SAN VALENTINO AL TEMPO DEL COVID
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- Category: Moda Costume e Società
- Written by Santo Privitera
Sarà un San Valentino inedito quello che le coppie innamorate si apprestano a trascorrere quest'anno..Un San Valentino povero ma non per questo meno romantico. Una cenetta in casa, a lume di candela e con le rose rosse sul tavolo si po' sempre fare. Non mancheranno i baci, e lo scambio di doni ci sarà lo stesso. Senza mascherina e senza distanziamento sociale, perché quando una coppia si ama non c’è lockdown che tenga. Per i ristoratori, invece, i tempi purtroppo sono decisamente bui. Nelle discoteche il silenzio è spettrale. “Ppi st’annu, si ponnu stujiari ‘u mussu” afferma sottovoce il solito uomo della strada che aggiunge: “Finu a oggellànnu si diceva: Ppi San Valentinu, ogni lucali è chinu!”… Questa ricorrenza è considerata la festa degli innamorati per antonomasia. Sarebbe stata istituita da Papa Gelasio I in sostituzione dei riti pagani dedicati a Luperco, Dio della fertilità. Secondo una delle tante versioni esistenti, Valentino di Terni sarebbe stato un Sacerdote del III secolo d.C. Quando l’imperatore romano Claudio II vietò i matrimoni perché riteneva che gli uomini fossero più utili nei campi di battaglia piuttosto che tra le mura domestiche, Valentino lo sfidò decidendo di sposare giovani coppie in cerimonie clandestine. Considerato un grave reato agli occhi dell’imperatore, il sacerdote venne arrestato e decapitato il 14 di febbraio del 274 d.C. La chiesa cattolica lo proclamò Santo quasi subito. La diffusione della figura di San Valentino come Santo patrono dell’amore ha però un’origine letteraria. Il merito è da attribuire allo scrittore inglese Geoffrey Chaucer, che alla fine del ‘300 scrisse in onore delle nozze tra Riccardo II e Anna di Boemia “The Parliament of Fowls”( Il parlamento degli uccelli), un poema in 700 versi che associa Cupido, il mitico “arciere” dell’amore, proprio a San Valentino. Il tema dell’amore ha sempre avuto un ruolo privilegiato nella storia dell’umanità; tantissimi autori noti e meno noti hanno tratto ispirazione da questo evento. Tanta la produzione. Poesie, lettere d’amore, epigrammi, canzoni, poemi e molto altro ancora. Questo per quanto riguarda la letteratura; non parliamo dell’arte in generale. Anche nei periodi più bui della storia gli innamorati trovavano sempre un modo per incontrarsi o per scambiarsi vicendevolmente doni ed effusioni. “Si tu voi,/ li tò lacrimi d’amuri/ addiventanu acquazzina pi la me siti; ma si non voi, e moru,/ chiùdimi nta lu diario/ cu li to’ pinzèri(…) scrive la poetessa contemporanea Agata d’Amico Castorina nella lirica “Si ju fussi na rosa”. Quando il San Valentino non era ancora una festa consumistica, veniva vissuta dagli innamorati in modo diverso. Dalle nostre parti, i genitori delle ragazze mai e poi mai avrebbero acconsentito di mandare le proprie figlie a cenare a lume di candela con i rispettivi fidanzati. Men che meno a mandarli in un locale da ballo. Se festa doveva esserci, questa doveva svolgersi in famiglia. Per le ragazze che erano “Zite ammucciuni” ovvero fidanzate senza che lo sapessero i genitori, questa ricorrenza diventava quasi un’ossessione. Da un lato c’era l’attesa del bigliettino d’amore con dentro cuoricini e profumatissimi petali di rosa che il fidanzato le avrebbe fatto recapitare di nascosto; dall’altro la paura che il sotterfugio si scoprisse. Per questo motivo, in occasione della ricorrenza dedicata agli innamorati, i familiari stavano particolarmente in allerta. Guardavano a vista soprattutto i vicini di casa considerati potenziali “ruffiani”(complici). Tra le manifestazioni amorose più tradizionali vi era la serenata. “ ‘A tturna”, come veniva chiamata, dai tempi dell’amor cortese e fino a che nella prima metà del ‘900 non passò di moda, era considerata la dimostrazione amorosa più schietta e sincera. I testi quasi tutti di estrazione popolare, ancora oggi sono considerati dei piccoli capolavori della letteratura. Li troviamo nelle carte di alcuni tra i più famosi poeti dialettali: da Antonio Veneziano ad Alessio Di Giovanni; come pure nelle trascrizioni degli antropologi Serafino Amabile Guastella, Leonardo Vigo e Giuseppe Pitrè. Oppure negli spartiti musicali della raccolta F.P.Frontini, visto che la musica “vestiva” i versi in modo perfetto. “Lu sonno di la notti m’arrubbasti/ e lu purtasti a dòrmiri ccu ttia “ è il celebre distico d’una canzone villereccia cui molti poeti siciliani si ispirarono. Una Sicilia, questa, oggi lontanissima che ha avuto in Giovanni Formisano, autore della celebre mattinata “E Vui durmiti ancora”, uno degli ultimi suoi esponenti di punta.
