Storia e tradizioni popolari

LA FESTA DELLA VENDEMMIA

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“Finuta ‘a staciuni balniari ora è tempu di jiri a vinnignari”. Questo detto ci conduce dritti dritti verso l’autunno. Il tempo atmosferico degli ultimi anni, un po’ per il troppo caldo, un po’ per l’eccessivo volume di piogge, ha modificato diverse abitudini. Per conoscere l’andamento climatico a breve, medio e lungo termine, si fa ricorso oggi alle moderne tecnologie meteorologiche. Il pericolo di una improvvisa “Rannuliata”(grandinata) essendo sempre in agguato, consiglia agli agricoltori la raccolta anticipata. Una volta ci si affidava alla abilità empirica dei contadini. Loro, attraverso consolidata esperienza, stabilivano quando “vinnignari ” . Talvolta si ricorreva a veri e propri riti, antiche “formulette” tramandate da padre in figlio. Queste pratiche mai accettate dalla scienza, talvolta si rivelavano prodigiose. La civiltà contadina insegnava che quando si andava “ ‘a naso” i risultati erano assicurati. Più che a settembre, era ottobre il periodo scelto per la vendemmia. L’uva, raggiungendo la sua naturale maturazione, non aveva bisogno di certi prodotti industriali cui spesso si fa ricorso ai tempi nostri. Quando si dice: “Cu sapi chi c’abbiunu…” per rendere il chicco d’uva più grosso di quanto dovrebbe essere, probabilmente è vero. Il problema si intende generale e non riguarda soltanto i vigneti. Oggi la terra soffre. Tra abbandoni, incendi e disboscamenti per fini speculativi, si rischia grosso. “Di stu passu, cu sapi unni ni jemu a teniri… Così commenta l’uomo della strada; lo stesso che ancora ricorda come si svolgeva la vendemmia fino agli anni ’50 dello scorso secolo. Dalla Piana di Catania alle estreme periferie della città fino ad arrivare ai paesi della provincia sparsi nei quattro punti cardinali, la vendemmia era una vera e propria festa. Così in tutte le altre località siciliane. Oggi è diventato “spettacolo” grazie alle “Sagre” organizzate nei paesi dove questa tradizione è ancora molto sentita. A Linguaglossa, Piedimonte, Viagrande e in altre località sono in corso. A vinnigna era considerata fra i lavori più utili, piacevoli e remunerativi della campagna. Un avvenimento che tutti ansiosamente aspettavano sperando di prendervi parte come braccianti o come semplici invitati. Nei grandi appezzamenti di terreno si predisponevano anzitempo tutte le attrezzature necessarie. “ ‘I chiummi”(ciurme) gruppi di uomini e donne muniti degli appositi arnesi, si davano appuntamento in un luogo preciso da cui partire. Al seguito, i carretti colmi di “Cufina” e “Panara” dove riporre il prodotto destinato al palmento. Una “processione” affrontata ben volentieri anche per lunghi tragitti. Ci si partiva prima dell’alba. I pigiatori una volta giunti sul posto, indossate le scarpe chiodate o più semplicemente mettendosi a piedi nudi , davano il via alle “danze” . Accompagnati dal suono di friscaletti, cianciani , fisarmoniche, tamburelli, chitarre e mandolini, era tutta una corale allegria. La musica scandiva le varie fasi del lavoro. Il mosto ancora frizzante raccolto nel tino veniva versato nell’otre da “ ‘U mastru du consu” che a sua volta lo consegnava al carrettiere per il trasporto. Le donne tenevano ritte sul capo ceste stracolme di grappoli d’uva. “ È arrivata la vinnigna, la staciuni i l’amuri, mentri cogghiunu ‘a la vigna, ‘nto me cori nasci ‘nciuri(…) E di fatti, tra i giovani cuffari e le vendemmiatrici “Schette”(nubili) spesso sbocciavano sentimenti di tenera simpatia. La vendemmia era anche occasione per memorabili “abbuffate”: Carne, sasizza arrustuta ‘nto canali”(tegola), fagioli, peperoni e “pani ‘i casa” a volontà. Qualcuno preferiva cibi ancora più “sostanziosi”. E allora ecco che il proprietario faceva preparare per loro ampie portate di “ Piscistoccu alla ghiotta” che a detta dei consumatori: “Non si puteva livari ‘da ucca “. Dalla cisterna si traeva l’acqua potabile, più fresca di quella riposta nel frigorifero. La bevevano i bambini. Gli adulti no, convinti com’erano che durante il pasto “ cu l’acqua nasciunu ‘i larunchi”( Rane) ‘nto stomucu!”… Allora meglio cento volte il vino, da bere rigorosamente ‘m petra(a temperatura normale). Quando questo, rosso e limpido spuntava a tavola, si levavano i calici per uno spontaneo brindisi augurale: “Viva lu vinu Sacru e cunsacratu ca di lu celu Diu l’ha mannatu; / cu non ni vivi ‘o non l’ha tastatu, vo diri ca ‘na statu mai vattiatu!/(…). Tra mottetti e canzoni, il rito finale. Raccolta una pentola di mosto novello, dopo averlo “cunsatu” le massaie ne ricavavano una squisita mostarda da servire ben calda.

