IMPARA A ESSERE FELICE: Intervista a Paolo Crepet
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- Category: Interviste
- Created on Friday, 06 December 2013 09:22
- Published on Friday, 06 December 2013 09:22
- Written by Massimo Maugeri
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*Tratto dal Blog letterario "Letteratitudine" di Massimo Maugeri.
Che cos’è la felicità? Cosa significa, oggi, essere felici? Si tratta di un dono, o dell’esito di una condizione che è possibile raggiungere? E ancora: è possibile essere felici in quest’epoca che – in un Paese come il nostro – pare dominata dalla tristezza, dalla rabbia e dalla frustrazione?
A queste e ad altre domande risponde il nuovo libro di Paolo Crepet: psichiatra, sociologo e – dal 2004 – direttore scientifico della Scuola per Genitori . Il titolo fornisce già un’indicazione chiara sul contenuto del testo: “Impara a essere felice” (Einaudi Stile Libero).
Ne abbiamo discusso con l’autore…
- Professor Crepet, per prima cosa credo sia importante provare a spiegare il concetto stesso di felicità. Cosa significa essere felici? E ritiene che oggi il concetto di felicità sia stato in qualche modo travisato?
Parto dalla seconda parte della domanda. La risposta è sì. Purtroppo, sì. Nel senso che molto spesso si tende a confondere la felicità con qualcosa che potremmo definire come “gioia effimera”. Ma la gioia effimera non ha nulla a che vedere con la felicità; altrimenti, se così fosse, potremmo arrivare ad affermare che anche una striscia di cocaina potrebbe dare la felicità… mentre così non è.
Il concetto di felicità è qualcosa di più complicato. Ha a che vedere con una visione sentimentale della vita e assai poco materiale. Oggi, purtroppo, molta gente pensa che per essere felici basti comprare un vestito nuovo al supermercato. Va bene anche questo, ma non chiamiamolo felicità. Sarebbe come considerare amicizia vera quella che oggi si raccoglie su Facebook.
Cos’è allora la felicità? In definitiva, è una ricerca. Non è avere qualcosa, e nemmeno essere felici in senso stretto… semmai è tentare di esserlo tenendo presente il fatto che, nel momento stesso in cui siamo riusciti a essere felici, abbiamo già cessato di esserlo. Ecco, la felicità è una ricerca continua. È un anelito. È qualcosa che ha a che vedere con la filosofia, più che con il materialismo.
- Come epigrafe del libro ha scelto questa frase di Amedeo Modigliani: “Il tuo dovere reale è di preservare il tuo sogno”. Che rapporto c’è tra il sogno (e la capacità di sognare) e la possibilità di essere felici?
Modigliani è stato un genio. Una figura che ho molto amato: un uomo che è stato felice, ma anche molto sofferente. Credo che il sogno non abbia solo il gusto del dolce. Il sogno, in verità, è anche amaro. Esattamente come la vita, che è al lordo di tutto… anche della morte e degli abbandoni. Quella frase è importante, e credo che non ci sia nulla di più bello che pronunciarla ai ragazzi per invitarli a preservare i sogni… che significa, non calare mai la testa, non abbassarsi a essere uno Yes Man. Basta guardarsi intorno per vedere quanta mediocrità c’è, oggi, in questo nostro mondo. Siamo pieni di gente che pensa che per andare avanti bisogna arrangiarsi, fare i furbetti. Sembra quasi che non ci sia più dignità, né la capacità di fare grandi sogni. E questo non è accettabile. Per questo credo che, oggi più che mai, ciascuno di noi abbia il dovere di preservare il proprio sogno.
- Lei sostiene che per molti lagnarsi è più che un vezzo, una difesa: qualcosa che si è imparato fin dall’infanzia. Dunque l’incapacità di essere felici è qualcosa che si acquisisce da bambini?
Immagini un bambino che, tornando a casa, sente il papà che si lamenta del lavoro, la mamma che si lagna di un’altra cosa, il nonno che impreca contro il maltempo… Come vuole che cresca quel bambino? Crescerà pensando che l’unica forma espressiva possibile è quella della lamentela. Io non sopporto i lamentosi. Nemmeno in un periodo di crisi come questo. È vero, viviamo un periodo duro… difficile. Ma proprio per questo, anziché lamentarci, dovremmo impegnarci a tirar fuori il nostro talento. È il momento giusto per farlo, per giocarci la nostra partita. E per giocarla in grande. A me piace vedere un incontro di calcio dove gioca il Barcellona… non una squadretta di terza categoria. A me piacere vedere il bello delle cose. Non dobbiamo accontentarci.
Ecco, bisogna insegnare soprattutto ai ragazzi che non bisogna accontentarsi. Non si tratta di superbia, ma dell’indicazione di un cammino.
