. Sostenuto dalla famiglia dell’autrice, la quale ne ha evidentemente voluto rispettare la volontà: “Non strappate il mio mondo fatto di carta. Ogni parola, purificata nel silenzio, allontana ogni colpa, diventa fiore azzurro bagnato di cielo”, Muddicheddi, con prefazione di Calogero Conforto, è stato stampato, a cura del Circolo di Cultura Buoni Amici di Salemi, dalla Cored Edizioni di Mazara del Vallo. 

Il libro si apre con il componimento A Salemi, nove quartine di endecasillabi con rime alternate abab. Un idilliaco messaggio d’amore e di appartenenza alla sua città: muntagnedda duci / c’hai l’aria frisca... chi porta… ciavuru d’erva, menta, alufareddi... [e] lu celu assunnateddu lu talia. Un testo manifestamente tenero, in ciò assecondato da un copioso ricorso a diminutivi e a vezzeggiativi, peraltro largamente diffusi in tutta la sua produzione. E con questa connotazione di intimità, di benevolenza, di riservatezza dalle quali scaturiscono, i versi ci vengono offerti dall’autrice, ancorché l’ortografia, con qualche particolarità di cui tra poco diremo, esibisce sostanziali accuratezza e coerenza; fattori questi che consentono loro di aggirare le insidiose secche del vernacolo. 

 

Il tema, benché con un taglio più squisitamente storico, è ripreso nel testo dal titolo Lu me paisi: Scunfittu e assicutatu lu Burbuni, / la prima dittatura pruclamata / di Garibaldi assemi a li Picciotti, / Salemi, frac e tuba, l’ha firmata. 

L’argomento tuttavia non è, per Maria Favuzza, di quelli che si esauriscono sbrigativamente; ed ecco un terzo componimento, Cena di San Giuseppi, viene indirizzato a Salemi, lu caru me paisi, colto stavolta all’insegna del fervore religioso, della devozione spirituale che si combina alla larga adesione popolare. E Maria Favuzza allestisce una minuziosa e baluginante descrizione della Cena di San Giuseppe, celebrazione che si svolge nel giorno della festa del santo il 19 marzo e che lei rende dinamica, icastica ai nostri occhi, ben oltre qualsivoglia depliant turistico: cena di fidi, oduri, / grazii. Di fulcluri tramannatu, / di genti timurata. 

I testi immediatamente successivi a quello d’apertura investono subito il nucleo dei motivi che più hanno fatto vibrare le sue corde: gli affetti e il focolare domestico, la “roba”, il lavoro e tutto quanto a questi mondi collegato. 

Naca, cucchiaru, piattera, luma, campana… e poi tazzi, bucala, cicari, bicchiera, ‘nciratina… gli oggetti della vita familiare, la “misura” della ordinaria esistenza. 

Realtà dura, Setti rispiri dintra na casuzza / si spartinu lu lettu / e lu panuzzu, che è sì povertà ma anche dignità, che sa coniugare la drastica pratica quotidiana con un atteggiamento di fiducia nel futuro, nella quale la natura, con il suo variegato campionario di flora e di agenti naturali: nuvole, vento, cielo…, domina e il sole, astro che vi primeggia, nel suo vessillo di luce, di calore, di vita rischiara, riscalda, rincuora. Habitat che mi fa sovvenire un altro autore a me caro, Francesco Leone da Castellammare del Golfo (TP), nei metri del quale, come in Maria Favuzza, si ravvisano, in tutta la loro spietata crudezza, i tratti eloquenti di un sofferto vissuto, specie negli anni tra le due guerre, marchiato da “miseria, disoccupazione, emigrazione”; tempi angariusi quando, annota Francesco Leone, il pranzo consisteva di un peri di brocculu e pampini, taddi e civu di lu trunzu p’aumintari la dota. E, malgrado la vita era na giostra chi stenta a girari, dintra la casa, ridinu li cosi, annea la pasta e nta lu vugghiu abballa, c’è ciavuru di sarsa e finucchieddu. 