 

Pubblicato su La Sicilia del 22.9.2019

CATANIA: LE ARENE DELLA MEMORIA

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Dove sono andate a finire le Arene cinematografiche di una volta? Qualcuna ancora oggi resiste a Catania,   ma per loro non è più tempo. Passata la Bella Epoque  e quella della rinascita seguita  al dopoguerra, non resta granché. Quell’aria scanzonata e romantica che una volta aleggiava in quei locali aperti soltanto d’estate, non torna più . Mancano I sublimi odori sprigionati dai gelsomini d’arabia abbarbicati ai muri perimetrali; le voci de “carusi” che tra un tempo e l’altro della proiezione reclamizzavano i gelati;  ‘u zammu’, i cazzusi ca pallina oppure il rinfrescante “Muluni russu” venduto rigorosamente a “ ‘ Fedda” “Stujiti stu mussu ca l’hai fattu ‘i muluni” ammonivano le mamme ai loro bambini.  E che dire du “Gileppu” venduto a 5 lire a bicchiere? ‘U Gileppu era uno sciroppo aromatizzato dai gusti vari( eccezionale quello alla menta) fortemente zuccherato.Si beveva ghiacciato.  Stessa musica: “Non nti nni viviri assai ca ti cascunu  ‘i Jagni”. Per terra poteva cadere di tutto, il terreno ruvido assorbiva ogni liquido.  I sedili di ferro colorati di rosso o di blu, disposti a “Filarata”, per quanto scomodi conferivano all’ambiente un modello di accoglienza unico. Non c’è più poesia” qualcuno direbbe. È vero. ‘A ‘za Jana do trappitu era la proprietaria della nota “Arena Scalia” ubicata a metà strada della V.Vitaliti. Siamo nel quartiere a Nord di Barriera del Bosco.  L’arcigna e intraprendente donna tutta casa e commercio, sosteneva che la sua non era una “Arena” ma un “Cimina all’apertu”. Un giorno un signore le chiese una informazione: “Mi scusi zia Jana, ma è lei la proprietaria dell’arena!?” Risposta: “ cchii!?...’ a quali Arena, Jiu’ Scalia mi chiamu…!”. Il cinema i cui ruderi esistono ancora, lavorava forte nei mesi estivi. Frequentato da famiglie operaie e ragazzi del luogo, I biglietti si trovavano a prezzi convenienti.  Trovare un posto a sedere diventava problematico. Veniva proiettato di tutto: dai film romantici ai western;  dai film con gli  Indiani alla guerra di secessione americana. Quando qualcuno si immedesimava troppo in John Wayne o in Clint Eastwood, ci scappava la scazzottata. Cosa che non avveniva all’arena “delle Rose” della famiglia Lombardo. Un locale più a sud dove l’ambiente era un tantino diverso. Un cinema per tutte le stagioni visto che lavorava anche in inverno nella sala al chiuso prospiciente la via del Bosco. A quell’epoca il buttafuori era un certo “Pippo Alettrico” cosiddetto perché manteneva l’ordine a suon di ceffoni. Una mano lesta come poche. Quando un gruppetto di ragazzi rumoreggiava  oltre il consentito durante la proiezione,”Alettrico” si avvicinava a loro silenziosamente. Individuato il più facinoroso della comitiva, lo puntava. Un Sihhhhh!!!  