Pubblicato su La Sicilia del 14.02.'21
SANT'AGATA SCONFIGGE LA PESTE A CATANIA
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- Category: Storia e tradizioni popolari
- Written by Santo Privitera
Come se terremoti ed eruzioni laviche non bastassero, Catania nel corso dei secoli è stata segnata anche da terribili eventi pandemici. Colera, vaiolo e peste, soprattutto. Spesso il morbo arrivava via mare, dai bastimenti che, provenienti da varie parti del mondo, attraccavano al porto. Le carenze igieniche dei bassifondi, completavano il quadro di un fenomeno che si presentava a cadenza periodica. Impossibile fare previsioni. Ai primi sintomi tra popolazione, la marineria cominciava a prendere le prime precauzioni concentrando il posizionamento delle imbarcazioni sospette in un un punto prestabilito del molo. Le ciurme poste in quarantena venivano sorvegliate a vista perché nessuno dei marinai si azzardasse a sbarcare. Si rischiava la pena di morte. Una volta scoppiata l’epidemia, si correva ai ripari. I corpi caricati su grandi carri trainati da robusti cavalli, dopo essere stati adeguatamente “annegati” nella calce viva, venivano seppelliti nelle fosse comuni. Al “boschetto della Playa” luogo a quel tempo impervio e inaccessibile, di “Fosse mortuarie” se ne scavarono parecchie. Nella città Etnea, la peste fu un vero flagello. Cominciò a imperversare sin dal 419. Più virulenta ancora fu quella che si presentò-ricorda lo storico Cordaro Clarenza-oltre tre secoli dopo, nel 741. Ne seguirono altre nei secoli successivi. La medicina poco o nulla poteva. La popolazione del tutto impotente, quando non ricorreva alle pratiche magiche che sconfinano spesso nella stregoneria, si affidava alla intercessione dei Santi. La protezione di Sant’Agata si fece sentire anche in questi casi. Nel 1575-lo ricorda una lapide fatta murare a Palazzo Asmundo, in via plebiscito-il morbo esiziale della peste imperversò in Sicilia a più riprese. Durò oltre due anni. La popolazione stremata si rivolse all’amata Patrona concittadina. Raccontano le cronache che proibiti gli assembramenti, i catanesi ottennero di far portare in giro le reliquie di Sant’Agata ai soli chierici; senza il popolo, per paura del contagio. Alla “Porta di Aci” invece la folla ruppe il “Cordone di sicurezza” approntato dai gendarmi e con grida e pianti si unì alla processione penitenziale. Le Sacre reliquie furono portate fin dentro gli ospedali. E qui che sarebbe avvenuto il Miracolo. Gli ammalati si alzarono mescolandosi al popolo. Invece del contagio si ebbe la guarigione di tutti gli appestati. A ricordo di quell’evento, fino agli inizi degli anni ’60 dello scorso secolo, il 17 giugno una reliquia del corpo di Sant’Agata veniva portata in solenne processione lungo le vie del Centro storico. Ma la storia ricorda un altro miracolo stavolta avvenuto nel 1742. Quell’anno a Messina scoppiò un’epidemia di peste che nella sola città falcidiò quasi 30.000 persone. Ne rimasero in vita solo 9000, sicchè si ebbe anche difficoltà a reperire il personale addetto ai seppellimenti. Causa del contagio, una nave proveniente da Genova. Molti superstiti sfollarono verso Catania facendo temere il peggio ai suoi cittadini. Si