Lo sguardo di Maria Favuzza avvolge carezzevole, elenca, nomina quelle cose, la sua penna le ferma, le scrive, le imprime sulla carta, nella volontà, nella responsabilità di perpetuarle, più che per sé per gli altri, per quelli che verranno dopo, per coloro che a quel contesto storico, sociale, culturale non sono appartenuti o sono appartenuti solo di striscio, e non avranno perciò modo di conoscerlo, di viverlo tranne che ripercorrendolo nel verbo immortale del poeta (“può morire Giove – Carducci docet – ma l’inno del poeta resta”). 

E, dicevamo poc’anzi, il lavoro, in un’epoca in cui le macchine erano un miraggio e l’uomo svolgeva le proprie occupazioni, che connaturate alla oggettività rurale del territorio e del tempo erano principalmente quelle dei campi, con il solo ausilio degli animali; uno per tutti lu sciccareddu di la senia, remissivo, pasinziusu, cu l’occhi binnati, che un giro dopo l’altro sciogghi na canzuna a lu silenziu di la sira. 

In tale clima, lirico quanto realistico, nostalgico quanto attento alla ineluttabilità del mondo in travolgente evoluzione, concreto quanto orientato alle istanze dello spirito, si innesta il recupero di un lessico svigorito o di imminente declino: iffula (matassa), caiuna (dirupi), pilusci (pellicce), chiumazza (materassi), ragnola (grandine), balacu (violacciocca), sciavateddri (mufuletti), sagnaturi (mattarello), ammartucata (debilitata), mirriuni (fazzoletto annodato alla nuca), trubeli (tovaglia da tavola). 

Ci sono delle immagini ricorrenti nella poesia di Maria Favuzza: lu patri [chi] torna versu sira, lu cani [chi] abbaia, la pasta stisa a li canni, a comprova che questi frangenti attenevano a quel vivere, al vivere suo e a quello dei suoi coevi. La figura sociale del padre, peraltro, è ben assidua nella sua produzione al pari della figura della madre. Quanto a questa, la quale tinia d’occhiu lu porcu, li addrini, / lu furmentu, il fare la calza con gli aghi, busi [chi] chiacchiarianu… agghiuttinu cuttuni e fanno crescere la quasetta, non ne allevia la pena allorquando, come spesso avveniva e tuttora avviene alle nostre latitudini, lei vede il proprio figlio andare via, emigrare in 

cerca di fortuna. Quel cammino della speranza piuttosto, quella “fuga” in terra straniera, quell’andare senza turnari chiù, è da lei percepito col dolore di chi sente lacerare la propria persona e diviene lamentu longu, senza na palora, chiantu / chi si sicca nta la manu. 

Ma il suo è un caleidoscopio riccamente mutevole: una affascinante, femminile, riedizione mitologica della Sicilia, in base alla quale essa ha avuto origine da uno scialle che la luna avia supra li spaddi e che un ventu vagabbunnu… c’un sciusciu fece cadere sul mari cristallinu dispiegandolo a forma di tri pizzi arriccamati; lu trangulu, da tranguliari nella nozione di scuotere con forza, scrollare, traballare, il tipico movimento che accompagna, all’armonia delle cianciani e delle canzuni, il passo del carretto, trufeu anticu, tirato dal cavallo impennacchiato e condotto dal carritteri cu la zotta ‘manu; la malinconica percezione, non esente da una vena di rimpianto, di un mondo agreste che non è più: lu trappitu, la mola, l’aratu, li vamperi, la rasula, lu tripporu… li casi di lu feu petra su petra / caderu a pezzi, ‘mmezzu la campagna, e di esso, chi di biancu vistia amuri e cori, sulu lu riordu tampasia. 

Quanto detto parrebbe a sufficienza promuovere la poesia di Maria Favuzza, ma… “È la forma – sostiene Attila József – che fa l’arte, benché il carattere artistico essa lo riceva dal significato, dal contenuto”. 