appena sussurrato e via una sonora sberla di quelle che “allampano”.  Ristabilito l’ordine, spariva. Catania comunque vanta una lunga e antica tradizione nel campo delle sale cinematografiche, molte delle quali affiancate da arene. La necessità era quella di lavorare tutto l’anno. Complice gli scenari mozzafiato naturali delle sue contrade, la nostra città attirò a se i migliori produttori registi e impresari dell’epoca. Fu anche  sede fino al primo dopoguerra di una piccola “ Cinecittà .“ Tra il 1887 anno in cui venne edificata l’arena Pacini e per quasi un secolo,   al centro storico come nelle periferie nacquero teatri e arene come i funghi. Impossibile citarli  tutti.  Dall’Arena “Augusteo”(V.Plebiscito) al “Centrale”(V.Etnea);  Dall’ “Esposizione” al “Balilla”; dall’arena Miramare(Ognina) all’arena “Buscemi”(Cibali);  Dall’Arena “Argentina” (V.Vanasco) all’Arena “Adua”(S.Nicolo’ al Borgo) queste ultime ancora attive. Non solo proiezioni ma anche spettacoli canori e teatrali.   Nel perimetro dove oggi svetta  il Grattacielo, oltre all’arena Pacini dal suo caratteristico stile moresco,  esisteva  l’arena Gangi:  la più grande in assoluto con i suoi cinquemila posti a sedere.  Prese il nome del suo proprietario, Giuseppe Gangi cui si deve l’apertura di altri rinomati locali in città.  Agli inizi del secolo scorso, gli esercizi del Sangiorgi comprendevano pure la terrazza estiva  “Kursaal” che fino al 1963, anno della sua dismissione, ospitò raffinate sfilate di moda e le migliori compagnie di Rivista dell’epoca. 

Il mito delle sale cinematografiche e delle arene già in declino  nell’ultima parte del secolo scorso, tra il 2000 e 2009 subì il colpo di grazia.  Soppiantati dalle più moderne e attrezzate “Multisala”  hanno finito per soccombere. Si salvarono in pochissimi. Molte delle arene più famose sono state demolite. In quelle aree oggi  sorgono piazze e monumenti. In qualche caso anche palazzoni in cemento armato.

 

Pubblicato su La Sicilia del 4/8/ '19

 

Nella foto, L'Arena delle Rose. Si trovava in V.De Logu, proprio dove oggi sono ubicati gli uffici della clinica Morgagni.

                            

PROVERBI PER 7 GIORNI(30)

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-AMARI CU NON T'AMA E' TEMPU PERSU(Amare chi non ti ama e' tempo sprecato)

 

-CU NON FA NENTI NON SBAGGHIA NENTI(Non facendo niente eviti certamente di sbagliare)

 

-ASSAI VALI E POCU COSTA A MALU PARRARI BONA RISPOSTA(Vale molto e costa poco una bella risposta a ogni maldicenza)

 

-UNNI C'E' 'NTERESSI NON C'E' AMURI(Dove ci sono interessi di vario genere non ci può essere amore)

 