Perché accontentarsi? È una domanda che vale per ogni aspetto della vita: nell’amore, nel lavoro, all’università. Oggi possiamo fruire di nuove opportunità. Pensiamo alla Rete. Già oggi, per esempio, è operativo il mercato delle stampanti a tre dimensioni con cui possiamo costruirci qualsiasi cosa.
Cerchiamo di inventarci qualcosa di più, allora. Qualcosa di nuovo. È possibile. Bisogna puntare sulla creatività senza lamentarci. Su una nuova creatività… che non è andare a X Factor a cantare una cover.
- Puntare su una nuova forma di creatività. È questo che intende, quando sostiene che per combattere questo atteggiamento “negativo” dilagante è necessario elaborare una nuova grammatica quotidiana?
Esatto. È proprio quello di cui stavamo parlando. Dobbiamo imparare a diventare imprenditori, a fare impresa… e non necessariamente nel senso commerciale del termine. E questo dipende non dal colpo di fortuna che può arrivare vincendo la Sisal o perché abbiamo ereditato qualcosa dallo zio che è morto, ma da una grammatica quotidiana che è fatta di piccoli passi, piccoli gesti, piccole ambizioni, piccole conquiste. Come preciso in un capitolo del libro, la felicità è anche l’esito di piccoli gesti quotidiani. L’importante è che vadano in quella direzione.
Mi viene in mente Tonino Guerra, un uomo che ho tanto ammirato per il modo che aveva di vivere, di sognare e di farci sognare. Ecco, a volte basta anche il profumo di un fiore secco, uno sguardo su una collina. L’importante è che sia qualcosa di originale. È questo il senso: bisogna essere innovativi e originali. E l’originalità, la visionarietà, sono qualità che dobbiamo coltivare dentro di noi. Non a livello esteriore. Essere originali non significa tingersi i capelli di viola, per intenderci.
- C’è un capitolo del libro il cui titolo colpisce particolarmente. È il seguente: “Il lavoro non rende liberi. E nemmeno felici”. Cosa significa?
Significa che l’etica del lavoro in cui siamo stati immersi per così tanto tempo, quella del lavoro ripetitivo, di cui hanno avuto bisogno gli industriali fino a qualche tempo fa, quella che ha coinvolto così tanti uomini che come formichine entravano in fabbrica all’alba per ripetere sempre gli stessi gesti fino all’ora di pranzo e oltre, per poi tornare a casa, andare a dormire e rialzarsi il mattino successivo per ricominciare tutto da capo… ecco questo tipo di etica del lavoro non funziona più.
Io ho un’idea del lavoro diversa. Un’idea che oggi, finalmente, può essere attuabile anche in un Paese come il nostro. Penso a una forma di lavoro che possa essere in qualche modo liberata dalla ripetitività e dall’assenza di fantasia. L’altro giorno ho letto una notizia che riguardava un importante manager francese che è stato per due mesi su un atollo, da solo. Per due mesi ha condotto la sua azienda da lì. È qualcosa di sensazionale.
Ecco. Penso che oggi sia possibile immaginare il lavoro in questi termini: lavorare rispettando tempi ed esigenze personali, coniugando la produttività e l’impegno con la possibilità di godersi la vita. Non è una cosa per “ricchi” o “intellettuali”. È qualcosa che potrebbe essere attuata per tutti. È questa, oggi, la vera rivoluzione.
- Lei invita a non arrendersi mai all’idea che la felicità possa non esserci… anche perché ci sarà sempre, vicino a noi, qualcuno che avrà bisogno di intravederla nei nostri occhi. Le chiedo: l’imparare a essere felici, implica dunque una sorta di responsabilità personale che ha una valenza non solo nei confronti di noi stessi, ma anche nei confronti degli altri?
Sì, ma non si tratta di un compito attivo. Io ho capito cos’è la felicità vedendola negli altri. Penso a mio nonno, per esempio. Penso a quando costruimmo insieme un aquilone, alle ore che ho trascorso con quel vecchio ad appiccicare la carta e realizzare questo oggetto meraviglioso che poteva volare. Per me era questa la felicità. Ma ero felice perché lui era felice. È importante capire questo. Costruire l’aquilone era qualcosa che lui faceva per sé (non per me) e che lo rendeva felice; ma la sua felicità, di conseguenza, rendeva felice anche me. Ecco il senso della felicità: essere felici per sé e, di conseguenza, per gli altri. E ridere. Ridere insieme. È sempre possibile farlo, nonostante le difficoltà.
È paradossale, ma ridono di più le persone che sbarcano a Lampedusa che quelli che giocano in Borsa a Milano.
- Quest’ultima è una frase emblematica e che fa riflettere. Grazie per la disponibilità, professor Crepet.