E allora sfogliamo insieme alcune delle formulazioni della sua poesia: l’immagine graffiante di la terra [chi] vugghi / di caluri e ciàvuru; l’illustrazione dei giochi innocenti dell’infanzia, fatti di poco, quando non addirittura di nulla e, cosa più di ogni altra, condotti all’aria aperta: na nuvula... cuntenta chi na petra… po dari tanta gioia ad un nuccenti… na stidda… caduta di lu celu… fatta di lanna lustra di pignata; il quadro immaginifico per cui, partendo da spunti esili che le virtù del poeta elevano a dignità d’arte, nta na stratuzza funna e silinziusa, il sole scende ammirato a giocare con un gruppo di ragazzi. 

Un componimento, Nta na stratuzza, di grande perizia, da leggere con dedizione, con coinvolgimento, con riguardo alle scansioni, al fine di ammirarne la tensione lirica, la meraviglia della invenzione e della icona. Un entusiasta elogio a uno tra i testi migliori della crestomazia al quale nella sua interezza vi rimandiamo e di cui, solo a mo’ di assaggio, si riporta una quartina: Nta na stratuzza funna e silinziusa, / c’è sciamu di picciotti ed alligria; / lu suli scinni a fari assemi un gniocu, / s’assetta a lu bastiuni e li talia. 

E per arrotondare questa rapida rassegna: lu pani [chi] ogni simana ‘n casa si facia. Una festa di gioia e di bontà da seguire passo passo, in cui, nelle circostanze delle festività: Natali, Pasqua, Carnalivari che nel corso dell’anno si susseguono, si imbandiva lu tavuleri con ficusicchi, sfinci, cucciddati, tagghiarini, stufatu… e leggendo e vedendo, e calandoci senza resistenza in quell’ologramma, ne seguiamo e apprendiamo il procedimento di preparazione, ne percepiamo la fragranza, ci sale l’acquolina in bocca, sentiamo e cantiamo, stando a ridosso del forno, la supplica che accompagna il culto con l’invocazione dei santi Antonu, Zita, Sidoru, Antuninu, Ati e Nicola. Ma il rito è propizio per manifestare agli altri, alla “vicina incinta”, alla cummari c’avia figghi, attorno al pane, ai cuddrureddra, sciavateddri, miliddri… quei sentimenti di solidarietà, amicizia, calore umano che contrassegnavano la fetta più sana delle nostre comunità; Curcatu lu silenziu supra un ciuri / svigghiava na nuttata di suspiri, / svigghiava na nuttata di duluri / e larmi, persi mmezzu a tanti spini; lu sicchiu pinnìa / supra lu puzzu… stancu di li scinnuti e l’acchianati. Seducente il fotogramma lu sicchiu… stancu di li scinnuti e l’acchianati, come se fosse il secchio – ve lo figurate! – a dovere autonomamente procedere su e giù per il pozzo e non già il volere dell’uomo ad obbligarlo a forza a quell’andirivieni, non fosse viceversa l’uomo a provare quella spossatezza che, magari a causa delle condizioni di canicola estiva, tale attività determina. 

E arriviamo, zoomando tra le pagine sia di Muddicheddi che di Poesie, agli esiti più allettanti e a qualche peculiarità. 

Lu celu / cadutu nta na zotta chi spicchia. Sorprendente affinità con la soluzione alla quale pervenne Nino Orsini (del quale si è discorso): Na zotta d’acqua… [è] sbalancu di celu a li me’ pedi. Indice esplicito che taluni artisti, nel loro individuale iter di ricerca – non mi risulta difatti, 

dalla mia frequentazione letteraria di Nino Orsini, che quest’ultimo e Maria Favuzza si conoscessero o conoscessero i rispettivi materiali – approdano, per maturazione artistica non dissociata dall’umore dei tempi, a risultati innegabilmente simili. 