-'A FACCI CA NON E' VISTA E' DISIATA(La persona raramente frequentata, fa nascere il desiderio di riincontrarla)

 

-CU TRAVAGGHIA SI FA LU IMMU, CU NON TRAVAGGHIA SI FA 'U GIUMMU(Chi lavora si fa la gobba, chi non lavora resta indenne)

 

-CU VOLI 'U SPASSU S'ACCATTA 'A SIGNA(Chi vuole un passatempo deve crearsi il mezzo come trovarlo)  

 

FESTA S.M.DEL CARMELO A BARRIERA EDIZ.2019

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Si sono conclusi domenica 21 Luglio a Barriera i festeggiamenti dedicati alla Madonna del Carmelo. Per oltre dieci giorni nel ridente quartiere estrema periferia Nord di Catania, malgrado l’afa, si è respirata una salubre aria di Festa. L’antica parrocchia S.M.del Carmelo anche quest’anno non ha fatto mancare nulla alla popolazione dei fedeli. Oltre al gruppo bandistico che ha girato in lungo e in largo le vie principali del quartiere agghindate da variopinte luminarie, ha promosso l’esibizione in piazza del gruppo Folklorico “Voce dell’Etna” diretto dal maestro Alfio Russo e una esilarante commedia messa in scena all’aperto dagli attori della stessa parrocchia. Domenica pomeriggio, la processione lungo le vie del Quartiere si è trasformata in un grande spettacolo di Fede e di Folklore. La Storia ormai secolare di questa festa si è ripetuta in grande stile, rispettando in pieno la Tradizione. Il Fercolo baroccheggiante con il simulacro della Madonna del Carmelo ha sfilato ordinatamente tra i numerosi fedeli in preghiera. A tirarlo, oltre ai “Veterani” con in dosso lo scapolare Carmelitano, un nutrito numero di giovanissimi devoti. La rappresentazione della discesa dello Spirito Santo avvenuta al Largo Barriera (‘A Bbiviratura) è stato uno dei momenti più suggestivi di tutta la processione. Ma anche “ ‘A pattuta de palluncini “ e l’accorata preghiera dedicata il giovane Mimmo Crisafulli scomparso alcuni anni fa a seguito di un incidente stradale hanno destato grande commozione. Da segnalare il rito della discesa dell’Angelo in V. Jacopo Lo Verde e la grande partecipazione degli abitanti di V della Paglia, una delle vie più antiche del Quartiere che ha accolto la Madonna con spari di mortaretti e festoni colorati. La banda musicale ha accompagnato lungo tutto il percorso la solenne processione. Il Parroco della chiesa S,M. Del Carmelo, don Domenico Rapisarda, si è detto molto soddisfatto della manifestazione, e nel ringraziare tutti i suoi collaboratori ha annunciando ai fedeli importanti novità per il prossimo anno.

