CATANIA: PORTA GARIBALDI( L'ARCU 'O FUTTINU)

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Per le guide turistiche è “Porta Garibaldi”, per i catanesi che si definiscono “Marca Liotru”, è “L’arcu ‘o futtinu”. E’ un “Arco trionfale” una porta di Bellezza, non un fortino. Il vero “fortino” quello ancora esistente più a sud, in via Sacchero, è ben altro. E’ una porta appartenente alla cinta muraria cinquecentesca, danneggiata dall’eruzione del 1669 e prontamente fatta ricostruire sulle lave ancora fumanti. Con la sua imponente struttura zebrata, modellata a “conci squadrati” ricavati dalla pietra dell’Etna e dal bianco della pietra di Lentini, Porta Garibaldi non passa affatto inosservata. Definirlo uno dei simboli più importanti e conosciuti della città, è ancora troppo poco. Nobile, popolare, capolavoro Barocco dai tratti un po' misterici. Reca in sé alcuni importanti e significativi segni della catanesità, a partire dal celebre motto voluto dal principe Ignazio V principe di Biscari e dettato dal pari titolo Rosso di Cerami “Melior de cinere surgo” (Risorgo sempre più viva dalle mie ceneri). Non a caso, al centro, nella parte più alta dell’arcata, svetta una enorme scultura che raffigura la Fenice, simbolo di continuità e rinascita. Perfettamente in asse col Duomo, chiude come una quinta scenografica la via Garibaldi. L’occhio che corre lungo l’asse stradale lievemente in salita; in un bizzarro gioco prospettico, fa apparire molto rimpicciolito questo monumento. Il capolavoro architettonico realizzato ”in famiglia” su progetto dall’architetto Stefano Ittar in collaborazione col suocero ing. Francesco Battaglia, proprio in questi giorni ha compiuto 253 anni. Emulando gli antichi romani che usavano elevare Archi trionfali durante importanti avvenimenti, i catanesi ne vollero costruire uno dedicandolo a Ferdinando I re delle due Sicilie, convolato a nozze con la principessa Maria Carolina d’Austria. Era il 13 maggio del 1768. Una incisione dello Zacco del 1780 riproduce il lato esterno della porta, affiancato da due torrioni tronco-conici, demoliti nell’800. l maestoso “Arco trionfale” mantenne il toponimo “Porta Ferdinandea” in onore del sovrano, fino al 1860; poi allo scoppio della rivolta contro i Borboni, quella dedica fu cancellata. Diventò Porta Garibaldi nel 1862, allorquando l’eroe dei due mondi entrò in città al grido di “Roma o Morte”. Abbattute le insegne borboniche; sostituiti con un grande orologio i ritratti ovali dei reali, il monumento cambiò status: da simbolo nobiliare diventò simbolo del popolo. Ad esso vennero addossate delle costruzioni e, al centro della piazza, un enorme abbeveratoio servì per preparare gli equini al tortuoso viaggio verso occidente. Solo col restauro del 1931 tornò a essere austero e solitario come prima. La totale riqualificazione dell’intera area gli ha ridato vigore, facendolo rinascere a nuova e più moderna veste. A prescindere dalla fausta occasione nuziale, la sua costruzione fu un abile pretesto per riordinare una parte nodale della città. Ottenne il duplice scopo di ingraziarsi il sovrano e allo stesso tempo di riordinare l’intera area. Era necessario infatti garantire l’uscita e i collegamenti verso la Piana e la congiunzione della strada per Palermo. L’arco, voleva indicare il “Limes”, la linea di confine naturale del Centro etneo, essendo posto a cerniera di un sistema binario di piazze. La prima( Crocifisso-Maiorana) rivolta verso l’abitato; la seconda( Palestro) aperta sulla campagna; luogo di botteghe, magazzini e fondaci. Non solo. Essendo in prossimità del cimitero, proprio “sutta l’Arcu do furtinu” si scioglievano tutti cortei funebri. Le commemorazioni del defunto di turno, spesso ridondanti nei toni, gli costò all’intera area il toponimo di “Chianu ‘da minzogna”. Più tardi, il grande Angelo Musco rincarò la dose: “Macari ca campò di mala nomina, doppu ca è mortu è sempri la bon’anima!” Fare transitare il feretro sotto l’arco, era come attribuirgli l’ultimo saluto nel modo più nobile e solenne possibile. Atto che in epoche passate, solo ai grandi sovrani e condottieri veniva riservato. “Passànnu sutta l’arcu d’u Furtinu/ ti trovi di Palestru ‘nta lu Chianu,/ e senza fari cchiù tanti vaneddi/ arrivi rittu rittu e tri canceddi.” Questi versi li scrisse agli inizi del ‘900 un poeta illetterato; uno dei tanti figli di questo quartiere destinato a dare i natali a noti personaggi di spicco nel mondo della letteratura, dell’arte e dello spettacolo.

 

Nella foto, Porta Garibaldi com'era alla fine del '700.

 

Pubblicato su La Sicilia del 16.05.'21