verificarono i primi contagi. La popolazione invocò la protezione di Sant’Agata. Poche furono le vittime, mentre la maggior parte delle persone colpite guarirono prodigiosamente. A ricordo di questo evento, nel 1744 i catanesi fecero erigere un monumento che ancora oggi campeggia a piazza del Martiri, meglio conosciuta dagli antichi catanesi col toponimo di “Chianu ‘a Statula”. Si tratta della statua che raffigura Sant’Agata nell’atto di scacciare un drago alato simbolo della peste. La pregiata opera del palermitano Michele Orlando è posta su un’alta colonna sormontata da capitello dorico, a sua volta poggiata su un artistico basamento a forma di parallelepitedo. Colonna che un tempo ornava l’anfiteatro romano. L’aureola luminosa( oggi inspiegabilmente spenta) venne impiantata la sera del 15 agosto del 1951, quando nel programma celebrativo del 17° Centenario del Martirio della Santa Patrona, premendo un pulsante dal suo studio di Castelgandolfo, venne accesa direttamente via radio dalle mani di Pio XII.
Pubblicato su La Sicilia del 05.02.’21
Nella foto, Piazza dei Martiri, a Catania: la scultura raffigurante Sant'Agata che sconfigge il drago simbolo della peste.
CICCIO BUCCHERI BOLEY, POETA SATIRICO CATANESE.
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- Category: Biografie
- Written by Santo Privitera
Se i poeti satirici della prima metà del ‘900 tornassero in vita, chissà cosa scriverebbero della Catania attuale. Certo non la riconoscerebbero più. Nel frattempo si è estesa nelle periferie; sono sorti altri quartieri ma il Centro storico, a parte le moderne automobili e i mezzi pubblici che hanno sostituito le carrozze, non è cambiato granchè. E’ rimasto però nei suoi abitanti il carattere focoso e quella certa ironia che tradotta in termini popolari più moderni è meglio conosciuta come “Liscìa”. Insomma, la Catanesità è rimasta quella di allora; oggi amplificata e divulgata maggiormente grazie alla tecnologia. “Facebook”, “Wahatsapp” “Messenger” e diavolerie varie: “Ah chi ssu sti cosi?....si magiunu!!??” No caro Francesco Buccheri Boley detto “Ciccio”…si digitano” …“Ah!!!?”. Appunto!...Ciccio Buccheri Boley, chi era!!?? Era un poeta Satirico catanese vissuto a cavallo tra l’800 e il ‘900. A quell’epoca la città etnea pullulava di nomi altisonanti nel campo della poesia dialettale e non. Nino Martoglio, Giuseppe Nicolosi Scandurra, Giovanni Formisano, Agatino Perrotta(Cèrvantes) furono tra questi. Un certo Mario Rapisardi era ancora in vita, e con i suoi irruenti versi combatteva contro il mondo intero. I giornali satirici non mancavano di certo; anzi, per dirla “ ‘a Catanisa”: proliferavano come le “caramelle carrubbe”. Nato nel 1878, la sua scomparsa risale al febbraio del 1961; quando Catania, in pieno sviluppo economico e sociale, si apprestava ad essere la “Milano del sud”. Lo ricordiamo adesso a sessant’anni dalla sua scomparsa. Per quei tempi fu un poeta estroso; lo si intuisce già da quel “Boley” aggiunto al suo nome e cognome di battesimo. “Boley” era la marca di un tornio ad alta precisione, utilizzato nei laboratori di orologeria. Lui che faceva questo mestiere lo volle fare suo. Intendeva sembrare “sbrex”, come direbbero di giovani