Pinzeri virdi, scruscinu l’anni e comu chiummu pìsanu. Pinzeri virdi, parafrasando una memorabile frase, è “un piccolo passo per l’uomo, ma un grande passo per la poesia dialettale siciliana”. Una, tra virgolette, rivoluzione legata sì alla fase della realizzazione, della scrittura, della traduzione del concetto in superficie vergata, ma che è compiuta già prima, e più, nel medesimo istante del concepimento dell’inconsueto accostamento tra pinzeri e virdi, nella specialità del timbro, nella suggestione, nella rigenerata energia che dalla aggregazione tra pinzeri + virdi si statuisce. Locuzioni autenticamente siciliane, efficaci ideazioni, sublimazione del frasario usuale investono la concreta esecuzione del suo dettato: na casa / ntilarata di lacrimi e di risa; lu ventu arruzzulìa la megghiu vita / dintra ‘na lanna vecchia ammattucata; scinnia la luna cu scarpi di sita; trova lu ventu mazzi di risati; la primavera dormi tra li ciuri. 

La luna a la finestra di lu celu / spampina leggi veli di palluri. Molti incipit di Maria Favuzza sono incisivi sotto il profilo dell’estro, del richiamo fonico ed emotivo, della enunciazione innovativa della cifra poetica. C’è una felice combinazione, che di certo non poteva essere casuale, un mix avvincente che nel trapanese ne fanno per l’epoca un raro archetipo di autore incline a destreggiarsi fra la solidità della tradizione, fatta di rime, prevalente uso dell’endecasillabo, valori che pescano (bene) nel solco e nella saggezza della poesia popolare, e lo spirito, l’attitudine a innestare in quel solco le piantine, le cui forme, colori, odori nuovi, daranno frutti nuovi. La suddivisione, ovviamente, non è così netta e le due anime convivono fianco a fianco nella stessa cartella, si ammiccano a distanza nella stessa selezione, coesistono scambievolmente tollerandosi: in sintesi, tradizione e formalizzazioni liriche avanzate che si frappongono. 

Tempu di Natali. Questo componimento a pagina 55 di Muddicheddi è altresì compreso, in una stesura diversa, nel più lungo e articolato componimento racchiuso nel volume Poesie dal titolo Li ficusicchi, del quale è la sezione conclusiva; come ne fosse un estratto, spicchio pregevole tanto da emanciparsi e da spiccare il volo in solitaria. 

Il titolo, Rapi la finistredda, che apre la raccolta Poesie, del 1976, Maria Favuzza perciò in vita, ci induce a una aggiuntiva riflessione riguardo alla dd, che costituisce uno fra i suoni caratteristici del dialetto siciliano (si veda, in tema, un precedente capitolo di questo volume). Il segno, registriamo, è reso sia con dd: finistredda, stiddi, capiddi, eccetera, che con ddr: aneddri, picciriddra, vaneddra, cuteddru, sintomo che una scelta non venne fatta. 

La poesia di Maria Favuzza trapela della identità dell’autrice: semplice, radicata nel proprio territorio, dignitosa, e il linguaggio, ancorché guarnito dalla creatività, dal talento, dal “mestiere” di cui il poeta è detentore, distilla pulsioni, vicende, inquietudini del suo tempo e della sua gente. Nell’avanzare del progresso tecnologico, aggeggi moderni… chi fannu li sirvizza, che ci trova impreparati, ci destabilizza, ci crea ansia per il futuro, la casa nun mi pari chiù la stissa… a bidiri li mura cu fili e buttuna, in contrapposizione a una condizione sociale vieppiù imperante di solitudine e prostrazione, eu sempri a lu scuru ammartucata, Maria Favuzza si fa portavoce dello status di una generazione, delle vicissitudini, del costume, dei trasalimenti di una civiltà al tramonto e, nel clima rarefatto della rievocazione, la salva dall’oblio. 

Si avverte una grazia tutta femminile nel dettato, un garbo remoto, di quando in quando una vena crepuscolare, vita passeggera, / gemma chi di biddizza si cumpiaci, / rosa chi ciurisci / e ridi allera … tu sicca mori … e ti sperdi lu ventu / c’un suspiru, lu tempu pilligrinu / fa di lu ventu un chiantu, l’urtimu cappottu / chiusu cu lu buttuni di la cruci, un tocco ognora rispettoso della “materia” che lei va a trattare, maneggiare, strutturare, perché, lei presagisce, essa è materia fragile, preziosa, materia che il tempo renderà unica, irripetibile.

 

Nella foto, la locandina di una recente Videoconferenza