I RITI DI SAN GIOVANNI IN SICILIA

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I RITI DI SAN GIOVANNI

Ogni cambiamento di stagione si porta dietro riti e antiche consuetudini. Quelle legate alla notte di San Giovanni, tra il 23 e 24 giugno, trovano ancora una certa pratica. Nei paesi dell’entroterra siciliano come nelle periferie delle grandi città, sono ancora più marcate. Si tratta di manifestazioni pagane che con l’avvento del cristianesimo sono state convertite ai dogmi religiosi. I nostri nonni continuano ancora a tramandarci gran parte di queste antiche usanze credute ormai definitivamente tramontate. La rapidità dei cambiamenti sociali e culturali sempre più rapidi e veloci, non sembrano avere influito di molto su questa materia. “Munnu ‘a statu e munnu è”; giusto! I tempi cambiano, la scienza avanza, le tecnologie si fanno sempre più sofisticate ma rinunciare al fascino del mistero è cosa assai difficile. “Non e’ vero ma ci credo”; e così c’è ancora chi nella notte di San Giovanni(meglio conosciuta come “la notte delle streghe) cerca di trarre presagi, curare il corpo e l’anima accendendo falò, raccogliendo erbe e recitando preghiere. Particolare funzione taumaturgica assume ‘ u risinu(la rugiada). Lasciando sopra il davanzale della finestra profumati petali di rose dentro una bacinella, San Giovanni con la sua notturna benedizione esaudirà’ i desideri di chi ne faccia abluzione mattutina. Questa è una pratica molto comune. Le tradizioni di solito variano a seconda dei diversi usi e i costumi dei luoghi, perciò la narrazione di certi eventi presenta versioni diverse da un’area geografica all’altra. Nella marineria, le preghiere di “ Sangiuvanni” servono a calmare le tempeste. In aperta campagna fanno le loro apparizioni le gustose lumache. Si consumano cotte o crude purché con le corna di fuori per mantenerne intatta l’efficacia cabalistica ad esse attribuite. In questo giorno vengono ripuliti gli alveari dell’ottimo miele: “Di San Giuvanni ‘u cupigghiuni(alveare) spanni; di San Martinu ‘ u cupigghiuni è chinu”. A essere considerata magica è proprio l’avvio della stagione estiva con i suoi manifesti eventi astronomici. Il solstizio d’estate notoriamente ha inizio il 21 di giugno, ma in realtà copre un periodo più ampio . Un momento di passaggio che porta la Terra dal predominio lunare a quello solare. Il sole percorrendo il suo più lungo viaggio nella volta celeste, determina una luminosità più accentuata e duratura. Dal 24 le giornate poi cominciano a diventare più brevi. Da qui il proverbio: “Doppu San Giuvanni ‘i jiurnati vanno accuzzari”. In epoca pre-cristiana il giorno del solstizio era considerato sacro come il Capodanno e perciò ritenuto propizio per l’acquisizione, attraverso preghiere e riti mirati, di arti magiche di ogni tipo. Sono numerosissimi i riti divinatori e cabalistici secondo i quali è possibile individuare nella natura la chiave di lettura dei singoli destini. L’argomento ha ispirato poeti e scrittori di tutte le epoche. Della “ Notte di mezza estate”, la notte cioè dove sogno e realtà si confondono, ne parlò Shakespeare nella celebre opera scritta intorno al 1595. Amori, guarigioni, presagi: nell’Abruzzo e nel Molise si dice che la mattina del 24 giugno le giovani che volgono ad oriente lo sguardo possono vedere sul disco del sole nascente il volto di San Giovanni; colei che lo avrà visto per prima si sposerà entro l’anno. Questa credenza popolare ispiro’ a Gabriele D’Annunzio i versi de “La figlia di Iorio” che proprio in Sicilia ebbe un grandissimo successo. Ancora oggi nel popoloso quartiere catanese di San Giovanni Galermo, continua la ottocentesca parata de “I pueti da Vara”. I poeti dialettali saliti sull’antico Fercolo, recitano i propri versi inneggianti al Battista. Ma il giorno dedicato al Santo evangelista è tradizionalmente accostato al Battesimo, ovvero ‘o San Giuvanni. Un vero e proprio patto in cui i contraenti, scambiandosi un vaso di profumato basilico, pronuncerebbero la formula: “Amici semu, cumpari addivintamu, quannu veni ‘a motti ni spattemu”. Si, perché “Mortu ‘u figghiozzu non c’è cchiu cumparatu”, è così. Se è vero che nei riti battesimali il figlioccio erediterebbe il carattere del padrino, questo spiega perché il padrino viene scelto sempre tra le persone ritenute migliori. Nelle famiglie modeste deve essere innanzitutto di casa; lavoratore e di sani principi. Vale per la donna quanto per l’uomo. Tra i nobili, invece, il patto consisteva nell’assegnare già un destino lavorativo al nascituro. 


Pubblicato su La Sicilia del 23 Giugno 2019

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