d’oggi, ovvero molto sbarazzino. “Comu ‘u virìti ‘u scriviti” dicevano di lui i catanesi che lo conoscevano bene. Egli ne andava fiero tanto da descriversi in una delle famose liriche dialettali: “ ‘N metru e cinquanta è la statura mia,/ curpuratura e frunti rigulari;/ Lu nasu pari ‘na gran ciminìa/ ‘na cosa ca fa a tutti stranizzari!.../ Occhi sgridati, vucca picciridda,/ Ed un mustazzu grossu a la sbirragghia,/ Lu varvaròttu quantu ‘na nucidda,/ E pri lu restu…amaru cu’cci ‘ngagghia!...” (Lu mè ritrattu)”. Abitando in via Vittorio Emanuele a pochi metri da piazza Duomo, amava recarsi tutte le mattine a salutare l’elefante di pietra ”. “Molte delle sue liriche”-afferma la nuora Nuccia Meo Bucchieri di Boley,- “sarebbero nate proprio sotto l’ombra ispiratrice dell’amato Liotru”. Cicciu Buccheri collaborò con quasi tutte le riviste satiriche esistenti a quell’epoca in città: Dal “D’Artagnan” di Nino Martoglio, al “Lei è Lariu”; dal “Piss…Piss” a “Scupa”. Salvo rare eccezioni, la sua fu sempre una “Toccata e fuga”. La vena polemica che lo caratterizzava, lo faceva inevitabilmente cozzare anche con i suoi colleghi. I malcapitati presi di mira, alcuni dei quali “notabili della città” minacciarono querele a mai finire. Provò per qualche tempo a dirigerne una di queste riviste, ma dovette lasciare per evitare di mettersi seriamente nei guai. Non perse mai la voglia di pubblicare libri di poesia. La sua produzione fu cospicua; scrisse 23 opere. “Cari ricordi” fu la prima, realizzata in età giovanile nel 1899. Qui il contenuto delle poesie mostravano un certo romanticismo di fondo, tant’è che molte di esse vennero musicate da noti musicisti dell’epoca. Tra questi ricordiamo Nunzio Tarallo, il suo più grande amico purtroppo perito nel corso della Prima guerra mondiale. Quelle che seguirono furono opere tutte satiriche: “Tempu persu”, “Amuri e peni”, “Cicalati”, “Cori di tigri”, “Mali frusculi”, “Cannunati”, “Cosi cu micciu”, “Vasuni e nirvati” ed altre. La sua fu una satira molto pungente e realistica al tempo stesso, tendente a mettere a nudo i vizi di una certa borghesia catanese che mostrava titoli che non possedeva: “ All’autru jornu ‘nta la piscaria/ ‘a vuci forti dissi: …Cavaleri”/ si nni vutàru, su l’onuri miu…/ ‘na cinquantina, davanti e dàrreri…/ Ma chiddu ca mi fici stranizzari/ fu ca ‘n va porta si vutò macari!!!/ (Non c’è cchiù munnu). I va porta della pescheria erano ragazzi molto poveri che per guadagnarsi qualche spicciolo, aiutavano i clienti a portare la spesa. Figura da tempo scomparsa. Durante l’epoca del fascismo in cui la satira era guardata con sospetto, si inventò una poesia “criptica” allusiva e dal vago sapore licenzioso. Nel dopoguerra cominciò a satireggiare sulla politica, imprimendo ai suoi componimenti un tono di denuncia contro le carenze amministrative della sua città. Rimase coerente sino alla fine. Lo scrittore e critico Renato Pennisi annota: “mentre il poeta agonizzava, si era già nel pieno clima della festa di Sant’Agata. Sentendo i botti fragorosi delle “Muschitterie” si sarebbe lasciato scappare: “Staiu murennu e mi stanu sparannu ‘u focu!!!”.
Nella foto di Francesco Buccheri Boley
Articolo pubblicato su La Sicilia, domenica 07.02.'21