CATANIA VECCHIA
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- Category: Storia e tradizioni popolari
- Created on Tuesday, 26 January 2021 18:11
- Published on Tuesday, 26 January 2021 18:11
- Written by Santo Privitera
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Vi sono luoghi della città che si conoscono a memoria senza necessariamente fare ricorso al toponimo stradale convenzionale. “Unni ni virèmu?....ni virèmu ‘a Porta jaci!!??” Non c’è bisogno di spiegazioni; i catanesi sanno dove si trova: a Piazza Stesicoro, cuore pulsante del Centro storico. “ ‘A porta Jaci” era una delle porte che nell’antica cinta muraria cinquecentesca si apriva a est. Fino all’avvento del tremendo terremoto del 1693, veniva attraversata per andare e venire dalla vasta zona del comprensorio acese. Dopo il 1906, anno in cui venne portato alla luce l’Anfiteatro Romano grazie agli scavi ordinati dall’allora Prosindaco Giuseppe De Felice, alla “ ‘Porta Jaci” venne aggiunto un altro toponimo popolare: “Catania vecchia”. I bambini a solo sentirne parlare trasalivano. Le mamme gli avevano raccontato che sotto quei cunicoli si era perduta una scolaresca con il loro maestro. Una di quelle leggende metropolitane che si raccontano per il solo gusto del mistero. Ancora oggi i catanesi più anziani la denominano così. Prima di allora, questo era uno dei siti pittoreschi della città. Al centro, una grande piazza rettangolare all’interno della quale spiccavano due artistiche fioriere distanziate l’una dall’altra. Era il luogo ideale per rilassanti passeggiate. I nobili, dopo avere assistito alla messa domenicale nella vicina chiesa di San Biagio( ‘a Carcaredda), si mettevano in “vetrina”. Sottobraccio le proprie signore, passo dopo passo salutavano e dispensavano sorrisi a destra e a manca. Negli attigui chioschi sorbivano una bibita prima di recarsi nelle loro rispettive lussuose dimore. Alla decisione di De Felice di avviare i lavori, inizialmente la gente non la prese bene. Peggio quando si resero conto che quest’angolo suggestivo della città stava cambiando volto. “ E chi è stu puttùsu ca ficiunu?!” Si chiese qualcuno. Altri obiettarono: “ Àva statu tant’anni sutta terra…’a picchì ‘no lassàunu unni era!!!” Nel ‘700 il Principe Ignazio di Biscari, mecenate e culturalmente illuminato com’era, aveva tentato di finanziare anche questi scavi; non se ne fece nulla. Ogni cambiamento è duro da accettare. Questo non era roba da poco. La gente mugugnava per diversi motivi. Uno dei quali era riconducibile al giro interno del Fercolo Agatino. Per due anni il percorso subì una sostanziale variazione. Anche l’offerta della cera non potè svolgersi solennemente come prima. In più, in questo lasso di tempo la Salita dei Cappuccini non si potè effettuare. “E ora di unni ‘a cchianamu Sant’Aita?” Apriti cielo! ” Ognuno diceva la sua. Si arrivò a una soluzione. Il Fercolo venne fatto girare per il viale Regina Margherita e poi per via degli Archi, odierna via Antonino Longo. Il provvisorio percorso si rivelò particolarmente difficoltoso. A seguito del fondo accidentato della strada, la preziosa macchina dell’Archifel con il sacro busto reliquiario fu costretto a lunghe soste. Gli sforzi per evitare gli enormi fossati che si aprivano sul terreno furono notevoli. Ultimati i lavori, nel 1906 vi fu la solenne inaugurazione. La conferma che De Felice aveva visto bene, arrivò con gli anni. Riportare alla luce i resti del monumento “sotterraneo” ebbe soprattutto valore altamente simbolico; era una eloquente testimonianza storica del solido rapporto che legava la città dell’Etna all’antica Roma. I ruderi riemersi dalle viscere della terra, sepolti da colate laviche, terremoti e rimaneggiati vari dovuti all’opera dell’uomo, non rendono l’idea della imponenza di questo glorioso edificio dalla forma Ellittica risalente al II Sec d.C. circa. “L’Amphitheatrum insigne” si estendeva in una vasta area a occidente della città. La sua circonferenza esterna misurava ben 309 metri. Costruito interamente in pietra lavica dell’Etna, ricoperta da marmi e abbellita da file di mattoni orizzontali, poteva ospitare oltre 15.000 persone. La parte sommitale si presentava addirittura ricoperta da un “velarium” per il riparare gli spettatori dal sole e dalla pioggia. Vi si svolgevano lotte tra gladiatori e simulazioni di battaglie sul terreno. Per ordine di importanza, pare sia stato considerato il terzo dopo Il Colosseo e l’Arena di Verona. Il suo splendore durò appena pochi secoli. Già nel 498 d.C cadde in disgrazia, tanto che venne richiesto al Re Teodorico l’autorizzazione di impiegare i materiali per la costruzione delle mura perimetrali della città. Le alte colonne, invece, servirono per la realizzazione di altri monumenti. Fu un continuo saccheggio. Quelle pietre servirono pure per la costruzione della “Ecclesia munita”, cioè l’antica chiesa-fortezza Normanna. Ancora oggi dal lato della via Dusmet è possibile ammirare i conci lavici delle Absidi miracolosamente scampate al terremoto del 1693.
Nella Foto, l'Anfiteatro romano secondo una ricostruzione fotografica.
Pubblicato su La Sicilia del 24.01.'21